Esistono
fame usurpate ed esistono patenti di nobiltà culturale consegnate
troppo in fretta, da un’opinione pubblica male informata e largamente
strumentalizzata; un caso notevole ci sembra quello di James Hillman,
che un imponente apparato mediatico vorrebbe presentarci come uno dei
massimi maestri del pensiero contemporaneo.
Per
Hillman, la religione è una nevrosi e il cristianesimo è una nevrosi
particolarmente virulenta e molesta: essa nasce da una arbitraria,
esecrabile pretesa di distinguere il bene dal male e getta gli uomini
nello sconforto dello sdoppiamento, della frustrazione e della
depressione, nei casi più gravi nella schizofrenia.
La
persona sana, infatti, per Hillman è totalmente non dualista, così come
lo erano i Greci e così come lo sono i popoli che possiedono delle
credenze di tipo animista: imprestando un’anima a tutte le cose della
natura e individuando in esse la presenza di un duplice principio,
creativo e distruttivo, essi sono al riparo dalla nevrosi del dualismo e
vivono armoniosamente i diversi aspetti della propria personalità,
l’ombra e la luce, il richiamo dell’alto e quello del basso, la ragione e gli istinti, la cultura e la natura.
Ma
il cristianesimo si oppone a questa armonia, a questa completezza, a
questa intima pacificazione dell’uomo; esso vorrebbe vedere l’uomo
eternamente travagliato dal dissidio interiore, eternamente prostrato
dai sensi di colpa, per poterlo meglio dominare e sfruttare, per poterlo
meglio manipolare a suo piacimento: se non ne provocasse la malattia,
non potrebbe poi proporsi come strumento della sua salvezza e della sua
liberazione.
Ovviamente,
per Hillman la liberazione la salvezza offerte dal Cristianesimo sono
false e bugiarde come gli dei pagani di cui parla Dante: la sola vera
liberazione e la sola vera salvezza sta nel ritorno all’archetipo
dell’ermafrodita originario, del dio buono e cattivo, della creazione
della distruzione contemporaneamente presenti: in breve, nell’archetipo
che la sua stessa filosofia propone agli uomini, se necessario
curandoli, almeno nei casi più gravi, come dei malati piuttosto gravi,
ciò che davvero ritiene essi siano.
Bisogna,
allora, eliminare il Cristianesimo dal mondo e dalle coscienze, perché
esso è l’ultimo ostacolo sula via della liberazione e della pace; non
semplicemente tentare di riformarlo, come, secondo lui, aveva fatto il
suo maestro Carl Gustav Jung; no, bisogna eliminarlo e oltrepassarlo,
lasciarselo alle spalle come un lungo e penoso errore che ha ritardato
di secoli lo sviluppo armonioso dell’umanità - proprio come predicava un
certo Nietzsche.
Così,
dunque, James Hillman scaglia la sua offensiva contro la nozione non
solo del peccato, ma proprio del male in quanto tale, e contro il
Cristianesimo che ancora la possiede e la trasmette (in: J. Hillman, «Il
linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo» (titolo
originale: «Inter Views», 1983; traduzione dall’inglese di Stefano
Galli, Milano, Rizzoli Editore, 2003, pp. 114-15, 119-21):
«Un’altra
nozione cristiana che incontriamo continuamente in psicologia è la
nozione di male. Di nuovo, nel mondo greco non c’era nessun principio
particolare del male; non c’era un diavolo. Il male non era separato dal
bene in modo radicale. L’ignoranza, la deformità e altri difetti
esistevano nel pensiero socratico, ma ogni divinità aveva il suo modo di
essere distruttiva. Dioniso poteva essere il liberatore e Dioniso
poteva essere il distruttore e soprattutto i due aspetti potevano
coesistere NELLO STESSO MOMENTO. Potrebbe immaginare, anche per un
attimo, che Cristo il Salvatore sia allo stesso tempo Cristo il
Distruttore? Che il Dio dell’amore possa anche portare la morte? Come
Dioniso, Apollo e Afrodite? Per noi, un’idea simile è intollerabile. La
mentalità cristiana non ammette, non permette, una possibilità
distruttiva co-presente e co-estesa, come si usava dire, con l’amore, il
bene e la salvezza. Il Cristianesimo deve quindi ricorrere ai
meccanismi di difesa, e negare, scindere e proiettare sul nemico gli
aspetti distruttivi - il pagano, l’ebreo, il cattolico, il protestante,
il terrorista… Dopo di che, deve cercare di recuperare le parti scisse,
convertendo il nemico, o amandolo, o porgendo l’altra guancia. È
intrappolato dal suo stesso meccanismo di difesa. Ha trasformato la
scissione in dogma, ha glorificato come “problema del male”. La
mentalità greca, d’altra parte, era abbastanza sottile per sapere che la
realtà non può essere scissa. Tutto è mescolanza. Il bene e il male non
esistono, o più esattamente, c’è il bene-E-male, perché l’ombra è
ovunque, e non è un principio separato. Ma il Cristianesimo ama la mente
infantile, è una religione dell’archetipo del figlio, perciò valorizza
la semplicità, che fin dall’inizio rinvia all’unità, non alla
sottigliezza. Il Cristianesimo auspica una visione “monoculare” - è
Paolo, o Gesù stesso, ad averlo affermato? Gli aspetti
distruttivi sono separati ed espulsi, e sono trasformati in un’idea
indipendente chiamata “male”. Così la persona singola comincia a
considerare cattive alcune parti di se stessa, e a separarle dalle
cosiddette parti buone. È la rimozione. L’ombra. Con tutto quel che
segue.
Il
paziente chiede continuamente cosa non va, di cosa dovrebbe sentirsi
colpevole, nella speranza di correggersi - di liberarsi dal male -
invece di rivolgere l’attenzione a cosa stia realmente accadendo, come
farebbe con qualunque fenomeno naturale. Un surfista vede un’onda
particolarmente alta avvicinarsi alla riva. Non è buona né cattiva: si
tratta di guardarla, valutarla, decidere se affrontarla o arretrare.
Oppure siamo in un bosco e scorgiamo una volpe: restiamo in silenzio,
immobili, e la osserviamo. I primi sentimenti sono la curiosità,
l’interesse, lo stupore, l’eccitazione - ma l’idea che la volpe sia
malvagia ci spinge ad allontanarci. Ci chiediamo: è un buon segno o un
cattivo segno? È un bel sogno o un brutto sogno? Ho fatto bene o ho
fatto male? Così smettiamo di fare attenzione all’immagine, a quello che
accade realmente, e ci immergiamo nella nostra mente per un esame soggettivo delle motivazioni. Torniamo nell’Io e voltiamo le spalle alla volpe. La
colpa rinforza sempre l’Io, è il più puro meccanismo di difesa che l’Io
abbia a disposizione. Sotto il mantello dell’autocritica e
dell’autoumiliazione, ci riporta al vecchio Io della cultura cristiana, e
all’osservazione della psiche attraverso le lenti del moralismo.»
Si
resta veramente perplessi davanti al fatto che un uomo di cultura,
famoso e applaudito in tutto il mondo, abbia potuto così scopertamente
falsificare il Cristianesimo e fabbricarsene uno di comodo, per poterlo
bersagliare con gli strali della sua facile critica, dall’alto di una
“scienza psicanalitica” che pretende non solo di saper tutto, ma di
porsi, in virtù di una evidente contraddizione logica, al di sopra di
tutti i paradigmi spirituali e religiosi, come se essa ed essa soltanto
fosse un dato oggettivo ed auto-evidente, e tutti gli altri non fossero
che “miti” fabbricati dall’uomo per placare il suo bisogno di sicurezza e
per lenire la sua paura dell’ignoto.
Quando
afferma, ad esempio, che il Cristianesimo getta il male fuori di sé e
ne fa un principio autonomo per poterlo combattere dall’esterno,
chiamandolo Diavolo, sta truccando le carte, non si sa se
deliberatamente o per pura e semplice ignoranza. Il Cristianesimo,
infatti, non sostiene affatto che TUTTO il male viene dall’esterno ed è
riconducibile al Diavolo; afferma, semmai, che esso è presente nel cuore
dell’uomo come “ferita” risalente al Peccato originale, che inquina la
sua natura originariamente buona; e solo in virtù di tale presenza del
male, come disponibilità al peccato, il Diavolo può trovare un terreno
fertile per le sue tentazioni. Perciò il cristiano non è né infantile né
semplicistico quando ritiene di doversi difendere ANCHE dal Diavolo,
perché egli sa che esiste un male che è in agguato nelle sue stesse
profondità; sa, in altri termini, di essere potenzialmente soggetto di
bene e di male, di poter tendere verso l’alto o verso il basso.
E
qui entra in gioco l’aspetto più importante e più innovativo della
visione cristiana, quello della libertà: proprio perché libero di
scegliere fra il bene e il male, l’uomo sa di potersi giocare la partita
della sua vita, quella terrena e quella ultraterrena, con un mazzo di
carte non truccato, al termine della quale dovrà rivolgere a se stesso
la lode o il biasimo per il risultato finale e non, come facevano gli
antichi, prendersela con il caso o con il fato, due principi, quelli sì,
infantili e deresponsabilizzanti, perché spostano puerilmente fuori di
lui, in una dimensione capricciosa e incomprensibile, la responsabilità
del suo agire e della sua sorte.
Il
paragone col surfista o con colui che osserva una volpe nel bosco sono
abbastanza pietosi sul piano filosofico e anche su quello psicologico:
perché, appunto, sono desunti dal mondo naturale, mentre qui si dovrebbe
discutere, e non semplicemente dare per scontato, se esista una realtà
soprannaturale, e poi dove finisca quella naturale e dove incominci
quella soprannaturale. Secondo Hillman, non dovremmo chiederci se una
cosa è buona o cattiva, se abbiamo agito bene oppure male: non dovremmo
dare giudizi morali, mai, perché così facendo creiamo una divaricazione,
un dualismo, una schizofrenia, e solo tornando all’unità originaria
possiamo evitare un simile destino (strano, comunque, perché più sopra
aveva affermati che il cristianesimo è semplicistico proprio in quanto
tende al’unità). Quindi non devo dire che calunniare, rubare, ammazzare
sono azioni cattive, né devo dire che aiutare, confortare, sostenere
sono azioni buone, perché, facendolo, alimenterei questo pericoloso
dualismo che, presto o tardi, mi porterà sul lettino dello psicanalista.
E
a dirlo è proprio uno psicanalista; un discepolo di Jung, che, però, di
Jung ha preso la tecnica e una certa impostazione generale, ma senza la
sua sottigliezza, la sua delicatezza, la sua capacità di cogliere le
sfumature: un discepolo di Jung che ha deciso di redimere il mondo dalla
nevrosi religiosa mediante il ripristino dell’animismo e del politeismo
antichi, mediante il recupero della mitologia greca, anzi, di qualunque
mitologia purché non cristiana: perché la mitologia cristiana, come lui
la chiama, è intrisa dell’idea - bigotta e patologica - della
distinzione fra il bene e il male, distinzione che, in realtà, non
esiste.
Ebbene,
è perfettamente vero che nell’Essere, in quanto tale, non vi è più
distinzione di bene e di male; ma non perché, come vorrebbe, ad esempio,
la mitologia induista - quella sì, ci si permetta di dirlo, un po’
semplicistica e rudimentale - il bene e il male siano entrambi
contemporaneamente presenti, bensì perché il bene e il male sono una
polarità che è propria della dimensioni contingente, mentre l’Essere è,
per definizione, l’assoluto.
I
comuni mortali, tuttavia, Hillman compreso, non vivono a tali altezze
siderali e raramente vi si avvicinano; essi vivono nella sfera del
contingente e dell’effimero, e devono fare i conti con una
realtà fenomenica in cui bene e male esistono eccome, non sono
astrazioni o illusioni e nemmeno ipostatizzazioni di punti di vista
soggettivi; esistono perché il mondo contingente e fenomenico è
imperfetto, e nella dimensione dell’imperfetto nulla evidentemente è
perfetto, cioè perfettamente buono, ma tutto presenta sempre un’ombra o
una traccia di imperfezione, dunque di male.
Quanto
al fatto che il senso della colpa sia un meccanismo che rinforza
straordinariamente l’Io, questo è vero; ma Hillman, per la deformazione
professionale propria di tutti gli psicanalisti, si è dimenticato di
aggiungere: specialmente per l’Io malato. L’Io sano, infatti, non vive
la colpa come strumento di difesa e di rafforzamento di se stesso; la
vive, semplicemente, come conseguenza di una cattiva azione, che rimorde
alla coscienza.
Già;
ma come ammettere una cosa tanto semplice, se si è appena negato che
esista qualcosa come la cattiva azione; anzi, se si è appena negato che
esitano, in se stessi, il bene ed il male? Se si è appena sostenuto che
solo le persone malate, in particolar modo le persone malate di
cristianesimo, vedono ovunque il bene e il male, che ne sono
ossessionate e che questa ossessione si manifesta appunto in una
preoccupante ipertrofia dell’ego?
E
perché, infine, discernere il bene dal male sarebbe un esercizio di
“moralismo”? Ecco il cattivo filosofo, che usa le parole con furbizia,
che sfodera quelle che più piacciono alla massa, demagogicamente, ma
senza darsi il minimo pensiero di giustificarle, di motivarle. Perché
distinguere il bene dal male sarebbe un atto moralistico” e non un atto
“morale”? Forse perché è più facile attaccare la morale se la si fa
passare, denigrandola, per la sua sorella spuria, per la sua sorella
gobba e deforme, il moralismo ipocrita e bigotto?
Altro
che grande pensatore; e il libro-intervista è tutto così, o anche
peggio. Come nella novella di Andersen, il Re è in mutande: quando si
alzerà la voce d’un bambino a proclamarlo forte e chiaro?
di Francesco Lamendola - 18/10/2012
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.