In questi ultimi tempi i cardinali parlano un giorno sì e l’altro pure. Non si domandano mai, evidentemente, se abbiano per caso qualche cosa da dire: parlano.
Ce n’è uno che non solo è sempre a bocca aperta, ma urla come un dannato senza mai dir nulla di nuovo, oltre ad un suo gratuito e stantio riferimento a Madre Teresa di Calcutta e a S. Francesco.
Un altro, assiduo frequentatore di “cortili dei gentili”, è l’emblema stesso della superficialità. Un terzo, teutonico, dal volto quasi sempre ombroso e duro anche quando ride, si vanta d’ispirare la propria teologia al pensiero di Schelling. Forse per questo, commemorando a Salamanca il cinquantenario del Vaticano II, ha dichiarato che “l'intenzione (del Concilio) era quella di tradurre nel linguaggio dei nostri giorni la fede tradizionale”. Come se ciò fosse possibile senza danno per la fede stessa.
Il danno, però, non può essere neanche sospettato da un idealista schellinghiano, per il quale vale non la rivelazione di Nostro Signor Gesù Cristo, ma ciò che Schelling ultima maniera chiamò rivelazione. Una rivelazione avvenuta una volta per sempre e quindi sempre valida ieri oggi e domani, per un idealista, e schellinghiano per giunta, è un assurdo. E perché assurda non sia la fede, egli la traduce nel linguaggio dei nostri giorni, impregnato di pensiero idealista, razionalista, storicistico e decisamente alieno da un suo respiro soprannaturale. La conseguenza è che la sua non è più, non può più essere la fede predicata da Gesù e dagli apostoli.
Qual è, allora, la fede inculcata ed illustrata da questo porporato, così sensibile al linguaggio dei nostri giorni e così proclive a mescolarvi e snaturarvi il contenuto della Rivelazione e della Tradizione?
La risposta è da lui stesso suggerita: il compromesso.
Loda i Padri conciliari perché avrebbero compiuto “non un semplice adeguamento (della fede) ai tempi”, ma un suo effettivo imparentamento con la cultura contemporanea ed una sua riformulazione in piena aderenza al nuovo rapporto dalla fede stessa instaurato col mondo. E poiché una sola poteva essere la strada da percorrere per giungere all’imparentamento e alla riformulazione, quella del compromesso, i Padri per primi l’avrebbero percorsa, lasciando a noi il compito d’imitarne l’esempio.
Che i Padri conciliari si siano inoltrati in quella strada è purtroppo vero; non fu un loro merito ed il menarne vanto è anacronistico e contraddittorio. Che però i loro figli (cioè noi), percorrano di nuovo e fin in fondo quella medesima strada nonostante che l’anacronistico ed il contraddittorio siano oggi alla luce del sole, ha qualcosa che ricorda un detto famoso: “errare humanum est; perseverare diabolicum”. Eppure, proprio questo consiglia l’eminente porporato schellinghiano, dimostrando di non conoscere affatto il significato di ciò che consiglia.
Il compromesso è, paradossalmente, un accordo di soggetti in disaccordo. Con esso le parti in disaccordo rinunciano, “pro bono pacis”, a qualcosa d’irrinunciabile: rinnegano, dunque, alcuni dei propri principi etici ed alcune delle proprie ragioni. Se invece anche il porporato schellinghiano conoscesse che cosa significa la parola compromesso, ne deriverebbe che per lui fedeltà e tradimento sono la stessa cosa.
Certo è che la sua intelligenza, schellinghianamente aperta al nuovo, potrebbe individuare una novità soltanto sul piano non d’una “rivelazione” pregressa e lontana nel tempo, ma emergente sempre di nuovo dalla situazione in atto. E rivelazione diventerebbe allora tutto e il contrario di tutto: la collegialità dell’episcopato, la corresponsabilità dei laici nella missione della Chiesa, l’autonomia delle chiese locali e via di questo passo. È il passo che il Concilio decisamente mosse, senza portarsi fin al traguardo del suo tragitto; ma il porporato teutonico schellinghiano ne raccoglie il testimone e lo deposita ben al di là del punto sul quale il Concilio s’era arrestato.
L’ambito in cui operare è indicato con significativa insistenza: quello della unità. Parrebbe addirittura indilazionabile la definizione di una nuova idea di unità, una “sua nuova comprensione”, derivante dalla “nuova comprensione della Chiesa”. Peccato che un così “illuminato” cardinale si areni davanti alla necessità di spiegare al colto e all’inclita che l’unità diversa non esiste e che, se al suo interno qualche diversità affiorasse, cesserebbe d’essere unità. Queste infatti son per lui sottigliezze; la nuova idea di unità discende per lui dal dialogo interecclesiale: il dialogo c’è, dunque c’è unità.
Che acume! che profondità! che genio!
Ogni confessione rimane ai nastri di partenza, non muove un dito, non si riforma, ma dialoga; sta nel dialogo l’unità.
È ovvio che un genio come questo non potesse lasciarsi sfuggire qualcuna delle perle oggi in circolazione. Si pensi alla “gerarchia delle verità”, che egli fa subito sua, magnificandola in sé e come strumento di unità: non si rende conto, il teutonico mostro di intelligenza e di sapere schellinghiano, che non esiste una verità più/meno verità di altre e che l’unità o è onnicomprensiva di tutta la verità, o non è unità.
Si pensi anche ad un’altra perla, quella che fa discendere la comunione dalla comunicazione: un valore trascendente da un fenomeno sociologico.
Fermiamoci qui, perché il già detto è già fin troppo mortificante e il continuare a parlarne avrebbe il sapore del sadismo.
Fermandoci, tuttavia, non possiamo impedirci di elevare questa accorata sentita e sincera preghiera: “Signore, risparmiaci i pastori schellinghiani e mandaci pastori secondo il tuo Cuore”!
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV372_Ancora_un_cardinale.html
Ce n’è uno che non solo è sempre a bocca aperta, ma urla come un dannato senza mai dir nulla di nuovo, oltre ad un suo gratuito e stantio riferimento a Madre Teresa di Calcutta e a S. Francesco.
Un altro, assiduo frequentatore di “cortili dei gentili”, è l’emblema stesso della superficialità. Un terzo, teutonico, dal volto quasi sempre ombroso e duro anche quando ride, si vanta d’ispirare la propria teologia al pensiero di Schelling. Forse per questo, commemorando a Salamanca il cinquantenario del Vaticano II, ha dichiarato che “l'intenzione (del Concilio) era quella di tradurre nel linguaggio dei nostri giorni la fede tradizionale”. Come se ciò fosse possibile senza danno per la fede stessa.
Il danno, però, non può essere neanche sospettato da un idealista schellinghiano, per il quale vale non la rivelazione di Nostro Signor Gesù Cristo, ma ciò che Schelling ultima maniera chiamò rivelazione. Una rivelazione avvenuta una volta per sempre e quindi sempre valida ieri oggi e domani, per un idealista, e schellinghiano per giunta, è un assurdo. E perché assurda non sia la fede, egli la traduce nel linguaggio dei nostri giorni, impregnato di pensiero idealista, razionalista, storicistico e decisamente alieno da un suo respiro soprannaturale. La conseguenza è che la sua non è più, non può più essere la fede predicata da Gesù e dagli apostoli.
Qual è, allora, la fede inculcata ed illustrata da questo porporato, così sensibile al linguaggio dei nostri giorni e così proclive a mescolarvi e snaturarvi il contenuto della Rivelazione e della Tradizione?
La risposta è da lui stesso suggerita: il compromesso.
Loda i Padri conciliari perché avrebbero compiuto “non un semplice adeguamento (della fede) ai tempi”, ma un suo effettivo imparentamento con la cultura contemporanea ed una sua riformulazione in piena aderenza al nuovo rapporto dalla fede stessa instaurato col mondo. E poiché una sola poteva essere la strada da percorrere per giungere all’imparentamento e alla riformulazione, quella del compromesso, i Padri per primi l’avrebbero percorsa, lasciando a noi il compito d’imitarne l’esempio.
Che i Padri conciliari si siano inoltrati in quella strada è purtroppo vero; non fu un loro merito ed il menarne vanto è anacronistico e contraddittorio. Che però i loro figli (cioè noi), percorrano di nuovo e fin in fondo quella medesima strada nonostante che l’anacronistico ed il contraddittorio siano oggi alla luce del sole, ha qualcosa che ricorda un detto famoso: “errare humanum est; perseverare diabolicum”. Eppure, proprio questo consiglia l’eminente porporato schellinghiano, dimostrando di non conoscere affatto il significato di ciò che consiglia.
Il compromesso è, paradossalmente, un accordo di soggetti in disaccordo. Con esso le parti in disaccordo rinunciano, “pro bono pacis”, a qualcosa d’irrinunciabile: rinnegano, dunque, alcuni dei propri principi etici ed alcune delle proprie ragioni. Se invece anche il porporato schellinghiano conoscesse che cosa significa la parola compromesso, ne deriverebbe che per lui fedeltà e tradimento sono la stessa cosa.
Certo è che la sua intelligenza, schellinghianamente aperta al nuovo, potrebbe individuare una novità soltanto sul piano non d’una “rivelazione” pregressa e lontana nel tempo, ma emergente sempre di nuovo dalla situazione in atto. E rivelazione diventerebbe allora tutto e il contrario di tutto: la collegialità dell’episcopato, la corresponsabilità dei laici nella missione della Chiesa, l’autonomia delle chiese locali e via di questo passo. È il passo che il Concilio decisamente mosse, senza portarsi fin al traguardo del suo tragitto; ma il porporato teutonico schellinghiano ne raccoglie il testimone e lo deposita ben al di là del punto sul quale il Concilio s’era arrestato.
L’ambito in cui operare è indicato con significativa insistenza: quello della unità. Parrebbe addirittura indilazionabile la definizione di una nuova idea di unità, una “sua nuova comprensione”, derivante dalla “nuova comprensione della Chiesa”. Peccato che un così “illuminato” cardinale si areni davanti alla necessità di spiegare al colto e all’inclita che l’unità diversa non esiste e che, se al suo interno qualche diversità affiorasse, cesserebbe d’essere unità. Queste infatti son per lui sottigliezze; la nuova idea di unità discende per lui dal dialogo interecclesiale: il dialogo c’è, dunque c’è unità.
Che acume! che profondità! che genio!
Ogni confessione rimane ai nastri di partenza, non muove un dito, non si riforma, ma dialoga; sta nel dialogo l’unità.
È ovvio che un genio come questo non potesse lasciarsi sfuggire qualcuna delle perle oggi in circolazione. Si pensi alla “gerarchia delle verità”, che egli fa subito sua, magnificandola in sé e come strumento di unità: non si rende conto, il teutonico mostro di intelligenza e di sapere schellinghiano, che non esiste una verità più/meno verità di altre e che l’unità o è onnicomprensiva di tutta la verità, o non è unità.
Si pensi anche ad un’altra perla, quella che fa discendere la comunione dalla comunicazione: un valore trascendente da un fenomeno sociologico.
Fermiamoci qui, perché il già detto è già fin troppo mortificante e il continuare a parlarne avrebbe il sapore del sadismo.
Fermandoci, tuttavia, non possiamo impedirci di elevare questa accorata sentita e sincera preghiera: “Signore, risparmiaci i pastori schellinghiani e mandaci pastori secondo il tuo Cuore”!
Alipio de Monte
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV372_Ancora_un_cardinale.html
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