ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 9 novembre 2012

La ragion d'essere della Fraternità Sacerdotale San Pio X


  
(prima parte)
di Belvecchio

Il titolo potrebbe far pensare a chissà quale analisi teologico-ecclesiale, ma non è così.
Chi scrive non è membro della Fraternità, che è una congregazione prettamente religiosa, quindi non saranno gli Statuti della Fraternità che verranno presi in esame, né la mens del suo Fondatore, il compianto Mons. Marcel Lefebvre.
Chi scrive è un semplice fedele cattolico che, grazie a Dio, gode da anni del ministero dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X per cercare di rimanere fedele agli insegnamenti di Nostro Signore e alla Sua Santa Chiesa, e di provare a salvare la propria anima, con l’aiuto di Dio.

In effetti, proprio il punto di vista del semplice fedele può delineare quale sia stato e quale continui ad essere la vera “ragion d’essere della Fraternità”. Punto di vista che non esclude l’altro propriamente interno alla Fraternità, ma che lo comprende in qualche modo, perché il vero senso dell’esistenza di una congregazione religiosa è legato allo scopo principale della Chiesa stessa: la salus animarum.

Quando Mons. Lefebvre fondò la Fraternità San Pio X ebbe in vista la necessità della continuazione del vero sacerdozio cattolico, al fine di permettere ai fedeli di poter usufruire dei veicoli veramente cattolici per la ricezione della Grazia.
I fedeli cattolici, però, si raccolsero intorno alla Fraternità, certuni in maniera diretta, altri in maniera indiretta, perché essa rappresentò per loro, fin dall’inizio, il punto di riferimento per portare avanti quella battaglia contro il mondo che il concilio Vaticano II aveva deciso di abbandonare, supponendo erroneamente, e con l’aiuto dell’immancabile influenza del Maligno, che il mondo, essendo “progredito”, avesse raggiunto da sé una sorta di particolare santità… non ancora perfetta certo, così dicevano e dicono, ma tale da permettere alla immaginata nuova Chiesa di poter collaborare con esso per la reciproca crescita nella consapevolezza della verità.
Un ragionamento che, anche solo in termini lessicali, si regge solo sulla fantasmagoria moderna delle parole, ma che ciò nonostante informò il Concilio, il post-concilio, i papi, i cardinali, i vescovi e un gran numero di anime cattoliche che continuavano a fidarsi della conduzione dei loro “Pastori”.

La Fraternità, per i fedeli, fu e continua ad essere un baluardo per mantenere viva la vera fede cattolica e la sua pratica. D’altronde, lo stesso Mons. Lefebvre si rese conto che la sua opera finiva con l’assumere una connotazione più ampia della semplice congregazione religiosa. Oltre a supplire alla deficienza della nuova liturgia e alle manchevolezze e agli errori dei moderni pronunciamenti vaticani, essa corrispondeva al bisogno dei fedeli cattolici di rimanere ancorati alla Chiesa, al suo insegnamento bi-millenario e alla visione cattolica del mondo che valuta la modernità per quello che è: il substrato antropologico e culturale per l’avvento dell’Anticristo.

È per questo che nel 1988, Monsignore decise di operare lo strappo canonico, la posta in giuoco era più onnicomprensiva dell’istanza religiosa di una congregazione, era in giuoco la sopravvivenza di quel mondo che un tempo era la Cristianità e che adesso si era ridotto ad uno sparuto gruppo di chierici e di laici: gli ultimi rimasti a pensare, a ragionare e ad agire, nei limiti del possibile, in termini di imperio di Cristo, unico Re del Cielo e della terra.

Di fronte ad una necessità tanto  importante, e date le circostanze tanto impellenti, il problema della sottomissione all’autorità ecclesiastica poneva di fronte alla coscienza del vescovo cattolico il dilemma di dover seguire prioritariamente la legge canonica, venendo meno alle esigenze dell’onore che gli uomini devono rendere a Dio, oppure di aderire prioritariamente all’imperio di Cristo, trascurando il volere di un papa che aveva scelto la collaborazione col mondo anziché la battaglia cattolica per la sua conversione. 
E questa scelta, Monsignore la fece in piena coscienza e valutando lucidamente le conseguenze canoniche, che non si fecero attendere, neppure quarantotto ore.

I fedeli, pur perplessi di fronte all’atto di disubbidienza all’autorità ecclesiastica, si resero conto che era incominciata un’altra fase della storia Chiesa: una fase nella quale l’obbedienza a Dio poteva tragicamente passare, purtroppo, per un “no” al Papa, un no fondato, giustificato, corroborato dall’ossequio alle leggi interne della sottomissione all’autorità di Dio, piuttosto che alle leggi esterne dell’ubbidienza all’autorità dei superiori ecclesiastici, tante volte confusi, molte più volte soggiacenti al mondo, troppe volte intenti ad elogiare l’uomo anziché ad adorare Dio.
Uno strappo, certo, ma uno strappo che equivaleva alla decisione del medico che, piuttosto di permettere la cancrena dell’intero corpo del malato, si risolve ad amputare il solo arto incancrenito. Il malato resterà offeso per tutta la vita, da quel momento la sua esistenza sarà segnata dall’amputazione, sarà un essere debilitato, ma la cancrena non l’avrà avuta vinta ed egli potrà continuare a provvedere alla cura per salvezza della propria anima.

Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; - dice il Signore – è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. (Mt. 18, 9)

L’occhio, dice il Signore. E parla dell’occhio della vista, dell’occhio della mente, dell’occhio del cuore, parla dell’occhio che non è più illuminato dalla luce della verità, ma si è lasciato annebbiare dai fumi del mondo che chiama all’inganno perfino gli eletti, se possibile (Cfr. Mt. 24, 24). Parla di ciò che contraddice la verità e che nella storia della Chiesa si è presentato fin dall’inizio proprio nell’esperienza di San Pietro, il primo Papa, da Nostro Signore eretto a “roccia”, perché ispirato da Dio, al versetto 18, e da Nostro Signore respinto, perché pensa secondo gli uomini, al versetto 23 dello stesso capitolo 16 di San Matteo.
E i fedeli cattolici si resero perfettamente conto che Mons. Lefebvre aveva sacrificato la sua sorte terrena personale di prelato, al bene della Chiesa per la salvezza delle anime.
Da quel momento la Fraternità sarà per loro il solo pezzo di Chiesa rimasto per la perpetuazione della fondazione di Nostro Signore e per l’incarnazione della Sua volontà. 

Una responsabilità enorme, che da allora ha gravato sulle loro spalle e sulle spalle di centinaia di sacerdoti che hanno offerto la propria esistenza alla gloria di Nostro Signore Cristo Re.

Sono passati 40 anni, da allora, quarant’anni durante i quali la anomala posizione canonica di questo resto  della Chiesa, rappresentato dalla Fraternità San Pio X, con i suoi chierici e con i laici che godono provvidenzialmente del loro ministero, ha corrisposto alla testimonianza della concreta possibilità di continuare a rimanere cattolici nonostante la pesantezza di tale anomalia.
Nonostante le famose controverse scomuniche del 1988, la Fraternità ha continuato a rappresentare l’unico punto di riferimento nel mondo cattolico che, come un monito continuo, ha costantemente ricordato a tutti, al di là dei diversi convincimenti, che la Chiesa è una realtà che vive indipendentemente dalle vicissitudini del tempo e dai mutamenti del pensiero umano. Una realtà che ha un’intrinseca ragion d’essere che persiste nonostante il tempo e nonostante gli uomini. Una realtà che nella cesura col mondo conferma la sua natura soprannaturale, definita da Dio in funzione della salvezza eterna delle anime, e in opposizione ai progetti terreni degli uomini.

Il perdurare di tale opera di testimonianza, ha confermato che l’esistenza della Fraternità, e la sua ragion d’essere, non solo sono assistiti dallo Spirito Santo, senza la cui assistenza, dopo 40 anni -  40 anni che con i tempi moderni equivalgono a 400 anni di una volta -  essa si sarebbe sbriciolata, ma corrispondono ad uno stato di necessità che rientra nel piano della Divina Provvidenza. Stato di necessità che realizza una situazione del tutto nuova nella storia della Chiesa: il poter permanere cattolici nonostante le strutture della Chiesa e nonostante le stesse autorità ufficiali della Chiesa, ormai divenute inadempienti.

Quando Mons. Lefebvre si decise per la rottura con l’autorità, addusse proprio questo stato di necessità, che inevitabilmente non poteva essere riconosciuto dalle autorità ufficiali, proprio perché si fondava su una problematica che era legata a loro e non alla Fraternità.
I chierici e i laici, come forse lo stesso Mons. Lefebvre, concepirono tale stato di necessità come circoscritto in un certo tempo, destinato a risolversi, presto o tardi, con il ritorno alla normalità di quelle stesse autorità che l’avevano generato.

Uno stato di necessità che si prolunga oltremodo, finisce col tradursi in un’inaccettabile anomalia. Era questo, ed è questo il convincimento diffuso, sia tra i cattolici “ufficiali”, sia tra il resto dei cattolici raccolti nella e intorno alla Fraternità. Tale che dovrebbe arrivare il momento della fine di tale stato.
Ora, questo convincimento si basa, più o meno consciamente, sull’idea che la necessità sia scaturita da un accadimento eccezionale, in questo caso dall’orientamento assunto dalle autorità ufficiali in seguito al Vaticano II, e per il quale hanno ritenuto possibile una collaborazione fra la Chiesa e il mondo. Questo è vero, ma è insieme manchevole, poiché tale orientamento non corrisponde ad un’occasionale deviazione dall’insegnamento perenne della Chiesa, bensì ad una sorta di mutamento della forma mentis. Non si è trattato, e non si tratta, di un errore di valutazione, ma di un modo d’essere che trasforma quelli che un tempo erano cattolici in qualcosa di diverso, in ogni caso non più cattolico.
È questo un punto chiave che è necessario approfondire, poiché diversamente non si riuscirà a inquadrare correttamente il problema.

La situazione in cui s’è venuta a trovare la Chiesa a partire dal Vaticano II, non è solo il frutto di un processo involutivo vissuto o subito dagli uomini di Chiesa, ma si inquadra nell’inevitabile continuo allontanamento da Dio voluto e affermato dal mondo, per la sua stessa intrinseca natura.
Il mondo, creato da Dio, non è necessariamente “cosa buona” in forza di questa creazione, né l’uomo, creato a “Sua immagine”, è necessariamente “buono” per questa creazione: primoperché in tal modo è come se si sconoscesse il dato del peccato originale, secondo perché questa stessa creazione a “Sua immagine” implica la componente del libero arbitrio.
La possibilità che l’uomo, unico tra tutti gli esseri creati, possa scegliere liberamente in forza della capacità cognitiva donatagli da Dio, non è relativa alla possibile scelta tra un bene minore e un bene maggiore, bensì tra il bene e il male. L’uomo è libero, non per scegliere tra due beni, ma per scegliere tra il bene e il suo contrario, tra il restare legato a Dio e l’agire prescindendo da Dio, tra il risalire verso Dio e il discendere lontano da Lui. E questa possibile scelta non è relativa solo all’individuo o all’umanità, poiché l’uomo, posto ad accudire il creato, trascina nel suo movimento, in alto o in basso, tutto il creato. Se l’uomo si muovesse in ogni caso restando legato a Dio, non ci sarebbe stata l’Incarnazione, né ci sarebbe il giudizio finale. Sia l’intervento eccezionale di Dio, con l’incarnazione del Verbo, sia il giudizio finale, con la separazione tra i capri e le pecore, la fine del secolo e il rinnovamento con nuovi cieli e nuova terra, implicano che il movimento temporale dell’uomo e del mondo, del “secolo”, come dice il Vangelo, è un movimento discendente, un movimento di allontanamento da Dio, come peraltro viene più volte ricordato nei Vangeli (cfr. Mt. 24, 12; Lc. 18, 8). Movimento qualitativamente costante, fissato una volta per tutte, ma quantitativamente crescente e che si definisce per la degenerazione sempre più accentuata delle menti e dei cuori.
Se l’uomo, e con lui il creato, si mantenesse in rapporto con Dio e comunque in una tensione continua verso Dio, non ci sarebbe bisogno della fine del mondo e del suo “rifacimento”, perché tutto rientrerebbe in uno stato più o meno paradisiaco. Invece è proprio la perdita di questo stato che porta l’uomo ad allontanarsi sempre più dal Paradiso, salvo la possibilità offerta da Dio ad ogni singolo uomo, tramite l’Incarnazione e la Redenzione, di ricollegarsi a Lui per assicurarsi la vita eterna, nonostante il continuo richiamo verso il basso a cui deve resistere e a cui deve opporsi. Tale possibilità è offerta ai singoli uomini, non all’umanità nel suo complesso, con la conseguenza che la degenerazione innescata dalla perdita del Paradiso, in generale perdurerà fino alla fine dei tempi.
È in questa ottica che si colloca la creazione e il perdurare della Chiesa.
Essa è costituita dall’insieme dei singoli uomini che si ricollegano con Dio, e che per ciò stesso realizzano quella società perfetta che anticipa in terra il Suo Regno. Ma questa società non coincide col mondo, anzi mette meglio in luce, per chi ha occhi per vedere, il distacco da Dio in cui vive il mondo.
La Chiesa non ha il compito di salvare il mondo, ma le anime che intendono salvarsi per suo tramite, con i mezzi che Dio ha assegnato ad essa a questo scopo. Il mondo continua a scivolare verso il basso, e con esso il modo d’essere degli uomini, fino a quando non si potrà andare oltre e giungerà la fine. Il Paradiso e la vita eterna non sono per il mondo, ma per le singole anime.

Ciò nonostante, la Chiesa vive nel mondo e risente della sua degenerazione, se non altro perché, essendo composta da uomini, non può prescindere da loro e dallo stato manchevole sempre più accentuato in cui si trovano. Si dice che la Chiesa cammini con le gambe degli uomini, ma questi uomini, per il loro essere un’unità di corpo e di spirito, portano nella Chiesa la loro intera condizione, tale che se santi, portano la santità, se santificabili, portano la caducità. L’essere incorporati nel Corpo Mistico li preserva dalle conseguenze del peccato originale, ma non conferisce loro la santità, se non a condizione che la ricerchino e la meritino. L’imperfezione in questa ricerca e  la manchevolezza in questi meriti, non implicano l’automatica esclusione degli uomini dalla Chiesa, ma comportano la presenza e la diffusione nella Chiesa di tali imperfezioni e manchevolezze. Tale che inevitabilmente esse si manifestano, non solo tra i semplici fedeli, ma anche tra i chierici e i vescovi, i cardinali e i papi.
Insomma, la Chiesa, pur essendo santa e non “di” questo mondo, per  il suo dover essere “nel” mondo, risente anch’essa del suddetto movimento discendente, così che mentre il mondo si allontana sempre più da Dio, la Chiesa conosce una progressiva diminuzione della fede, come predetto da Nostro Signore.
A conferma di questo, se non bastasse l’esame oggettivo della storia della Chiesa, che rivela chiaramente la presenza di questa parabola discendente, si guardi a quanto accaduto col Vaticano II e con i frutti da esso prodotti in questi ultimi 50 anni. Non può trattarsi, e non si tratta, di un accadimento, come pensano certuni, ma si tratta di una tappa avanzata del processo di diminuzione che porta la Chiesa a restringersi sempre più, anche nella comprensione e nella pratica della fede.

La Divina Provvidenza, che conosceva fin dall’inizio ogni cosa, non permette che si possa giungere alla fine della Chiesa, esattamente come assicurato da Nostro Signore, e suscita nuove possibilità di testimonianza e di sussistenza del collegamento con Dio, per la salvezza delle anime che vogliono salvarsi. È così che nasce la Fraternità San Pio X, ed è per questo che Dio ha permesso che essa sussistesse fino ad oggi, perché, a prescindere dallo stato della compagine ecclesiale, essa potesse rappresentare quel resto che corrisponde alla possibilità di preservazione dei giusti, quelli stessi che permettono di ritardare, finché Dio vorrà, il redderationem finale.

Ecco quindi delineato un altro importante elemento della “ragione d’essere della Fraternità”.
Come il Vaticano II non è stato e non è un episodio passeggero nella vita della Chiesa, così la Fraternità San Pio X non è stata e non è un rimedio passeggero al disastro provocato dal Vaticano II, da alcuni supposto passeggero. Come il Vaticano II ha segnato profondamente la vita della Chiesa, fissando concettualmente e in termini di nuovo cattivo insegnamento il decadimento di essa e delineando una neo-Chiesa sminuita nella dottrina e nella liturgia, una neo-Chiesa sempre meno cattolica e sempre più altro dal cattolicesimo, così la Fraternità San Pio X ha rappresentato e rappresenta la tenuta della Chiesa, la costanza della dottrina e della liturgia, il persistere della Chiesa cattolica di sempre, che non può essere né nuova, né rinnovata, né antica, né moderna.
Questo elemento, che dovrebbe essere presente nel sentire dei cattolici fedeli alla Tradizione, sembra invece misconosciuto da tanti di essi, poiché sono tanti quelli che si rifiutano di accettare l’idea che il famoso stato di necessità del 1988 sia, in realtà, la condizione oggettiva del nostro tempo, in cui tutti i precedenti parametri di riferimento di tipo ecclesiale sono saltati, di fronte ad un’intervenuta condizione generalizzata di necessità che richiede nuovi approcci e nuovi comportamenti, fondati indubbiamente sulla Tradizione, ma adattati in maniera idonea a far fronte ad un nuovo stato di cose, ad un nuovo tipo d’uomo, ad un nuovo tipo di uomini di Chiesa, ad una nuova autorità ufficiale, ad un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo, ormai compromesso da quanto realizzato, in pensieri ed opere, dalla neo-Chiesa generata dal Vaticano II.
I cattolici fedeli alla Tradizione, laici e soprattutto chierici, che misconoscono questo o lo considerano come una semplice opinione escatologica e rimangono legati all’idea di una Chiesa che si risolleva dopo un brutto raffreddore o dopo un brutto colpo da maestro menato occasionalmente da Satana, si predispongono in maniera tale da non poter più fronteggiare la crisi e da non poter individuare i rimedi corretti per perseguire il bene della Chiesa e proseguire l’opera della salus animarum.

Fatta questa lunga premessa, possiamo passare adesso all’esame di quello che è accaduto in questi anni nella Chiesa, ivi compresa la Fraternità San Pio X.
I frutti della svolta voluta del Vaticano II, pur nella loro complessità, sono talmente manifesti e noti che oggi abbiamo un papa che a suo modo cerca di mettere delle pezze, ma se non si mette a fuoco l’elemento simbolico, e quindi pregno di significati e di conseguenze pratiche, che attuò nel 1964 Paolo VI, si finisce col valutare certi elementi importanti come fossero degli accadimenti poco significativi.
La deposizione della tiara effettuata in maniera plateale da Paolo VI, sempre combattuto tra dichiarazioni cattoliche, decisioni pseudo cattoliche e comportamenti anticattolici, è il segno palese e cosciente della fine di un’epoca; l’epoca nella quale, sia pure in maniera confusa, l’idea della Chiesa come mater et magistra, reggitrice del mondo e Corpo Mistico di Cristo, veniva abbandonata per essere sostituita con l’idea nuova di una Chiesa democratica – collegiale in termini ecclesiali moderni -  non mater, ma ancilla; non magistra, ma discipula, non reggitrice, ma coadiutrice, non Corpo Mistico, ma compagine umana.
La deposizione della tiara, spiegata dai nuovi preti della nuova Chiesa con mille disquisizioni più o meno dotte, fu il segno efficace dell’accantonamento della primazia di Cristo sul mondo, come se Nostro Signore fosse venuto solo per fare un bel discorso e non per ricordare a tutti che senza di Lui non si può fare nulla che sia vero e che sia di Dio.

I papi che seguirono Paolo VI hanno avallato e accentuato questo accantonamento, da papa Luciani, che ha trasformato il simbolo del Regno in reperto da museo, a papa Woityla che ha trasformato la buona novella in un prodotto pubblicitario, a papa Ratzinger che sta trasformando il Corpo Mistico in una sorta di contenitore che accoglie ogni e qualsiasi prodotto della elaborazione umana e della pratica anticristica del mondo.
I relativi raddrizzamenti che si sono prodotti in questi anni, rientrano nel processo fisiologico di assestamento della diffusione del male: si mettono a punto certe correzioni secondarie per confermare l’andamento intrapreso e per consolidare la malattia.

Ovviamente, com’è umano, tanti cattolici in buona fede colgono in questi elementi accidentalmente correttivi come dei segni di ripresa, non tanto per il valore reale che essi hanno, quanto per la coltivazione dell’illusione che dopo il forte raffreddore debba necessariamente venire la guarigione. In realtà, qualsiasi riflessione sull’andazzo delle cose di Chiesa in questi ultimi cinquant’anni, dalla liturgia alla dottrina, dalla pastorale alla pratica della fede, rivela che il processo di decadimento e di allontanamento dalla verità si è accentuato con moto accelerato.
Potremmo fare centinaia di esempi, ma non è questa la sede per un lungo elenco che richiederebbe una altrettanto lunga disamina, ci limiteremo ad accennare solo a qualche esempio: la dichiarazione di cattolicità di gruppi che paradossalmente si assicura manterranno la loro a-cattolicità, come ieri gli anglicani e oggi, a breve, i luterani, o come i carismatici o i neocatecumenali. Ai quali, in nome di una declamata unità parolaia, si affiancano gruppi che dichiarano di voler mantenere la Tradizione, mentre, così facendo, accettano a priori l’equiparazione con quelli che considerano la Tradizione come una palla al piede e praticano una sorta di cristianesimo fai da te che riscuote i plausi del mondo, i suoi incoraggiamenti e il suo sostegno.
Al nemico che si arrende, ponti d’oro.

Gruppi di diversa consistenza e origine, che da alcuni anni prolificano ovunque, e non a caso, perfino all’interno della stessa Fraternità San Pio X, dimentichi come sono del fatto elementare che quel poco di maggiore attenzione che si nota in giro verso la Tradizione è dovuta all’esistenza della stessa FSSPX e, soprattutto, al persistere della anomala posizione canonica da essa mantenuta fino ad oggi, nonostante tutto.
Un altro elemento, questo, che rivela come i germi della dissoluzione si annidano ovunque, anche dove meno ci si aspetta.

La parabola discendente è così confermata, com’è confermata l’accelerazione del processo, com’è anche confermata l’ancora di salvezza che il Signore predispone per le anime ingenue, perché non si accorgano dell’incremento del disastro, lo scambino per stabilità, e, non scivolando così nella disperazione, non abbandonino la poca fede loro rimasta.
Una volta si diceva che Dio fa impazzire chi vuol perdere, oggi si potrebbe dire che Dio acceca chi non vuole ancora perdere.

In questo scenario che può sembrare apocalittico, ma che è del tutto coerente con quanto abbiamo approssimativamente delineato prima, e che è del tutto rispondente alla realtà, certi cattolici fedeli alla Tradizione, ancora in condizioni canoniche problematiche rispetto alle autorità ufficiali della Chiesa, soffrono una sorta di sdoppiamento della personalità.
Alcuni pensano che il perdurare di tale condizione sia divenuta una cosa non più sostenibile, soprattutto se vista in relazione a loro stessi in quanto persone,  che non se la sentono di passare a miglior vita senza aver superato le conseguenze dello stato di necessità. Questo è molto umano, e quindi comprensibile, ma certo non ha niente a che vedere con quello che abbiamo delineato come “la ragione d’essere della Fraternità”.
I gruppi che si sono separati dalla Fraternità e hanno ritrovato una forma canonica ufficiale a sostegno della loro sopravvivenza, sono stati mossi innanzi tutto dal bisogno tutto umano di mettersi il cuore in pace: impensabile morire in condizioni canonicamente problematiche, come scelse di fare coscientemente e dolorosamente Mons. Lefebvre per il bene della Chiesa e delle anime.
Al tempo stesso, il rifiuto, conscio o inconscio, dell’analisi oggettiva del decadimento, ha impedito loro di cogliere i segni dell’aggravamento della malattia, anzi li ha indotti a sopravvalutare l’abbassarsi della febbre al mattino, come se si trattasse di un sintomo di guarigione, trascurando di considerare che l’aumento della stessa febbre al pomeriggio rivela chiaramente che il male è ancora lì e non accenna a scemare, anzi rischia di far collassare il malato.

Facciamo qualche piccolo esempio. Quando papa Ratzinger decide di distribuire la comunione in ginocchio, è inevitabile cogliere un segno della volontà di tornare a gesti e posture cattoliche, ma non è giustificato dedurne che questa volontà di ritorno possa o addirittura debba corrispondere alla ripresa della Tradizione, sia pure in parte.
Solo chi non ha capito che la parabola discendente non esclude la compresenza di alti e bassi relativi, può scambiare le fisiologiche incrinature in alto per inversione di rotta, e solo chi è portato a leggere la realtà con le lenti della propria aspettativa e della propria speranza meramente umane, può non accorgersi che si può dare la comunione in ginocchio pur continuando ad insegnare che Nostro Signore lo si può servire anche senza essere cattolici.Può non accorgersi che il recupero della Messa tradizionale, per esempio, non corrisponde al recupero della Tradizione, ma all’uso volutamente strumentale di elementi tradizionali per avallare il perdurante impianto antitradizionale, e questo non in mala fede, tutt’altro, in perfetta buona fede, perché chi agisce così è convinto che non vi sia contraddizione tra il Cristo Crocifisso e il mondo che lo rifiuta, è convinto che, essendo la religione cattolica un complesso di esperienze e non un insieme di dottrina e di pratica religiosa, nulla osta che queste esperienze possano essere vissute soggettivamente da chiunque, al di là del fatto che si dichiari o si creda o veramente sia cattolico o perfino non cattolico.
Solo chi non intende capire tutto questo può scambiare per inversione di rotta la cosiddetta “riforma nella continuità”.

In questa strana condizione mentale e intellettuale, in cui i chiaroscuri vengono scambiati per colori e le linee ondulate vengono scambiate per linee rette, non stupisce che certi cattolici fedeli alla Tradizione si ingannino sulla reale possibilità di ripresa della Chiesa, e non meraviglia che certuni pensino che per debellare la malattia si possa anche entrare in circolo con essa, nello stesso corpo malato, riuscendo a non rimanerne infettati ed anzi potendo agire quasi come un anticorpo.
E siamo ancora all’immagine del raffreddore, come se la crisi della Chiesa non si inscrivesse nella generale degenerazione del mondo, tale che ci si illude che si possa estirpare un cancro trasformandolo in una cellula sana.

E in questa generalizzata e distorta visione si producono analisi e si delineano prospettive diverse. Da chi pensa che si possa invertire la parabola discendente attraverso le semplici dichiarazioni critiche, a chi ritiene che, miracolosamente, basta chiamare cancro il cancro perché questo si trasformi in cellula sana.

Il Signore non abbandona la sua Chiesa, si dice, dimenticando però che questa Chiesa è quella formata da coloro che credono in Lui, indipendentemente dall’autorità ufficiale o dalla struttura formale. E dimenticando soprattutto la particolare connotazione che caratterizza l’attuale crisi della Chiesa, in forza della quale si è convinti, per esempio, che basti pregare mentre si ammira una degenerazione perché questa diventi incredibilmente una cosa buona. Come affermato ultimamente da Papa Ratzinger a proposito della Cappella Sistina: se si “contempla in preghiera” un’opera che esalta il genio umano, ecco che questa diventerebbe un’opera a gloria di Dio.

È la parabola delle degenerazioni dottrinali e liturgiche del Vaticano II: si vuol far credere che basterà approfondirle e comprenderle con animo benevolo, perché esse smetteranno di essere degenerazioni e diverranno utili strumenti per la predicazione del Vangelo.

A questo punto, tenendo presente quanto abbiamo detto fin qui, possiamo esaminare l’evoluzione che si è prodotta in seno alla Fraternità San Pio X.
Visti gli accadimenti di questi ultimi mesi, non è gratuito porsi la domanda: si va verso il mutamento della ragion d’essere della Fraternità? 
La risposta a questa domanda sarà l’oggetto della seconda parte di queste riflessioni.


  

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