Anticipiamo alcuni stralci dell’intervento che il presidente
della Pontificia Academia Latinitatis tiene in occasione
dell’insediamento della nuova istituzione voluta da Benedetto xvi con il
motu proprio Latina lingua pubblicato lo scorso 11 novembre sul nostro
giornale. L’intervento è inserito nell’ambito della diciassettesima
seduta pubblica delle Pontificie Accademie — intitolata quest’anno
«Pulchritudinis fidei testis. L’artista, come la Chiesa, testimone della
bellezza della fede» — che si tiene nel pomeriggio di mercoledì 21
novembre in Vaticano, nell’aula magna del Palazzo San Pio X.
Nell’occasione il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato,
consegna il Premio delle Pontificie Accademie alla polacca Anna Gulak
per la scultura e allo spagnolo David Ribes López. Come meritevole della
medaglia del Pontificato, è stato scelto lo scultore italiano Jacopo
Cardillo.
Come interpretare al meglio la costituzione della Pontificia Accademia della Latinità? Come accordarne idealmente pensiero e finalità al magistero della Costituzione Apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII e della Fondazione Latinitas istituita da Paolo VI? Più in generale: come contribuire a rendere utile e addirittura necessaria una lingua morta e la relativa cultura ormai da decenni rimossa, tenendo al contempo lo sguardo rivolto avanti e indietro, simul ante retroque prospicientes?
La cesura è intervenuta in tempi recenti: agli inizi degli anni Sessanta del ventesimo secolo, quando, dopo la scienza, anche la scuola e la Chiesa abbandonarono il “monoteismo” latino. Infatti, al grido «La lingua dei signori» (così titolava l’Avanti! un famoso fondo di Nenni), il Governo di centro-sinistra abolì l’obbligatorietà del latino nelle scuole medie inferiori, perché considerato «simbolo di educazione elitaria, e quindi di discriminazione sociale» (Traina); facendo pagare così un tributo tutto ideologico a una tradizione culturale fondativa. Quasi in parallelo, il concilio Vaticano ii decise di rinunciare in parte, nella sacra liturgia, alla lingua latina, e di adottare le lingue nazionali. Eppure, proprio in quegli anni, esattamente il 22 febbraio del 1962, Papa Giovanni XXIII firmava e diffondeva con la Veterum sapientia un accorato elogio sia della sapienza classica sia delle due lingue: il greco e soprattutto il latino. Un doppio registro? Una doppia norma? Un messaggio contraddittorio tra concilio ed enciclica? Nulla di tutto ciò. Semplicemente, e del tutto coerentemente, si voleva ricordare ai pastori, al clero, ai futuri sacerdoti — come fa ora il motu proprio di Sua Santità — che la conoscenza della lingua latina e della cultura di Roma costituiscono un patrimonio irrinunciabile, perché in quella lingua e in quella cultura si ritrovano e si concentrano tre proprietà costitutive della fede: l’eredità, l’universalità, l’immutabilità. Quid nunc? Non possiamo non chiederci oggi: latino per chi? Latino perché? Per parlare bene. Noi oggi scontiamo una vera e propria entropia linguistica: una condizione di disordine in cui le nostre parole, ridotte a vocaboli, smarriscono il loro volto e perdono la loro forza. Nel periodo del maximum della comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione. C’è una lingua neutra oggi, una sorta di koinè diafana e asettica che ci fa esclamare con Sallustio: vera vocabula rerum amisimus (“abbiamo perduto il significato vero delle parole”). Di fronte all’imperante sincronia e dittatura del presente, proprio la lingua latina ci può soccorrere nel recupero di un valore primario e costitutivo dell’uomo: il valore del tempo: il suo ordo verborum si tende e ci lascia sospesi fino a quando il prima, il durante e il poi non si ricompongono. Questa trasmissione culturale, come ogni scienza, può nascere solo — con un forte senso di responsabilità comunitaria — dalla «lampadoforia», e non dalla «tremula fiaccola del singolo» (Bacone, De sapientia veterum).
Come interpretare al meglio la costituzione della Pontificia Accademia della Latinità? Come accordarne idealmente pensiero e finalità al magistero della Costituzione Apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII e della Fondazione Latinitas istituita da Paolo VI? Più in generale: come contribuire a rendere utile e addirittura necessaria una lingua morta e la relativa cultura ormai da decenni rimossa, tenendo al contempo lo sguardo rivolto avanti e indietro, simul ante retroque prospicientes?
La cesura è intervenuta in tempi recenti: agli inizi degli anni Sessanta del ventesimo secolo, quando, dopo la scienza, anche la scuola e la Chiesa abbandonarono il “monoteismo” latino. Infatti, al grido «La lingua dei signori» (così titolava l’Avanti! un famoso fondo di Nenni), il Governo di centro-sinistra abolì l’obbligatorietà del latino nelle scuole medie inferiori, perché considerato «simbolo di educazione elitaria, e quindi di discriminazione sociale» (Traina); facendo pagare così un tributo tutto ideologico a una tradizione culturale fondativa. Quasi in parallelo, il concilio Vaticano ii decise di rinunciare in parte, nella sacra liturgia, alla lingua latina, e di adottare le lingue nazionali. Eppure, proprio in quegli anni, esattamente il 22 febbraio del 1962, Papa Giovanni XXIII firmava e diffondeva con la Veterum sapientia un accorato elogio sia della sapienza classica sia delle due lingue: il greco e soprattutto il latino. Un doppio registro? Una doppia norma? Un messaggio contraddittorio tra concilio ed enciclica? Nulla di tutto ciò. Semplicemente, e del tutto coerentemente, si voleva ricordare ai pastori, al clero, ai futuri sacerdoti — come fa ora il motu proprio di Sua Santità — che la conoscenza della lingua latina e della cultura di Roma costituiscono un patrimonio irrinunciabile, perché in quella lingua e in quella cultura si ritrovano e si concentrano tre proprietà costitutive della fede: l’eredità, l’universalità, l’immutabilità. Quid nunc? Non possiamo non chiederci oggi: latino per chi? Latino perché? Per parlare bene. Noi oggi scontiamo una vera e propria entropia linguistica: una condizione di disordine in cui le nostre parole, ridotte a vocaboli, smarriscono il loro volto e perdono la loro forza. Nel periodo del maximum della comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione. C’è una lingua neutra oggi, una sorta di koinè diafana e asettica che ci fa esclamare con Sallustio: vera vocabula rerum amisimus (“abbiamo perduto il significato vero delle parole”). Di fronte all’imperante sincronia e dittatura del presente, proprio la lingua latina ci può soccorrere nel recupero di un valore primario e costitutivo dell’uomo: il valore del tempo: il suo ordo verborum si tende e ci lascia sospesi fino a quando il prima, il durante e il poi non si ricompongono. Questa trasmissione culturale, come ogni scienza, può nascere solo — con un forte senso di responsabilità comunitaria — dalla «lampadoforia», e non dalla «tremula fiaccola del singolo» (Bacone, De sapientia veterum).
Ivano Dionigi
2012-11-22 L’Osservatore Romano
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