ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 19 dicembre 2012

Aspirante Papetto



Pontifex.RomaLa pubblicistica cattolica è ormai talmente vasta che non si riesce a star dietro neanche ai documenti ufficiali del Magistero, figuriamoci poi agli scritti di questo o di quello. Ci è capitato di leggere, per sollecitazione di un caro amico, un libro del prete modernista Gianfranco Ravasi (Il racconto del cielo…, Mondadori, Milano 1995), lo stesso prete che, cresciuto alla scuola di Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano morto, si dice sappia tutto, o quasi, circa il modo di leggere e di comprendere la Bibbia (per 2.000 anni la Provvidenza avrebbe mentito e aspettava Ravasi sic!). Questo infatti gli fanno fare alla facoltà teologica dell'Italia settentrionale, e per questo lo hanno chiamato a far parte del Pontificio Istituto Biblico. 
Questo suo libro è nell'intenzione dell'autore, una sorta di guida per poter leggere e comprendere il Vecchio Testamento, guida che colmerebbe una lacuna in àmbito cattolico, quella lacuna che avrebbe impedito, soprattutto ...
... agli Italiani di questi due ultimi millenni, di leggere e comprendere il Vecchio e il Nuovo Testamento (cfr. l'Introduzione).
Non è nostra intenzione esplorare gli impenetrabili meandri del Ravasi-pensiero, anche perché non abbiamo tempo da perdere, ci limiteremo invece a considerare qualche passo di questa "guide bleue", come si compiace di chiamarla l'autore, al solo fine di segnalare qualche esempio della dilagante eresia diffusa in seno ai credenti dai novelli preti modernisti. 
A pag. 138 e ss., troviamo una dotta disquisizione circa i significati di "santo" e di "sacro"; dalla quale apprendiamo che il sacro è prevaricatore dell'esistenza, che la visione sacrale è tipica dei movimenti o delle ideologie integraliste, che il sacro, mentre tutela la purezza del concetto e della realtà di Dio (che l'autore sembrerebbe considerare una quisquilia), isola, rigetta e si pone in tensione col profano. Apprendiamo anche che esiste un'accezione del "santo", inteso in senso esistenziale e morale, talché la santità non si isola, coesiste col profano, mentre il "santo" anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle.
Tralasciamo la lezione di etimologia fornitaci circa il significato del termine ebraico qadosh (santo) e dei termini latini sanctus e sacrum, per la quale invitiamo il Ravasi ad essere piú attento nelle sue affermazioni, perché, forse con sua sorpresa, in giro c'è anche gente che sa benissimo che non può confondersi il significato di "santo" con quello di "sacro", come fa lui strumentalmente e capziosamente. D'altronde, la sua supponenza è tale che egli si permette di affermare che «la radice verbale QDSH [da cui l'ebraico qadosh], … significa in prima istanza "separare", porre una frontiera tra l'area del tempio e del palazzo reale e quella profana». Il Ravasi, nella sua foga volgarizzatrice e dissacratoria, dimentica che c'è gente che sa benissimo che al tempo della radice verbale QDSH, Israele, non solo non aveva un tempio e un palazzo reale, ma addirittura era impedito ad averli per precisa prescrizione divina, cosí che l'esegesi di Ravasi e compagni si mostra per quella che è: un cumulo di deduzioni semplicistiche e superficiali fondate sui pregiudizi della scuola ateo-razionalista.
Facciamo invece notare subito, al Ravasi e ai suoi dotti amici, che non è mai esistita e non potrebbe mai esistere una realtà mondana o una realtà profana; tutto quello che si può dire circa il profano e il mondano è che si tratta di una visione del mondo, di un semplice punto di vista: il punto di vista dell'uomo che guarda alla realtà dell'universo senza volgersi ad Dominum, cosí da illudersi che l'universo stesso, come tale, abbia una sua autonoma realtà, per di piú contrapponibile alla realtà delle cose divine, cioè delle cose sante e delle cose sacre.
Si tratta dell'eresia manichea, con i suoi derivati e consociati gnosticismi d'accatto; eresia che sembra si insegni oggi nelle facoltà teologiche, grazie ai Martini e ai Ravasi.
Per rinfrescare la memoria ai modernisti, ricordiamo che l'unica vera e autosufficiente realtà esistente a questo mondo e in tutti gli altri mondi possibili e immaginabili è Dio, che è la Causa di ogni realtà possibile e impossibile. Quindi ogni realtà umanamente constatabile o ipotizzabile è tale solo perché trae tutta la sua esistenza dal divino, senza il quale non potrebbe essere che un puro niente. Non v'è nulla di profano a questo mondo: tutto è sacro. Quello che invece si può dire è che l'uomo, in seguito alla caduta e a causa della sua condizione di peccatore, non è in grado di vedere il sacro, il divino, in ogni cosa, non è in grado cioè di riconoscere la reale natura dell'esistente e il senso vero dell'esistenza: egli vive nell'inganno e nell'illusione, e scambia la parte con il tutto, crede che la realtà sensibile e relativa del mondo sia tutta la realtà, confondendo la realtà umana con la realtà divina. Nella migliore delle situazioni si giunge cosí all'idolatria e al panteismo.
Il profano è il risultato del punto di vista errato dell'uomo, non è una realtà a sé stante.
La grazia di Dio sopperisce a questa manchevolezza dell'uomo, offrendogli gli strumenti del sacro, i soli che gli permettano di guardare al mondo rivolgendosi a Dio, e senza i quali egli rimarrebbe preda delle sue illusioni e delle sensazioni suscitate dal mondo sensibile.
Quando Ravasi, credendo di offrire dei lumi, spiega che «Il santo anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle ma lasciando loro consistenza»; non si rende conto che sta affermando che il "suo" cosí decantato «santo inteso in senso esistenziale e morale» è da ritenersi tanto piú meritevole per quanto piú mantenga gli uomini nell'errore. Ma forse se ne rende conto, solo che per lui non si tratta di errore, accecato com'è dai pregiudizi illuministici, laici e atei. Infatti afferma (pp. 139-140) che è scorretto dissacrare «il sacro secolarizzandolo» mentre è corretto desacralizzarlo «santificandolo, storicizzandolo».
Da quest'ultima affermazione, un semplice esempio della prosa "dotta" del Ravasi, si comprende come i personaggi come lui siano interamente posseduti dal demone della superbia e della supponenza, siano schiavi dell'impenitenza circa uno degli aspetti piú perniciosi del peccato originale: cosí che per ogni affermazione siffatta è come se si conficcasse un nuovo chiodo nella Carne del Cristo.
Quindi: desacralizzare il sacro, storicizzandolo, è cosa meritoria, a fronte dell'inaccettabile dissacralizzare, secolarizzando. Come se storicizzare e secolarizzare non fossero la stessa cosa! Evidentemente, per Ravasi, le cose stanno diversamente. 
Vediamo come.
Lui dice: desacralizziamo il sacro (che vuol dire togliamo sacralità al sacro) cosí da ottenere la sua santificazione. Il che significa, innanzi tutto, che il sacro, secondo Ravasi non ha nulla di santo. Da dove viene allora? È chiaro che per il Ravasi il sacro viene dall'uomo e non dal Santo, tanto che, secondo lui, il sacro finisce con lo scadere nel "sacralismo": allora, noi uomini moderni, del tipo di Ravasi, che abbiamo capito tutto e che finalmente sappiamo tutto, comprendiamo bene che basta desacralizzare il sacro per santificarlo.
Cosí stando le cose, si tratterebbe di lasciar sussistere ogni cosa cosiddetta profana per quella che è. Nel contempo, storicizzando il sacro, cioè togliendo al sacro ogni sua ragion d'essere che sta oltre la storia e il mondo, ecco che lo si santificherebbe, togliendogli quell'elemento fastidioso che lo rende diverso dal profano. Cosí ridotto, il sacro è reso pari al profano e da questa parità scompare ogni conflitto: non occorre piú che il sacro ricordi al profano la sua manchevolezza, la sua mancanza di Dio, la sua insufficienza; e soprattutto non vi sarà piú niente di biasimevole nel profano che si ritiene autonomamente, impropriamente e diabolicamente "santo". In altre parole: basta togliere a Dio la perfezione per eliminare contemporaneamente il peccato, se il sacro lo si santifica storicizzandolo, il profano è pari al sacro e quindi è santo.
Evidentemente Nostro Signore non aveva ancora capito che le cose potessero risolversi cosí facilmente. Meno male che adesso abbiamo Ravasi e i suoi compagni!
Quando il Ravasi afferma che «il sacro isola, rigetta e si pone in tensione col profano; si fa autosufficiente, tutto ciò che non appartiene alla sua sfera diventa il male, il peccato, l'impuro; suo sogno è quello di sacralizzare il maggior ambito possibile (politica, cultura, società) cosí da porlo sotto la sua ferrea tutela» (pag. 139), ci fa chiaramente capire che la sua funzione di prete che amministra i sacramenti egli l'ha sempre svolta non credendo a una sola parola di quanto recita sull'altare e di quanto proclama dall'ambone. Ci spiega cioè che ogni sacramento da lui amministrato è invalido, e primariamente il sacramento dell'Eucarestia, poichè egli lo amministra con una intenzione diversa da quella della Santa Chiesa. D'altronde, per uno che dà per scontato che il Vecchio Testamento è stato elaborato dai sacerdoti di Israele, e che poi si permette di concludere le letture della S. Messa con la formula "Parola di Dio", senza crederci minimamente, il meno che si possa dire è che si tratta di un dissociato, di uno schizofrenico, poiché diversamente si dovrebbe dire che si tratta di un agente del Demonio.
Non è per pura polemica, ma portando alle estreme conseguenze il ragionamento del Ravasi, che egli ovviamente presenta come un dato scontato e indiscutibile, si giunge a questa assurda conclusione: il male fa parte del mondo, è uno degli elementi che compongono la "realtà profana", quindi il sacro può dirsi legittimo solo se preserva tutta la natura del male, riuscendo a convivere con esso senza intaccarne la consistenza, animandolo, addirittura, senza assorbirlo.
Confessiamo di non aver mai letto di una eresia del genere, che risulterebbe essere tutta nuova, ma forse non si tratta nemmeno di una eresia, poiché, in fondo, anche le vecchie eresie erano una cosa seria, seppur malvagia. Qui siamo di fronte alla pura insussistenza che si spaccia per conoscenza, siamo al nulla che si ammanta di sapienza. Non crediamo di essere eccessivi se diciamo che ci troviamo di fronte ad un segno dei tempi, un segno che indica la marcia forzata che muovono le orde dell'Anticristo per condurre l'abominazione all'interno del Tempio. 
Per finire, accenniamo solamente ad un altro passo da cui si può comprendere un certo stile tutto moderno, lo stile che caratterizza soprattutto la cosiddetta esegesi moderna. A pag. 36 il Ravasi afferma: «Ma è noto che l'antropologia biblica non distingueva cosí nettamente anima e corpo, materia e spirito.» Siamo informati cosí di una verità accertata ed acclarata (è noto a chi?!). Prova ne è, dice il Ravasi, che l'ebraico conosce i termini Ruah, Nefesh e Basar, e cioè i termini corrispondenti a "spirito", "anima" e "corpo". Ora, o siamo del tutto rimbecilliti o il Ravasi non sapendo come spiegare, con la sua esegesi razionalista, il senso dei termini ebraici, liquida il tutto con l'affermazione precedente: cioè con una chiara contraddizione, della quale fa mostra perfino di compiacersi. 
Se l'ebraico conosceva i termini corrispondenti a spirito, anima e corpo, ne conosceva evidentemente anche i concetti e quindi sapeva benissimo come distinguerli: esattamente l'opposto di quanto affermato dal Ravasi con stolita supponenza. Non solo, ma, sottolineiamo noi, dalle considerazioni che si possono trarre dal senso dei tre termini ebraici citati, si evince la chiara concezione della triplicità della costituzione dell'essere umano: spirito, anima, corpo; conosciuta da tutto il mondo antico, ebraico compreso, e ben conosciuta dalla Cristianità fino a dopo il Medio Evo (vedi nota); cosí da escludere la semplicistica distinzione duale che va ormai per la maggiore e che il Ravasi rivela come sua quando parla di anima e corpo, prima, e materia e spirito, dopo. 
Cosa possiamo concluderne? 
Che, innanzi tutto, libri del genere non dovrebbero nemmeno essere scritti; e non perché siamo degli integralisti e dei fanatici del sacro, cosa che è vera, ma semplicemente perché la piú elementare delle logiche esige che le sciocchezze non possano avere diritto di cittadinanza se non nelle burle tra amici. Invece ci tocca constatare che certi preti si sono messi a scherzare con i Santi, convinti peraltro di essere nelle migliori disposizioni di spirito, convinti di compiere interamente il proprio dovere davanti a Dio e davanti agli uomini.
A questo punto potremmo anche parlare di azione concordata per ridurre ai minimi termini la dottrina cristiana, la Chiesa e la Religione, ma è nostro convincimento che non di questo si tratti: se cosí fosse, basterebbe impedire a quelli come Ravasi (e ce ne sono tanti) di nuocere, e senza neanche bisogno di ricorrere ad alcuna inquisizione, né di accendere nuovi roghi, ma semplicemente impedendo che, quanto meno, arrivino all'ordinazione sacerdotale. Il fatto è che lo stato d'animo diffuso oggi giorno, e che informa ogni pensiero e ogni azione, è tale che si producano fenomeni come questi senza che nessuno possa farci niente; e questo, inevitabilmente, anche nel seno stesso della Chiesa. 
Occorrerebbe cambiare, fin nel piú profondo, la condizione di spirito del mondo moderno; ma chi e come potrebbe intraprendere un'opera siffatta? 
I modernisti, i Ravasi-pensiero, i vescovi panteisti, i preti filantropi sono il prodotto di una condizione "dei tempi", sono anch'essi "segni dei tempi", non è corretto addebitare loro la causa dello sfacelo odierno della Religione, essi sono le prime vittime della corruzione dilagante. L'unica cosa che si può dire a loro carico è che per svolgere la funzione negativa che svolgono è necessario che siano i meno avveduti, i piú permeati di spirito di corruttela, in una parola quelli in maggiore e migliore sintonia con la corruzione: a questo punto non fanno nessuno sforzo per emergere, poiché affiorano spontaneamente e si presentano come i piú idonei, oseremmo dire i "migliori". In tal modo la corruzione si autoalimenta, senza che si debba ricorrere minimamente a piani prestabiliti e ad azioni concordate. 
Ora, in simili condizioni, come può collocarsi la Grazia di Dio?
Innanzi tutto, occorre ricordare che i primi ad usare e ad abusare della possibilità dell'intervento imperscrutabile dello Spirito sono proprio i modernisti, i quali, con la scusa che "lo Spirito soffia dove vuole", pretendono di spacciare per interventi dello Spirito Santo tutte le loro fin troppo umane iniziative, non accorgendosi che l'approvazione che il mondo tributa loro dovrebbe, di per sé, suscitare il piú grande sospetto, se non la ripulsa di queste stesse iniziative. 
In secondo luogo non è necessario supporre che l'intervento dello Spirito Santo si debba sempre manifestare in concordanza con le aspirazioni o con le aspettative umane, soprattutto in termini di contingenza e di sviluppo storico (con buona pace degli storicisti e dei progressisti); neanche se queste aspettative scaturiscono dagli àmbiti che usiamo definire tradizionalisti. 
In ultimo non bisogna mai perdere di vista che i Vangeli sono costellati di ammonimenti che ricordano sempre: "Verranno tempi in cui…", ammonimenti che non possono che riferirsi ad un ineluttabile procedere della corruzione, esattamente come constatiamo noi oggi, senza che questo possa far pensare al venir meno della Grazia di Dio.
Piuttosto, il non prevalebunt dei Vangeli non bisogna pensarlo in riferimento alla Santa Chiesa intesa, ancora una volta, in maniera quantitativa; cioè intendendo per Santa Chiesa tutto l'insieme dei Cattolici iscritti nei registri parrocchiali. Si tratterebbe dello stesso errore che commettono i modernisti quando sognano un illusorio ecumene cristiano in cui riunire tutti indistintamente coloro che credono o addirittura sono semplicemente informati della venuta del Cristo; costoro vaneggiano di un malinteso trionfo dei Vangeli perché agognano di contare i cristiani per miliardi, anziché per milioni. 
In verità, la Santa Chiesa è tale, in tutta la sua completezzza, anche se i fedeli, quelli veri, sono una minoranza; poiché la sua Santità non si misura con misura d'uomo, ma con misura divina, talché una sia pur ridotta quantità di fedeli, ai quali corrisponda una vera Santità, sarà sempre molto, ma molto di piú, di miliardi di sedicenti cristiani del tipo di Ravasi e compagni. 
Il non prevalebunt è riferito alla Santa Chiesa cosí intesa, non a quell'insieme scomposto che sta preparandosi con il novello ecumenismo, per mezzo del quale si giungerà certamente ad un doppione dell'ONU, ad una sorta di parlamento delle religioni, che avrà con Dio lo stesso rapporto che con Lui hanno gli attuali parlamenti del mondo, cioè nessuno.
NOTA - Su tale questione, di notevole importanza, avremo modo di soffermarci in altra occasione. Per il momento ci accontentiamo di alcuni veloci rimandi: SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo (in particolare i capp. 26 e 39 del libro 3); La Notte Oscura (in particolare i capp. 2 e 23 del libro 2). SANTA TERESA D'AVILA, Mansioni 7, capp. 1 e 2.
Giovanni Servodio
http://www.unavox.it/

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