ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 11 gennaio 2013

Non gallo..semmai cappone


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DON GALLO DOCET 


di Piero Nicola

Don Andrea Gallo, Come un cane in chiesa – Il Vangelo respira solo nelle strade, Ed. Piemme.

Me l’ha regalato un amico di famiglia, forse conoscendomi poco, forse per scherzo. L’avevo buttato là, in attesa di eliminarlo. Ma un altro amico che dovrebbe conoscermi meglio, e che ha ricevuto lo stesso dono nel medesimo scambio di regalucci natalizi, mi ha consigliato di leggere il libello del parroco genovese noto per le sue… stravaganze: ci avrei trovato delle proteste che mi appartenevano, che avrei condiviso.
Così l’interesse suscitato ha potuto più del criterio.

“Le parole di Gesù sono sovversive, indomabili, rivoluzionarie […] Mi ritengo un partigiano del Vangelo […] Proprio in virtù del Vangelo che amo, mi permetto talvolta di fare un po’ il ribelle […] per richiamare […] a un ascolto più attento del messaggio universale dell’uomo [u minuscola] di Nazareth”.
Fin da principio e senza volerlo, l’autore svela la sua parzialità, che porta all’omissione e diventa radice dell’errore: “Ho scelto […] le pagine più radicali e scandalose dei quattro Vangeli, quelle […] a cui mi aggrappo da sempre”.
Quindi ci informa che sta “portando in giro per i teatri d’Italia uno spettacolo su Girolamo Savonarola” intitolato Io non taccio. “Dopo tante repliche, il grande frate predicatore mi è entrato nella pelle e mi sento anch’io un po’ come lui: un ‘cane in chiesa’”.
Sorvolo sulla Chiesa intesa soprattutto come ecclesia “assemblea del popolo di Dio che dà voce a tutti i suoi componenti”, talché: nessuna “remissività di fronte al potere, compreso quello ecclesiastico”, se la coscienza comanda di opporsi ad esso.
Il libro è impostato su dodici citazioni di insegnamenti del Messia, posti in testa ad altrettanti capitoli. Il primo reca la dicitura Il giorno del giudizio.
Cristo discrimina le pecore dai capri, secondo che abbiano soccorso gli affamati, i forestieri, gli ignudi, gli infermi, i carcerati, oppure no. Tutto bene. È lo spunto per biasimare “una certa concezione edulcorata e buonista del cristianesimo”. D’accordo. Finché don Gallo lamenta che ci si ostini “a presentarci Gesù uomo bello, alto, biondo e con gli occhi azzurri”. Ma che c’è di male, dico io? Invece, a sentir lui, Egli poteva assomigliare a Gandhi, poteva essere uno zoppo.
Poche righe, e siamo al centro della morale cattolica. Una volta fustigata la “sorta di reverenza bigotta” non contemplata dal Vangelo, egli sostiene che “le parole di Gesù […] maledicono tutti coloro che non lavorano per la giustizia sociale e il bene comune […] Gesù si scaglia contro gli indifferenti, i menefreghisti, gli operatori di iniquità. Li chiama maledetti”.
Tutto abbastanza esatto. Ciononostante la confusione ha preso l’avvio. Per il fedele il dovere della carità è affatto diverso dal dovere, bensì caritatevole, di chi esercita una responsabilità inerente il “bene comune”. La Scrittura, con San Paolo, lo dice a chiare lettere: le potestà civili (ma anche quelle della Società gerarchica avente il vertice Pietro), disposte da Dio, hanno il compito di provvedere l’ordine sociale. Ne consegue che i reggitori, come tali, sono tenuti a una giustizia che tiene conto delle maggiori conseguenze, e non può perdonare e rimettere i debiti come spetterebbe al singolo devoto nei riguardi dei suoi fratelli. I reggitori saranno giusti davanti a Dio castigando e premiando così da beneficare l’intera comunità. Del resto, i detti e le parabole del Salvatore concordano. Il re, il padrone adottano debitamente un procedimento che non sarebbe misericordioso per l’individuo cristiano. Ed anche questi non sarà indulgente al di fuori della sfera privata. Quando la sua azione concerne la Chiesa e lo Stato, deve uniformarsi alle loro autorevoli ed eque disposizioni. Rammentiamo l’obbligo di non dar scandalo, di non prestare consenso agli eretici e a chi diffonde errori che corrompono i fratelli. Gesù crocifisso non perdona il ladrone che, a differenza dell’altro, evita di ricredersi dopo averlo oltraggiato (“Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo” Mt. 27, 44). Gli offesi, i diseredati, i sofferenti non sono per questo resi immuni o assolti dalle colpe.
Elencando le malefatte dei maledetti ipocriti, don Gallo accusa quelli che urlano contro i poveri immigrati che hanno invaso l’Italia. Eh, liquidare così questa faccenda manda fuori strada! Certo molti cattolici peccano verso di loro per mancanza di buon cuore. Ma, in generale, il fenomeno dell’immigrazione ha ben altro aspetto. Più volte, abbiamo considerato la Patria sacrosanta, sacra quasi come lo è la famiglia, e sempre riconosciuta tale dalla Chiesa; per non dire della nazione ebraica del Vecchio Testamento, dagli israeliti altrettanto difesa e conservata fino ai giorni nostri.
Di nuovo, abbiamo una priorità d’ordine civile che impone deduzioni: lo straniero venga ospitato ed, eventualmente, assimilato quale cittadino della Patria (di cui condivida storia, costumi, religione), dunque soltanto a giuste condizioni, che assicurano il rispetto di ospite o la sua sufficiente integrazione.
Questi presupposti oggi sono affatto postergati, e non ha torto l’italiano che intenda farli valere.
“Lavorare per una più equa distribuzione dei beni è una forma di culto e di rispetto nei confronti della Creazione”. “La terra avrebbe frutti in abbondanza per tutti”.
Il “culto” è dovuto a Dio e, come dulia, agli angeli e ai santi. L’osservanza morale è altra cosa. Detto questo, il necessario criterio da seguire don Gallo lo tralascia. Anzi, sottintende il socialismo condannato che distribuisce in base ai bisogni, invece del meritevole acquisto dei beni, del giusto profitto, della giusta mercede e delle provvidenze per i bisognosi: il tutto, all’occorrenza, garantito dallo Stato.
Conferma: “Questa straordinaria pagina evangelica [quella del giudizio divino che premia i caritatevoli] riafferma, fra l’altro, che siamo tutti discendenti della stessa stirpe umana, che siamo fratelli […] Quando restituiamo [sic] al prossimo il pane, la casa, la dignità, rendiamo culto e onore al genere umano, oltre che alla madre terra”.
“Chiunque compie il bene sarà salvo, anche se non ha mai sentito parlare di Dio o del Cristo”.
Siamo all’eresia (fortuna per lui che l’Autorità ecclesiastica non gli oppone formalmente la verità!). Questa proposizione ha una immediata conseguenza: si può fare il bene e salvarsi senza il Battesimo e la Grazia ricuperata con i Sacramenti. L’eccezione di chi riceve la Grazia e la conserva senza battesimo e osservanza cattolica, così che può compiere il bene salvifico, diventa la regola: quella dell’errore di Pelagio, ripetutamente condannato dalla Chiesa, e purtroppo oggi diffuso come credenza in voga.
“I cristiani si sono appropriati indebitamente di Gesù. Il suo messaggio etico di giustizia e di amore è per tutti, nessuno escluso, e ci fa crescere in umanità”.
In altri termini: i cristiani peccherebbero affermando che chi non entra nella Chiesa si perde. Inoltre, chi sta fuori potrebbe giovarsi del Vangelo ignorandovi il richiamo di Cristo a far parte del suo gregge.
“Mi rifiuto di credere che c’è un Dio-amore che manda suo figlio a salvare solo una ridotta parte dell’umanità”.
A questa asserzione e obiezione è stato risposto nei secoli dogmaticamente che si oltraggia il Signore pretendendo di dare legge alla sua infinita Sapienza e Provvidenza.
“Nessun gesto d’amore gratuito, per quanto nascosto o ignorato, andrà perduto o sarà dimenticato nell’eternità”.
Con questo boccone gettato agli ignoranti disposti ad abboccare, si getta a mare un tesoro di dottrina. Il succo sta nel catechismo: senza essere in Grazia di Dio l’uomo merita troppo poco per essere assolto e avere accesso al Purgatorio. Ma è implicito che don Gallo non vuol saperne di dogmi e di catechismo.
“Una storiellina sul mio ex cardinale di Genova, Giuseppe Siri”: Giovanni XXIII, il papa buono, va in cielo dove ci sono “buddisti, atei, musulmani, ebrei e popoli di ogni religione”, perché Dio “accoglie tutti indistintamente”. Il nuovo venuto chiede, a tale proposito, che cosa sia quella torre che si para davanti a loro. San Pietro risponde di lasciar perdere: si tratta d’una torre di avvistamento, e “tu non puoi visitarla, sei troppo vecchio, non c’è l’ascensore”. Ma il papa desidera vedere che cosa essa nasconda, e scopre “uno che gioca al pallone da solo”; riconosce in lui Giuseppe Siri, vuole salutarlo. “San Pietro gli dice: ‘Lascialo stare, è convinto di essere in Paradiso da solo’”.
A questo punto (pag. 17) chiudo il libro. Il mio tempo è contato, devo farne economia e non vado avanti.


http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2111:don-gallo-docet-di-piero-nicola&catid=61:vita-della-chiesa&Itemid=123

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