ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 21 gennaio 2013

XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’:


“VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013.

 

Il dibattito sul Concilio Vaticano II è entrato nel vivo e mentre gli argomenti declamatori hanno perso consistenza di fronte all’anacronismo degli ottimistici entusiasmi di un’utopica primavera della Chiesa degli anni Sessanta (quando si volle gettare la Chiesa in un imprudente dialogo con il mondo), chi osa, con coraggio, profonda Fede e amore per la Chiesa, mettere sotto esame il più problematico Concilio della storia offre l’opportunità ai credenti di comprendere le mosse di una rivoluzione che ha reso sismica la zolla su cui poggia la cattolicità.
In questi giorni, dal 4 al 6 gennaio 2013, si è tenuto, fra Versailles e Parigi, l’XI Congresso Teologico Internazionale, organizzato dalla dotta e valorosa testata Courrier de Rome, in collaborazione con D.I.C.I., sotto la Presidenza di S.E. Monsignor Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Al Congresso erano presenti, oltre a Monsignor Fellay, molti sacerdoti, suore e laici francesi, statunitensi, belgi, italiani, tedeschi, svizzeri. Tema della tre giorni è  stato: Vatican II, 50 ans après: quel bilan pour l’Église? Ossia: «Vaticano II, 50 anni dopo: quale bilancio per la Chiesa?».
I relatori che si sono susseguiti al tavolo dei lavori hanno offerto una disamina ampia e approfondita sulle diverse problematiche sorte nel XXI Concilio. Le tesi proposte hanno realisticamente affrontato, sia da un punto di vista storico, che filosofico, che dottrinale, il problema dello scollamento fra la Chiesa della Tradizione e coloro che si sono lasciati trascinare dalle seduzioni filosofico-culturali del mondo moderno.

Il primo giorno del Congresso, quando è stato proposto il punto di vista storico, l’Abbé François Knittel, priore di Strasburgo, ha compiuto una panoramica in merito ai rapporti fra la FSSPX e la Santa Sede, Accettare il Vaticano II e la Nuova Messa: da Paolo VI a Benedetto XVI. I problemi di carattere disciplinare della Fraternità Sacerdotale San Pio X sorti sotto i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II vengono ad assumere, secondo la spiegazione di Knittel, una prospettiva nuova sotto Benedetto XVI, il quale chiede alla FSSPX una regolarizzazione mentre si compiono alcuni importanti passi: liberalizzazione della Messa di sempre del 2007 e revoca delle scomuniche dei quattro Vescovi consacrati da Monsignor Marcel Lefebvre nel 1988.
Il problema, dunque, si è spostato dal punto di vista disciplinare a quello dottrinale; infatti vengono aperti i colloqui dottrinali tra la Santa Sede e la FSSPX nell’ottobre 2009, che si chiuderanno nell’aprile 2011.
«Sembra chiaro che, le proposte romane si sono gradualmente spostate dalla materia canonica e disciplinare», esistenza della Fraternità, dei seminari, dei priorati..., «a quella dottrinale. Ma l’accettazione del Concilio e la Messa di Paolo VI, come richiesto dalle attuali autorità della Chiesa, sono prerequisiti non negoziabili». Dunque per avere un riconoscimento canonico ed un ritorno “alla piena comunione” le autorità romane chiedono, per il momento, l’accettazione sine qua non del Vaticano II e della Nuova Messa.
Padre Knittel ha spiegato che non si tratta di una lotta statica, ma dinamica e in divenire e, pertanto, diviene basilare gettare uno sguardo sia al passato più lontano che a quello più vicino, restando «fedeli a ciò che Dio si aspetta da ciascuno di noi hic et nunc. Tuttavia, col trascorrere del tempo, siamo esposti a molti pericoli: pericolo per i giovani di ignorare il passato, quando essi non erano né attori né testimoni; pericolo per i più adulti di dimenticare il passato e di limitare la valutazione o, al contrario, di congelare il passato che si dissocia dai più recenti sviluppi».
A volte c’è bisogno di fermarsi, di esaminare tutto il “dossier”, di abbracciare in un colpo d’occhio il passato e il presente per cogliere le sfumature, il progresso, le battute d’arresto, le accelerazioni, le decelerazioni, la logica. Questo è ciò che ci proponiamo di fare oggi circa l’accettazione del Concilio Vaticano II e la riforma liturgica. Per fare un simile esame ci si può avvalere di varie fonti, fra le quali: i discorsi di Paolo VI e di Benedetto XVI sulla riforma liturgica e l’accettazione del Concilio; le proposizioni presentate alla Fraternità San Pio X dal 1975 fino a giugno 2012; le iniziative relative alla celebrazione romana della Messa tradizionale dal 1980 al 2011.
Per la Fraternità, ha detto Knittel, come per la Chiesa fino al Concilio Vaticano II, la Tradizione è il Depositum Fidei, vale a dire l’insieme di verità che costituiscono la Rivelazione, chiusasi con la morte di san Giovanni Evangelista. Pertanto la Tradizione è un insieme di verità intellettualmente accettabili ed eterne, la cui mutabilità consiste nell’immutabilità dell’oggetto, benché possano essere approfondite. In questa concezione la Tradizione è la continua ripetizione dell’esperienza di fede fatta dalla Chiesa apostolica. Ma la prospettiva ha avuto un mutamento: la continuità non risiede più nell’oggetto eterno ed immutabile, ma nel soggetto che prova e produce l’esperienza religiosa. Così il solo ricercare, tramite l’esegesi dei testi conciliari, la continuità o meno con la Tradizione viene ritenuto da alcuni un metodo che mette in discussione l’assistenza dello Spirito Santo. Tuttavia, rimane questa la via lecita da praticare per comprendere le sfasature, le ambiguità e fare spazio alla chiarezza.
«Il Vaticano II e la Messa nuova sono stati la nuova anima della Chiesa conciliare e l’accettazione dell’uno e dell’altro erano la conditio sine qua non per una regolarizzazione canonica. Sono passati dieci anni e le cose non sono cambiate. Il ragionamento delle autorità romane è sempre lo stesso: da quando c’è stato il nuovo Concilio e la promulgazione della nuova Messa ogni cattolico deve accettare l’uno e l’altra.
Senza mettere in discussione l’autorità, la Fraternità afferma che la correttezza di una legge dipende anche dalla ragione finale  del bene comune. Ma oggi non c’è dubbio sulla crisi universale che affligge la Chiesa dopo il Concilio. Dottrina, catechismo morale, liturgia, educazione cattolica, università, disciplina ecclesiastica: tutto è sconvolto». Non è forse perché gli insegnamenti delle riforme conciliari e post-conciliari hanno errato qualcosa? Dunque, si è chiesto l’Abbé Knittel, come «lavorare alla salvezza delle anime in questo contesto?». In primo luogo, rifiutando di aderire alle questioni controverse del Concilio e rifiutando di riconoscere la legittimità della nuova Messa. Questo rifiuto rispettoso cerca e spera correzioni nella dottrina, nella disciplina canonica e tradizionale. «A coloro che sono stati sedotti dal miraggio delle novità e che dubitavano dei principi tradizionali, è importante mostrare, non da un ragionamento, ma dai fatti, la fertilità inesauribile di questi principi tradizionali. Non bisogna infatti dimenticare che questo era e rimane la missione della Fraternità Sacerdotale San Pio X nella Chiesa».

Con l’intervento del Professor Roberto de Mattei si è preso atto che la storia è una scienza che dovrebbe essere tenuta in maggiore considerazione nelle discipline ecclesiastiche. Certamente il pensiero cattolico del Novecento annovera grandi teologi, grandi filosofi, grandi moralisti, grandi maestri di vita spirituale, ma nessun grande storico ha saputo unire la vastità della scienza e dell’erudizione alla pienezza della fede ortodossa.
«Eppure la storia - mi riferisco soprattutto alla storia della Chiesa - può portare immensi benefici alla restaurazione culturale e morale di un popolo. Basti pensare alla benefica influenza, nel XIX secolo, della monumentale Histoire universelle de l’Eglise catholique di René Francois Rohrbacher in 28 volumi, con sette edizioni dal 1842 al 1901, e traduzioni in italiano, inglese e tedesco. Quest’opera ha avuto una influenza sul pensiero cattolico dell’Ottocento non minore delle opere del conte Joseph de Maistre. Il presidente dell’Ecuador Garcia Moreno la lesse due volte durante il suo soggiorno a Parigi e anche grazie ad essa si fece definitivamente e irrevocabilmente cattolico.
Opere di questo genere oggi mancano e la ragione principale di quest’assenza dall’orizzonte culturale ecclesiastico sta, a mio avviso, nella perdita del senso storico, che è la comprensione delle vicende umane, nelle loro cause e nelle loro conseguenze, da un punto di vista innanzitutto soprannaturale. Dom Guéranger, il grande abate di Solesmes, che appartiene alla stessa scuola ultramontana di Rohrbacher, definisce lo storico cattolico come colui che “juge les faits, les hommes, les institutions au point de vie de l’Eglise; il n’est pas libre de juger autrement, et c’est là qui fait sa force”».
Con il Modernismo si fece strada una nuova concezione della storia, la quale ha capovolto la prospettiva di dom Guéranger, affermando che sono le scienze umane, la storia e le sue discipline ausiliari, come la filologia, l’archeologia, la sociologia, ad illuminare la fede e ad offrire una migliore comprensione di essa. Mons. Louis Duchesne, maestro di Alfred Loisy all’Institut Catholique, è stato l’iniziatore di un nuovo metodo che si è progressivamente esteso all’esegesi e a tutte le discipline ecclesiastiche. «È il cosiddetto metodo storico-critico, a cui oggi tutti si rifanno, contrapponendolo al metodo apologetico tradizionale». Il professor de Mattei ha proseguito spiegando che il metodo storico-critico, ovvero la ricerca accurata delle fonti, il rigore filologico e la obiettività nell’accertamento dei fatti, venne già utilizzato da Eusebio di Cesarea e ha avuto eccellenti rappresentanti fino al barone Ludwig von Pastor, al Cardinale Hergenrother, all’eccellenza degli Annali Ecclesiastici del Cardinale Baronio. «Oggi però, con questo termine, si intende affermare una concezione secolarizzata della storia: proprio quella che dom Guéranger criticava nella sua polemica con Albert de Broglie e che san Pio X ha condannato nella Pascendi».
Lo storico cristiano deve manifestare la propria fede, deve leggere i fatti alla luce di essa e dell’intervento della Divina Provvidenza nelle falde della storia umana oppure deve scimmiottare gli scienziati acattolici? Per essere veramente cristiano deve respingere l’approccio naturalista che allontana la presenza del soprannaturale dalla storia e riduce la realtà ad una pura dimensione fenomenica e sensibile. «Lo storico cattolico non è colui che va a Messa la domenica e poi nella sua professione si adegua alle regole imposte dalla corporazione universitaria. È invece colui che nella sua opera cerca la verità dei fatti, e di questi fatti dà un’interpretazione unitaria, alla luce della fede cattolica».
La perdita del senso soprannaturale fa smarrire la teologia della storia cristiana, conducendo a derive protestantizzanti con conseguenze disastrose, come è accaduto, per esempio, a Jacques Maritain, il quale fonda il suo «“umanesimo integrale” su di un postulato storico radicalmente erroneo: quello della irreversibilità del mondo moderno, nato dalla Rivoluzione francese. Lo storico cattolico sa che nulla è irreversibile nella storia e soprattutto che la storia non crea i valori, ma è sottomessa e giudicata da essi. Il pensiero cattolico del Novecento ha fatto propria invece la concezione hegeliana della storia come Weltgeist”, “il cammino razionale, necessario dello spirito del mondo”. La storia si trasforma in un percorso irreversibile, in cui il dato cronologico del novum coincide con quello qualitativo del melius». L’idea immanentista provoca uno sconcertante ribaltamento di superbia umana: la Chiesa non ha più un ruolo guida, ma deve accompagnare e, dunque, adeguarsi, al cammino della storia. «È questa la concezione della storia espressa dal cardinale Martini quando, nella sua ultima intervista, ha affermato che la Chiesa “è indietro di 200 anni”, ovvero l’arco di tempo che la separa dall’evento fondatore della Rivoluzione francese». Ecco che l’essenza del Concilio Vaticano II sta nel tentativo di conciliare la Chiesa con il mondo moderno nato proprio dalla Rivoluzione francese; tentativo fallimentare «perché fondato su di un postulato erroneo, smentito dalla stessa storia: la tesi della irreversibilità della modernità».
De Mattei, come d’altra parte nel suo libro Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, formula un giudizio storico sull’Assise nel suo insieme, a differenza del giudizio teologico di Monsignor Brunero Gherardini che, in qualità proprio di teologo, separa i documenti del Concilio dall’evento, considerandoli nella loro formulazione, «sicut litterae sonant ed ognuno ha una diversa portata teologica e un diverso grado di autorità e di cogenza. Se la grandezza del teologo sta nella sua capacità di distinguere, il valore dello storico sta nella sua capacità di ridurre ad unum, cioè di cogliere l’essenza, il momento unitario, della molteplicità degli eventi nel loro fluire. La confusione dei due livelli, quello storico e quello ermeneutico, sarebbe un grave errore di ordine epistemologico.
Concordo con la scuola di Bologna, quando afferma che il Concilio Vaticano II non può essere ridotto alle sue decisioni dottrinali, ma la mia distinzione tra la dimensione fattuale e quella dottrinale del Concilio, non ha nulla a che vedere con quella proposta da Giuseppe Alberigo nella sua Storia del Concilio Vaticano II: Mentre io distinguo tra storia e teologia, e affermo il primato della teologia sulla storia, Alberigo, sulla scia della scuola di Le Saulchoir, assorbe la teologia nella storia e fa della storia stessa un locus theologicus. Per lo storico bolognese, come per il suo maestro Chenu, l’essenza della Chiesa si attua in forma storica e il compito di individuare la mutevolezza delle forme spetta agli storici. L’atto magisteriale è destinato ad essere storicizzato e relativizzato, all’interno di un processo dialettico in cui l’ “evento” prevale sulla dottrina, lo “spirito” sul documento. Lo “Spirito” non è la terza persona della Santissima Trinità, ma una sua versione secolarizzata: è lo spirito del mondo, immanente alla storia. Il principio di immanenza sostituisce quello di trascendenza, perché la trascendenza impedisce all’uomo di vivere la propria fede all’interno del mondo».
Il Concilio Vaticano II è stato presentato come una «nuova Pentecoste» che ha sostituito la metafisica alle leggi della pastoralità e dell’aggiornamento, divenute così fondanti da accantonare la dimensione dottrinale e provocando delle aspettative psicologiche entusiastiche già nella costituzione apostolica Humanae salutis (25 dicembre 1961), con la quale  Giovanni XXIII convocò il Concilio al fine di interpretare «i segni dei tempi» (Mt. 16,3) e come rivelò nel discorso Gaudet Mater Ecclesia dell’11 ottobre 1962, il Papa si oppose a quei «profeti di sventura» che «annunziano sempre il peggio quasi incombesse la fine del mondo» e fra le «“profezie di sventura” Papa Roncalli considerava il Terzo segreto di Fatima, di cui, dopo averlo letto, vietò la diffusione giudicandolo certamente inadatto a comprendere i segni dei tempi», tempi moderni nei quali venne bandita la parola «inferno», un concetto che, nello spirito di «balzo in avanti», appariva a teologi come Küng, Rahner, von Balthasar, Schillebeeckx una rappresentazione nefasta, mitologica «o, pur ammettendone la realtà, lo considerarono “vuoto”. La negazione o il ridimensionamento dell’inferno era peraltro la conseguenza di una concezione implicita nella Gaudet Mater Ecclesiae, secondo cui: “Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di abbracciare le armi del rigore”». La medicina si è dimostrata mortifera sia per la fede che per la morale.
La pianificazione di carattere strettamente umano e non soprannaturale che è stata compiuta durante il Concilio Vaticano II ha prodotto cattivi frutti anche a causa di ciò che è stato volutamente omesso: Jean Madiran fu il primo a portare alla luce, sulla rivista «Itinéraires» del febbraio 1963, l’esistenza di un accordo segreto, avvenuto a Metz, nell’agosto 1962, tra il Cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano e il nuovo Arcivescovo ortodosso di Yaroslav, Monsignor Nikodim, i quali decisero che durante il Vaticano II non si sarebbe parlato del tema principe di quegli anni: il Comunismo. E l’Ostpolitik venne a patti proprio con le autorità sovietiche. De Mattei ha ricordato, a questo proposito, la bella figura del Cardinale Alois Stepinac che, anche nelle ore più buie della sua prigionia e del suo isolamento, non dubitò mai del crollo del Comunismo. Scrisse: «Io probabilmente non vedrò la caduta del comunismo nel mondo, a motivo della mia salute scossa, ma sono assolutamente certo di questa caduta. Tutto ciò che viene costruito contro la natura che Dio ha creato e istituito, deve crollare per intrinseca necessità. Anche qui si potrebbe dire ciò che Gesù dice nel Vangelo: “Ogni piantagione che non ha piantato il Padre mio celeste, sarà sradicata”. Poiché il comunismo nega Dio e lo espone al ridicolo, è ben certo che non lo ha piantato Dio, ma satana. E satana ha perduto la battaglia sul Calvario, e perciò sono sicuro che la perderà anche sul Calvario del Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, la quale oggi sale sul suo Golgota». Ha domandato lo storico italiano a Versailles: «Ma oggi dobbiamo chiederci: erano profeti coloro che ritenevano, come gli artefici dell’Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell’umanità e avrebbe portato a compimento il progetto della modernità; o era profeta il Beato Stepinac e tutti coloro che in Concilio denunciavano l’oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna? La caduta del Muro di Berlino è la risposta a questa domanda.
Condivido il giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira sulla mancata condanna del comunismo: “È’ duro dirlo. Ma l’evidenza dei fatti indica, in questo senso, il Concilio Vaticano II come una delle maggiori calamità, se non la maggiore della storia della Chiesa”».
Propizio il paragone che ha poi fatto fra il paganesimo del IV secolo e quello di oggi: «A Ponte Milvio Costantino aveva sconfitto, in nome della Croce, il paganesimo morente. A Roma, il Concilio Vaticano II abbraccia il neo-paganesimo del XX secolo, senza rendersi conto che è anch’esso morente. Sotto questo aspetto il Concilio Vaticano II può essere definito come il ralliement della Chiesa a quel mondo moderno che il suo Magistero aveva sempre condannato».
Il 12 ottobre 1963, Monsignor Franić, vescovo croato di Spalato, suggerì ai Padri conciliari che, nello schema De Ecclesia, al nuovo titolo di Chiesa «pellegrinante» fosse aggiunta la denominazione tradizionale di «militante», ma la sua proposta fu rifiutata. «L’immagine che la Chiesa avrebbe dovuto offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna o della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna con tutti gli uomini. La minoranza progressista ottenne non tanto un cambiamento della dottrina della Chiesa, quanto una sostituzione dell’immagine gerarchica e militante della Sposa di Cristo con l’immagine di un’assemblea democratica, dialogante e immersa nella Storia».
La Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, ha rinunciato alla sua dimensione militante, così alla «teologia agostiniana e ignaziana delle due città, che si combattono nella storia, quella di Dio e quella di Satana, è succeduta una teologia vittimista e catacombale, per la quale si deve cessare di difendere le verità in cui si crede: ma cessando di combattere per queste verità, si cessa di credere in esse, si cessa di amarle, perché chi ama combatte per difendere ciò in cui crede. In realtà la Chiesa che soffre in purgatorio e trionfa in Paradiso, combatte in nome di Cristo sulla terra e perciò è chiamata “militante”. Il ritrovamento di questo spirito mi sembra essere una delle urgenze della Chiesa del nostro tempo». Tuttavia il combattente cattolico continua ad esistere perché la Chiesa militante non può essere soffocata: è la verità che avanza coraggiosamente di fronte alle menzogne che arretrano miseramente, nonostante l’apparente successo di numeri. «La gioia nella lotta caratterizza il combattente cattolico del XXI secolo, un combattente che guarda al futuro senza dimenticare il passato; che nei momenti di difficoltà ricorre al Magistero vivente della Tradizione; quella Tradizione che oggi illumina i nostri passi, come illuminò i passi di Atanasio l’invitto campione della fede durante la terribile crisi ariana del IV secolo. Atanasio era mosso soprattutto dal suo sensus fidei che, come ci ricorda il beato Newman, durante i settant’anni della crisi ariana fu mantenuto dai semplici fedeli più che dai vescovi i quali, tranne poche eccezioni, quali Atanasio, Ilario di Poitiers, Eusebio di Vercelli, non testimoniarono la fede ortodossa».
Roberto de Mattei ha chiuso la sua conferenza auspicando l’intervento di protettori della Tradizione come sant’Atanasio e come santa Teresa d’Avila, la quale affermava che avrebbe affrontato mille morti per la più piccola cerimonia della Chiesa. Il suo insegnamento possa, quindi, essere di sprone per coloro che non si arrendono e sanno che tutto ciò che non è di Dio è destinato a perire, proprio come la santa dichiarava: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Chi ha Dio di nulla manca. Tutto passa, solo Dio non muta». La Tradizione è ciò che non passa, è ciò che del passato vive nel presente, ciò che deve vivere perché il presente abbia un futuro e «noi siamo convinti che nel nostro futuro sia scritta, grazie all’intervento di Dio, la restaurazione della Chiesa e della Civiltà cristiana. La nostra presenza, la nostra voce, la nostra testimonianza ne è la prova».
resoconto di Cristina Siccardi
(prima parte) (continua)

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