a Mons. Augustine Di Noia
Vice Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei
di Giovanni Servodio
si veda il testo della lettera inviata da Mons. Di Noia
a tutti i sacerdoti della Fraternità San Pio X
Eccellenza Reverendissima,
dopo aver letto la lettera da Lei caritatevolmente inviata ai sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X, mi è sembrato doveroso indirizzarLe queste righe in nome di quell’amore per l’unità della Chiesa da Lei richiamato.
Preciso subito che sono un semplice fedele, che dalla Fraternità ha appreso ad amare e a servire la Chiesa, nel pieno rispetto dei superiori, della Gerarchia e del Santo Padre, in conformità col proprio dovere di stato e nel rigoroso rispetto degli insegnamenti di Nostro Signore fedelmente trasmessi nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli.
In questa ottica, sento il dovere di precisare che, come Lei stesso accenna nella sua lettera, io rientro tra coloro che “non sono competenti in teologia”, ma non per questo non in grado di comprendere ciò che assilla pesantemente la Chiesa a partire dal concilio Vaticano II, poiché, come riporta San Luca (10, 21), il Padre ha nascosto «queste cose ai dotti e ai sapienti» e le ha rivelate ai piccoli, così che per comprendere il grave stato di crisi che affligge la Chiesa e le cause di essa, non serve un dottorato in teologia, né occorre aspettare a bocca aperta la predicazione supposta “aspra e controproducente” dei sacerdoti della Fraternità, che alimenterebbe la “controversia pubblica”, ma basta l’assistenza di Dio stesso e la soverchiante evidenza dei fatti, delle prediche e delle pratiche attuate dai Pastori in questi ultimi cinquant’anni.
Non posso dubitare del fatto che Lei, proprio in forza della sua preparazione e del carisma che Le viene dalla sua ordinazione, comprenderà benissimo il mio stato d’animo, la mia sincera volontà di chiarezza e la mia buona disposizione a rispettare “il genere proprio dei diversi tipi di istanza”; come non posso dubitare che Lei accoglierà caritatevolmente, “in spirito di apertura e in tutta buona fede”, qualche intemperanza che può essere presente in queste righe e qualche mancanza di precisione teologica, nonché la stessa forma di “lettera aperta” con la quale ho inteso presentarLe queste mie riflessioni; forma dettata più dall’importanza quasi universale della materia trattata e meno dalla pretesa di confrontarmi con Lei e parimenti meno di avanzare degli appunti alla sua persona e alla sua preparazione.
La sua lettera è incentrata sull’istanza dell’unità della Chiesa, e il suo richiamo allo spirito dell’ut unum sint, posto quasi alla fine di essa, di fatto la impernia tutta. È quindi indispensabile chiarire il senso di questa espressione, che fa parte della grande preghiera di Nostro Signore Gesù Cristo, riportata da San Giovanni al cap. 17, quasi ad introduzione del racconto della Sua Passione.
A tal fine, non sembri eccessiva la citazione dell’intero passo, versetti 20-23, che Lei sicuramente conosce a memoria: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola (Ut sunt unum, sicut et nos unum sumus). Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.»
Questo passo, che va letto nel contesto dell’intera preghiera di Nostro Signore, è sì un richiamo imperativo, per noi, all’unità, ma non all’unità per se stessa, come fosse un valore imprescindibile di per sé, bensì all’unità nel Figlio e nel Padre, all’unità nella Verità. Poiché non può darsi vera unità se non nella Verità. Senza questa precisazione e questo indispensabile presupposto, ogni unità della Chiesa rischia di trasformarsi in mera sommatoria. D’altronde, anche sulla base del semplice buon senso, non può darsi unità dal basso, sommando i fattori più diversi, ma si dà unità solo dall’alto, così che ogni fattore è ad un tempo emanazione dell’unità e componente di questa stessa unità, che è propriamente unica, sia per definizione sia per valenza intrinseca.
Per dirla in altre parole, l’unità di cui parla Nostro Signore, non è un’unità quantitativa, ma un’unità qualitativa, tale che senza il fondamento della Verità non è possibile costituire un “unum”, una cosa sola, ma si realizzerà solamente un “totum”, un insieme di cose, dove gli elementi differenziati potranno produrre solo ulteriore differenziazione e, in ultima analisi, divisione e caos.
Seguendo questo filo logico, è inevitabile considerare che prima ancora di parlare di unità si dovrebbe parlare di verifica della valenza qualitativa delle diverse posizioni che si vogliono condurre a questa unità. Così che il problema principale torna ad essere quello del “disaccordo in ordine al Concilio Vaticano II”, i cui termini, come dice Lei stesso, “restano, di fatto, immutati”, anche perché “i tre anni di colloqui dottrinali appena conclusi, non hanno cambiato sostanzialmente la situazione”.
Ora, se dopo quarant’anni di approfondimenti, di rapporti diretti e indiretti, di tentativi di conciliazione dei disaccordi, la situazione è sostanzialmente immutata, è evidente che non è con il richiamo all’unità che si potranno risolvere i contrasti, ma con un lavoro di totale revisione di quanto il Magistero ha proposto a credere a partire dal Vaticano II, perché è da lì che è scaturito l’oggetto del contendere. Se oggi, “in queste circostanze … nei nostri scambi dev’essere introdotto un elemento nuovo”, questo elemento è proprio la revisione delle “cose nuove” insegnate dal Vaticano II e dal successivo Magistero. Revisione che non può ridursi alla semplice “interpretazione” dei testi del Concilio, più o meno suscettibile di essere condotta “alla luce della Tradizione e del Magistero”, ma deve attuarsi con il vaglio dei documenti conciliari e magisteriali successivi, perché siano epurati di tutto ciò che non corrisponde all’insegnamento irreformabile dei Papi e della Tradizione.
Non v’è dubbio che, a questo punto, ci si possa trovare al cospetto della possibile messa in causa dell’autorità magisteriale della Santa Sede, ma allora, se si tiene ferma tale autorità, con tutto quello che in questi quarant’anni è riconducibile ad essa, ne scaturisce che è dalla parte della Fraternità che starebbe l’errore, così che si continua a non comprendere il reale fondamento della sua lettera.
In essa, infatti, Lei non mette a fuoco tale errore, ma si limita ad esortare all’unità, mentre invece è dovere della Gerarchia indicare l’errore e condannarlo, invitare a correggerlo e, in caso di pertinacia, sanzionare l’errante.
Tenuto conto della determinazione di Papa Giovanni XXIII, secondo il quale “la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore(Discorso di apertura del Concilio, dell’11 ottobre 1962)”, quantomeno la Gerarchia dovrebbe lasciare a se stessa la Fraternità, insieme a tutti coloro che, come me, ne condividono il carisma fondatore e le istanze dottrinali.
Se questo non si fa e si continua a richiamare la necessità e il dovere dell’unità, è mio modesto parere che la Gerarchia non renda un buon servizio né alla Fraternità, né alla Chiesa.
D’altronde, quando Lei dice che: “Papa Benedetto XVI è estremamente desideroso di superare le tensioni che sono esistite fra la Chiesa e la vostra Fraternità” e ipotizza che, seppure con una certa difficoltà, “Una riconciliazione ecclesiale immediata e totale metterà fine ai sospetti e alla diffidenza sorte da una parte e dall’altra”, è chiaro che esprime un anelito suo e del Papa ad una unità, non di tipo qualitativo, ma di tipo quantitativo. Esprime un’istanza fondata su una logica che si differenzia parecchio dal “ricondurre all’unità”, limitandosi al semplice assemblaggio. Una logica che, indubbiamente, è in linea con tutto l’andamento conciliare e post-conciliare, ma che si rivela essere una logica umana, in forte contrasto con lo spirito dell’ut unum sint, che scaturisce invece da una logica divina, se così si può dire.
Una logica, questa sua e del Papa, che sarà pure elaborata avendo in mente, come Lei dice: “la riconciliazione e la guarigione per mezzo della grazia di Dio, sotto la guida amorevole dello Spirito Santo”, ma che ricerca questa grazia e questa guida con presupposti meramente umani e con valenze semplicemente quantitative.
A riprova di ciò, se non bastassero la predicazione e la pratica ecumeniche moderne, si pensi alla formale istituzione dei già realizzati “ordinariati anglicani” e dei realizzandi “ordinariati luterani”, con i quali si diventa cattolici per decreto, pur conservando, di fatto e di diritto, la propria specifica acattolicità.
In questo modo non si rende giustizia all’ut unum sint, ma alla concezione meramente umana dell’assembramento sentimentale, dove tutti si sentono tanto più esteriormente uniti per quanto più sono interiormente divisi.
Lei comprende bene, Eccellenza, che la Fraternità potrebbe pure arrivare a condividere questa logica, ma certo non in forza dell’unità nella verità, ma solo in risposta ad un bisogno sentimentale di sentirsi “insieme”; cosa che a tutt’oggi la Fraternità non sembra disposta a fare, perché i suoi sacerdoti e i suoi fedeli hanno imparato dalla Santa Madre Chiesa che ciò che conta innanzi tutto è Dio e le sue leggi, anche a costo di contrariare gli uomini di Chiesa che oggi sono convinti che ciò che più conta è l’essere uniti nonostante tutto.
È per questo, Eccellenza, che i sacerdoti della Fraternità non possono e non devono impedirsi di fare di “queste questioni teologiche… il centro della [loro] predicazione e della [loro] formazione”, perché se non lo facessero verrebbero meno al loro dovere di pastori, sia nei confronti di loro stessi, sia nei confronti dei fedeli che si pongono domande e che chiedono risposte veritiere.
Ed è anche per questo, Eccellenza, che i sacerdoti e i fedeli della Fraternità non possono limitarsi a “proporre e a cercare d’influire”, né possono “rispettare il genere proprio dei diversi tipi di istanza”, poiché, come dice Lei stesso, è la fede che bisogna predicare dai pulpiti e praticare nelle case, e la fede si predica e si pratica solo rispettando l’unica istanza della fede stessa e rigettando necessariamente i diversi tipi di istanza che contrastino con essa; la quale comprende di per sé: l’amore per il prossimo, l’istruzione degli ignoranti e l’ammonimento dei peccatori, condotte tutte secondo il comando di Nostro Signore «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo, 5, 37).
D’altronde, è indubbio che in questi ultimi quarant’anni la Fraternità non ha fatto altro che “proporre” e “cercare di influire”, con le parole e con le opere, ma questo non è servito a niente, al punto che la “situazione non è sostanzialmente cambiata”.
E Lei mi insegna, Eccellenza, che: «Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano» (Matteo, 18, 15-17). Cosa che capovolge totalmente il suo ammonimento a “non mancare di rispetto nei confronti delle legittime autorità locali o agire contro di esse”, poiché, fatta l’ammonizione, constatata la sordità, invocati a più riprese i testimoni, reso tutto noto all’assemblea, constatato il perdurare nell’errore, non resta altro che considerare e trattare questi fratelli come dei pagani.
Vero è che il buon cattolico deve praticare “le virtù di umiltà, di dolcezza, di pazienza e di carità” al fine di modellare i propri pensieri e le proprie azioni, ma appare improbabile che possa farlo correttamente esaminando le “questioni disputate in uno spirito di apertura e in tutta buona fede”, poiché è del buon padre di famiglia sforzarsi per trasmettere la giusta educazione, evitando di aprirsi alle istanze disordinate dei figli, sforzarsi cioè di trasmettere la verità, evitando di aprirsi all’errore. Ancora una volta non è l’incontro, intellettualistico e modernista, tra verità ed errore, tra ordine e disordine, tra sana dottrina e cose nuove, che porta all’unità, ma al contrario, è il tenere sempre ferma l’istanza dell’unità nella verità, che permette ai figli di correggersi, all’errore di arretrare, agli equivoci di essere risolti e al Vaticano II di essere depurato dalle nuove concezioni che hanno inquinato e perfino stravolto la sana dottrina.
Parimenti, il “tono che divide” e le “considerazioni imprudenti”, che offenderebbero “la pace e la reciproca comprensione”, non possono trasformarsi in tono che unisce e in considerazioni prudenti solo sulla base della preoccupazione dell’unità fine a se stessa, poiché questo significherebbe subordinare il parlare “sì sì, no, no” al mero sentimento dell’interlocutore, che, per amore dell’unità sarebbe meglio non turbare, neanche per ricordargli che errare humanum est, perseverare autem diabolicum, et tertia non datur.
Allo stesso modo, non si può esercitare la virtù della pazienza, accettando, “se necessario, la sofferenza dell’attesa”; se prima non si è fatta chiarezza e non si è trovata la concordia sul senso del “bene prezioso che perseguiamo”, l’unità, non si potrà parlare di “sofferenza dell’attesa”, ma di presunzione di una vana attesa.
Ugualmente, il “bisogno di correggere i nostri fratelli”, che non deve mai essere un bisogno personale, ma un dovere di misericordia cristiana, può esercitarsi solo in nome della verità e quindi, come dice San Paolo (2 Timoteo, 4, 1-5), «in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.»
E Lei, Eccellenza, mi deve dare atto che l’attuale crisi nella Chiesa rivela, con molteplici segni, che questi tempi di cui parla l’Apostolo sono proprio i nostri, così che non sarebbe saggio che la correzione dei fratelli avvenisse solo “nel momento e nel luogo opportuni”, come da Lei suggerito.
Io, Eccellenza, convengo con Lei e con Sant’Agostino che tutto questo va perseguito con l’amore: amando “anche i vostri nemici, non perché sono vostri fratelli, ma perché possano diventarlo, in modo da poter essere sempre infuocati dall’amore fraterno, sia per colui che è divenuto vostro fratello, che per il vostro nemico, in modo che amandolo, egli possa divenire vostro fratello”. Ma Lei converrà con me che l’amore umano, a imitazione dell’amore divino, comporta sempre e la misericordia e il rigore, così che si ama veramente se si segue l’esortazione di San Paolo a Timoteo e si esercita la necessaria correzione fraterna insegnata da Nostro Signore stesso in Matteo 18, 15-17.
E la stessa cosa dice San Tommaso, ribadendo la sacrosanta necessità di combattere l’errore.
All’inizio della Summa contra Gentiles, partendo da Proverbi, 8, 7 (Veritatem meditabitur guttur meum, et labia mea detestabuntur impium - la mia bocca mediterà la verità, e le mie labbra detesteranno l’empio), San Tommaso spiega il compito del saggio e conclude dicendo:
«Inoltre, appartiene allo stesso soggetto l’attenersi ad uno degli opposti e il confutare l’altro: la medicina, che è l’arte di ristabilire la salute, è anche l’arte di combattere la malattia. Parimenti, quindi, il compito del saggio, che è di meditare la verità, a partire soprattutto dal principio primo, e di disquisire degli altri, comprende anche il combattere l’errore contrario. Questo duplice compito del saggio è perfettamente esposto dalla Saggezza nelle parole che abbiamo citato prima: dire la verità divina, che è la verità per antonomasia, e dirla dopo averla meditata, che è il senso del versetto: la mia bocca mediterà la verità; e combattere l’errore che si oppone alla verità, che è il senso dell’altro versetto: e le mie labbra detesteranno l’empio. Questo secondo versetto indica l’errore che si oppone alla verità divina, che è contrario alla religione, la quale riceve anche il nome di pietà, così che si spiega che l’errore contrario riceva quello di empietà.»
Per ultimo, Eccellenza, mi sembra doveroso precisare che la Fraternità San Pio X potrebbe benissimo scegliere di limitare la sua attività alla formazione dei sacerdoti e di astenersi dal “giudicare e correggere la teologia o la disciplina altrui nella Chiesa”, come da Lei suggerito, ma nel far questo essa non tornerebbe “al carisma un tempo affidato a Monsignor Lefebvre”, né si atterrebbe al suo “carisma autentico”, poiché è più che risaputo, e Lei dovrebbe saperlo meglio di altri, vista la sua età, che il carisma di Mons. Lefebvre era costituito dalla preservazione della sana dottrina e della pratica della vera fede, da cui discende, come discese, inevitabilmente, la formazione di veri sacerdoti cattolici. Tale carisma lo si colse in tutto il suo vigore fin dal tempo dello svolgimento del concilio Vaticano II, e quindi ben prima che egli sentisse la necessità di istituire un seminario e di fondare la Fraternità San Pio X.
Il carisma autentico della Fraternità, quindi, consiste sia nel preservare la sana dottrina con tutti i mezzi possibili, in primis con la formazione di veri sacerdoti cattolici, sia nel combattere l’errore; e come dice San Tommaso: nel meditare e dire la verità, nel praticare la pietà, e insieme nel combattere l’errore, nel maledire l’empietà.
Se la Fraternità seguisse il suo suggerimento, non aderirebbe al suo “carisma autentico”, ma lo tradirebbe, come tradirebbe il carisma di Mons. Lefebvre, che preferì subire l’onta di una ingiusta scomunica, piuttosto che venir meno al suo dovere di rendere testimonianza alla Verità.
Col presentare la questione come fa, Lei confessa tre suoi convincimenti nient’affatto cattolici.
Il primo, che consiste nel considerare la Fraternità come una sorta di grande seminario, prescindendo dal suo dovere pastorale nei confronti di un numero enorme di fedeli cattolici, tale che essa potrebbe ottenere la regolarizzazione canonica, che era già sua e di cui è stata privata illegittimamente, solo a questa condizione.
La seconda, che consiste nel considerare i sacerdoti della Fraternità dei meri dispensatori di sacramenti, impediti dall’esercitare il munus docendi che discende dalla loro ordinazione, tale che essi, insieme ai loro vescovi, dovrebbero astenersi dall’aprire bocca sulle cause che hanno prodotto la crisi tremenda che da cinquant’anni affligge la Chiesa, nonché su questa stessa crisi, come se essa non esistesse.
La terza, che consiste nel considerare i fedeli cattolici che beneficiano dell’opera pastorale dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità, come persone incapaci di intendere e quindi suscettibili di essere plagiati dall’aspro polemizzare dei sacerdoti della Fraternità. Uomini e donne limitati che farebbero bene ad abbandonare la Fraternità e a rifugiarsi nelle rispettive parrocchie, dove, al contrario di come si fa nelle cappelle della Fraternità, non si insegnano cose difficili e complicate come il fatto che Gesù Cristo è il Re dell’universo e che ogni cosa, celeste e terrena, deve sottostare al suo imperio e alle sue leggi; e che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Filippesi 2, 10-11).
Eccellenza, se Lei fosse un vescovo della Fraternità, sarebbe felice di accettare questa impostazione in nome dell’unità, e sarebbe riconoscente per la munificenza del Papa e della Gerarchia che Le permetterebbero di essere vescovo solo per finta?
Ci pensi, Eccellenza, e non risponda a me, che sono nessuno, ma a Lei stesso e alla sua coscienza di cattolico.
Con i sensi della mia deferenza, in Cristo e Maria.
Giovanni Servodio
dopo aver letto la lettera da Lei caritatevolmente inviata ai sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X, mi è sembrato doveroso indirizzarLe queste righe in nome di quell’amore per l’unità della Chiesa da Lei richiamato.
Preciso subito che sono un semplice fedele, che dalla Fraternità ha appreso ad amare e a servire la Chiesa, nel pieno rispetto dei superiori, della Gerarchia e del Santo Padre, in conformità col proprio dovere di stato e nel rigoroso rispetto degli insegnamenti di Nostro Signore fedelmente trasmessi nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli.
In questa ottica, sento il dovere di precisare che, come Lei stesso accenna nella sua lettera, io rientro tra coloro che “non sono competenti in teologia”, ma non per questo non in grado di comprendere ciò che assilla pesantemente la Chiesa a partire dal concilio Vaticano II, poiché, come riporta San Luca (10, 21), il Padre ha nascosto «queste cose ai dotti e ai sapienti» e le ha rivelate ai piccoli, così che per comprendere il grave stato di crisi che affligge la Chiesa e le cause di essa, non serve un dottorato in teologia, né occorre aspettare a bocca aperta la predicazione supposta “aspra e controproducente” dei sacerdoti della Fraternità, che alimenterebbe la “controversia pubblica”, ma basta l’assistenza di Dio stesso e la soverchiante evidenza dei fatti, delle prediche e delle pratiche attuate dai Pastori in questi ultimi cinquant’anni.
Non posso dubitare del fatto che Lei, proprio in forza della sua preparazione e del carisma che Le viene dalla sua ordinazione, comprenderà benissimo il mio stato d’animo, la mia sincera volontà di chiarezza e la mia buona disposizione a rispettare “il genere proprio dei diversi tipi di istanza”; come non posso dubitare che Lei accoglierà caritatevolmente, “in spirito di apertura e in tutta buona fede”, qualche intemperanza che può essere presente in queste righe e qualche mancanza di precisione teologica, nonché la stessa forma di “lettera aperta” con la quale ho inteso presentarLe queste mie riflessioni; forma dettata più dall’importanza quasi universale della materia trattata e meno dalla pretesa di confrontarmi con Lei e parimenti meno di avanzare degli appunti alla sua persona e alla sua preparazione.
La sua lettera è incentrata sull’istanza dell’unità della Chiesa, e il suo richiamo allo spirito dell’ut unum sint, posto quasi alla fine di essa, di fatto la impernia tutta. È quindi indispensabile chiarire il senso di questa espressione, che fa parte della grande preghiera di Nostro Signore Gesù Cristo, riportata da San Giovanni al cap. 17, quasi ad introduzione del racconto della Sua Passione.
A tal fine, non sembri eccessiva la citazione dell’intero passo, versetti 20-23, che Lei sicuramente conosce a memoria: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola (Ut sunt unum, sicut et nos unum sumus). Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.»
Questo passo, che va letto nel contesto dell’intera preghiera di Nostro Signore, è sì un richiamo imperativo, per noi, all’unità, ma non all’unità per se stessa, come fosse un valore imprescindibile di per sé, bensì all’unità nel Figlio e nel Padre, all’unità nella Verità. Poiché non può darsi vera unità se non nella Verità. Senza questa precisazione e questo indispensabile presupposto, ogni unità della Chiesa rischia di trasformarsi in mera sommatoria. D’altronde, anche sulla base del semplice buon senso, non può darsi unità dal basso, sommando i fattori più diversi, ma si dà unità solo dall’alto, così che ogni fattore è ad un tempo emanazione dell’unità e componente di questa stessa unità, che è propriamente unica, sia per definizione sia per valenza intrinseca.
Per dirla in altre parole, l’unità di cui parla Nostro Signore, non è un’unità quantitativa, ma un’unità qualitativa, tale che senza il fondamento della Verità non è possibile costituire un “unum”, una cosa sola, ma si realizzerà solamente un “totum”, un insieme di cose, dove gli elementi differenziati potranno produrre solo ulteriore differenziazione e, in ultima analisi, divisione e caos.
Seguendo questo filo logico, è inevitabile considerare che prima ancora di parlare di unità si dovrebbe parlare di verifica della valenza qualitativa delle diverse posizioni che si vogliono condurre a questa unità. Così che il problema principale torna ad essere quello del “disaccordo in ordine al Concilio Vaticano II”, i cui termini, come dice Lei stesso, “restano, di fatto, immutati”, anche perché “i tre anni di colloqui dottrinali appena conclusi, non hanno cambiato sostanzialmente la situazione”.
Ora, se dopo quarant’anni di approfondimenti, di rapporti diretti e indiretti, di tentativi di conciliazione dei disaccordi, la situazione è sostanzialmente immutata, è evidente che non è con il richiamo all’unità che si potranno risolvere i contrasti, ma con un lavoro di totale revisione di quanto il Magistero ha proposto a credere a partire dal Vaticano II, perché è da lì che è scaturito l’oggetto del contendere. Se oggi, “in queste circostanze … nei nostri scambi dev’essere introdotto un elemento nuovo”, questo elemento è proprio la revisione delle “cose nuove” insegnate dal Vaticano II e dal successivo Magistero. Revisione che non può ridursi alla semplice “interpretazione” dei testi del Concilio, più o meno suscettibile di essere condotta “alla luce della Tradizione e del Magistero”, ma deve attuarsi con il vaglio dei documenti conciliari e magisteriali successivi, perché siano epurati di tutto ciò che non corrisponde all’insegnamento irreformabile dei Papi e della Tradizione.
Non v’è dubbio che, a questo punto, ci si possa trovare al cospetto della possibile messa in causa dell’autorità magisteriale della Santa Sede, ma allora, se si tiene ferma tale autorità, con tutto quello che in questi quarant’anni è riconducibile ad essa, ne scaturisce che è dalla parte della Fraternità che starebbe l’errore, così che si continua a non comprendere il reale fondamento della sua lettera.
In essa, infatti, Lei non mette a fuoco tale errore, ma si limita ad esortare all’unità, mentre invece è dovere della Gerarchia indicare l’errore e condannarlo, invitare a correggerlo e, in caso di pertinacia, sanzionare l’errante.
Tenuto conto della determinazione di Papa Giovanni XXIII, secondo il quale “la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore(Discorso di apertura del Concilio, dell’11 ottobre 1962)”, quantomeno la Gerarchia dovrebbe lasciare a se stessa la Fraternità, insieme a tutti coloro che, come me, ne condividono il carisma fondatore e le istanze dottrinali.
Se questo non si fa e si continua a richiamare la necessità e il dovere dell’unità, è mio modesto parere che la Gerarchia non renda un buon servizio né alla Fraternità, né alla Chiesa.
D’altronde, quando Lei dice che: “Papa Benedetto XVI è estremamente desideroso di superare le tensioni che sono esistite fra la Chiesa e la vostra Fraternità” e ipotizza che, seppure con una certa difficoltà, “Una riconciliazione ecclesiale immediata e totale metterà fine ai sospetti e alla diffidenza sorte da una parte e dall’altra”, è chiaro che esprime un anelito suo e del Papa ad una unità, non di tipo qualitativo, ma di tipo quantitativo. Esprime un’istanza fondata su una logica che si differenzia parecchio dal “ricondurre all’unità”, limitandosi al semplice assemblaggio. Una logica che, indubbiamente, è in linea con tutto l’andamento conciliare e post-conciliare, ma che si rivela essere una logica umana, in forte contrasto con lo spirito dell’ut unum sint, che scaturisce invece da una logica divina, se così si può dire.
Una logica, questa sua e del Papa, che sarà pure elaborata avendo in mente, come Lei dice: “la riconciliazione e la guarigione per mezzo della grazia di Dio, sotto la guida amorevole dello Spirito Santo”, ma che ricerca questa grazia e questa guida con presupposti meramente umani e con valenze semplicemente quantitative.
A riprova di ciò, se non bastassero la predicazione e la pratica ecumeniche moderne, si pensi alla formale istituzione dei già realizzati “ordinariati anglicani” e dei realizzandi “ordinariati luterani”, con i quali si diventa cattolici per decreto, pur conservando, di fatto e di diritto, la propria specifica acattolicità.
In questo modo non si rende giustizia all’ut unum sint, ma alla concezione meramente umana dell’assembramento sentimentale, dove tutti si sentono tanto più esteriormente uniti per quanto più sono interiormente divisi.
Lei comprende bene, Eccellenza, che la Fraternità potrebbe pure arrivare a condividere questa logica, ma certo non in forza dell’unità nella verità, ma solo in risposta ad un bisogno sentimentale di sentirsi “insieme”; cosa che a tutt’oggi la Fraternità non sembra disposta a fare, perché i suoi sacerdoti e i suoi fedeli hanno imparato dalla Santa Madre Chiesa che ciò che conta innanzi tutto è Dio e le sue leggi, anche a costo di contrariare gli uomini di Chiesa che oggi sono convinti che ciò che più conta è l’essere uniti nonostante tutto.
È per questo, Eccellenza, che i sacerdoti della Fraternità non possono e non devono impedirsi di fare di “queste questioni teologiche… il centro della [loro] predicazione e della [loro] formazione”, perché se non lo facessero verrebbero meno al loro dovere di pastori, sia nei confronti di loro stessi, sia nei confronti dei fedeli che si pongono domande e che chiedono risposte veritiere.
Ed è anche per questo, Eccellenza, che i sacerdoti e i fedeli della Fraternità non possono limitarsi a “proporre e a cercare d’influire”, né possono “rispettare il genere proprio dei diversi tipi di istanza”, poiché, come dice Lei stesso, è la fede che bisogna predicare dai pulpiti e praticare nelle case, e la fede si predica e si pratica solo rispettando l’unica istanza della fede stessa e rigettando necessariamente i diversi tipi di istanza che contrastino con essa; la quale comprende di per sé: l’amore per il prossimo, l’istruzione degli ignoranti e l’ammonimento dei peccatori, condotte tutte secondo il comando di Nostro Signore «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo, 5, 37).
D’altronde, è indubbio che in questi ultimi quarant’anni la Fraternità non ha fatto altro che “proporre” e “cercare di influire”, con le parole e con le opere, ma questo non è servito a niente, al punto che la “situazione non è sostanzialmente cambiata”.
E Lei mi insegna, Eccellenza, che: «Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano» (Matteo, 18, 15-17). Cosa che capovolge totalmente il suo ammonimento a “non mancare di rispetto nei confronti delle legittime autorità locali o agire contro di esse”, poiché, fatta l’ammonizione, constatata la sordità, invocati a più riprese i testimoni, reso tutto noto all’assemblea, constatato il perdurare nell’errore, non resta altro che considerare e trattare questi fratelli come dei pagani.
Vero è che il buon cattolico deve praticare “le virtù di umiltà, di dolcezza, di pazienza e di carità” al fine di modellare i propri pensieri e le proprie azioni, ma appare improbabile che possa farlo correttamente esaminando le “questioni disputate in uno spirito di apertura e in tutta buona fede”, poiché è del buon padre di famiglia sforzarsi per trasmettere la giusta educazione, evitando di aprirsi alle istanze disordinate dei figli, sforzarsi cioè di trasmettere la verità, evitando di aprirsi all’errore. Ancora una volta non è l’incontro, intellettualistico e modernista, tra verità ed errore, tra ordine e disordine, tra sana dottrina e cose nuove, che porta all’unità, ma al contrario, è il tenere sempre ferma l’istanza dell’unità nella verità, che permette ai figli di correggersi, all’errore di arretrare, agli equivoci di essere risolti e al Vaticano II di essere depurato dalle nuove concezioni che hanno inquinato e perfino stravolto la sana dottrina.
Parimenti, il “tono che divide” e le “considerazioni imprudenti”, che offenderebbero “la pace e la reciproca comprensione”, non possono trasformarsi in tono che unisce e in considerazioni prudenti solo sulla base della preoccupazione dell’unità fine a se stessa, poiché questo significherebbe subordinare il parlare “sì sì, no, no” al mero sentimento dell’interlocutore, che, per amore dell’unità sarebbe meglio non turbare, neanche per ricordargli che errare humanum est, perseverare autem diabolicum, et tertia non datur.
Allo stesso modo, non si può esercitare la virtù della pazienza, accettando, “se necessario, la sofferenza dell’attesa”; se prima non si è fatta chiarezza e non si è trovata la concordia sul senso del “bene prezioso che perseguiamo”, l’unità, non si potrà parlare di “sofferenza dell’attesa”, ma di presunzione di una vana attesa.
Ugualmente, il “bisogno di correggere i nostri fratelli”, che non deve mai essere un bisogno personale, ma un dovere di misericordia cristiana, può esercitarsi solo in nome della verità e quindi, come dice San Paolo (2 Timoteo, 4, 1-5), «in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.»
E Lei, Eccellenza, mi deve dare atto che l’attuale crisi nella Chiesa rivela, con molteplici segni, che questi tempi di cui parla l’Apostolo sono proprio i nostri, così che non sarebbe saggio che la correzione dei fratelli avvenisse solo “nel momento e nel luogo opportuni”, come da Lei suggerito.
Io, Eccellenza, convengo con Lei e con Sant’Agostino che tutto questo va perseguito con l’amore: amando “anche i vostri nemici, non perché sono vostri fratelli, ma perché possano diventarlo, in modo da poter essere sempre infuocati dall’amore fraterno, sia per colui che è divenuto vostro fratello, che per il vostro nemico, in modo che amandolo, egli possa divenire vostro fratello”. Ma Lei converrà con me che l’amore umano, a imitazione dell’amore divino, comporta sempre e la misericordia e il rigore, così che si ama veramente se si segue l’esortazione di San Paolo a Timoteo e si esercita la necessaria correzione fraterna insegnata da Nostro Signore stesso in Matteo 18, 15-17.
E la stessa cosa dice San Tommaso, ribadendo la sacrosanta necessità di combattere l’errore.
All’inizio della Summa contra Gentiles, partendo da Proverbi, 8, 7 (Veritatem meditabitur guttur meum, et labia mea detestabuntur impium - la mia bocca mediterà la verità, e le mie labbra detesteranno l’empio), San Tommaso spiega il compito del saggio e conclude dicendo:
«Inoltre, appartiene allo stesso soggetto l’attenersi ad uno degli opposti e il confutare l’altro: la medicina, che è l’arte di ristabilire la salute, è anche l’arte di combattere la malattia. Parimenti, quindi, il compito del saggio, che è di meditare la verità, a partire soprattutto dal principio primo, e di disquisire degli altri, comprende anche il combattere l’errore contrario. Questo duplice compito del saggio è perfettamente esposto dalla Saggezza nelle parole che abbiamo citato prima: dire la verità divina, che è la verità per antonomasia, e dirla dopo averla meditata, che è il senso del versetto: la mia bocca mediterà la verità; e combattere l’errore che si oppone alla verità, che è il senso dell’altro versetto: e le mie labbra detesteranno l’empio. Questo secondo versetto indica l’errore che si oppone alla verità divina, che è contrario alla religione, la quale riceve anche il nome di pietà, così che si spiega che l’errore contrario riceva quello di empietà.»
Per ultimo, Eccellenza, mi sembra doveroso precisare che la Fraternità San Pio X potrebbe benissimo scegliere di limitare la sua attività alla formazione dei sacerdoti e di astenersi dal “giudicare e correggere la teologia o la disciplina altrui nella Chiesa”, come da Lei suggerito, ma nel far questo essa non tornerebbe “al carisma un tempo affidato a Monsignor Lefebvre”, né si atterrebbe al suo “carisma autentico”, poiché è più che risaputo, e Lei dovrebbe saperlo meglio di altri, vista la sua età, che il carisma di Mons. Lefebvre era costituito dalla preservazione della sana dottrina e della pratica della vera fede, da cui discende, come discese, inevitabilmente, la formazione di veri sacerdoti cattolici. Tale carisma lo si colse in tutto il suo vigore fin dal tempo dello svolgimento del concilio Vaticano II, e quindi ben prima che egli sentisse la necessità di istituire un seminario e di fondare la Fraternità San Pio X.
Il carisma autentico della Fraternità, quindi, consiste sia nel preservare la sana dottrina con tutti i mezzi possibili, in primis con la formazione di veri sacerdoti cattolici, sia nel combattere l’errore; e come dice San Tommaso: nel meditare e dire la verità, nel praticare la pietà, e insieme nel combattere l’errore, nel maledire l’empietà.
Se la Fraternità seguisse il suo suggerimento, non aderirebbe al suo “carisma autentico”, ma lo tradirebbe, come tradirebbe il carisma di Mons. Lefebvre, che preferì subire l’onta di una ingiusta scomunica, piuttosto che venir meno al suo dovere di rendere testimonianza alla Verità.
Col presentare la questione come fa, Lei confessa tre suoi convincimenti nient’affatto cattolici.
Il primo, che consiste nel considerare la Fraternità come una sorta di grande seminario, prescindendo dal suo dovere pastorale nei confronti di un numero enorme di fedeli cattolici, tale che essa potrebbe ottenere la regolarizzazione canonica, che era già sua e di cui è stata privata illegittimamente, solo a questa condizione.
La seconda, che consiste nel considerare i sacerdoti della Fraternità dei meri dispensatori di sacramenti, impediti dall’esercitare il munus docendi che discende dalla loro ordinazione, tale che essi, insieme ai loro vescovi, dovrebbero astenersi dall’aprire bocca sulle cause che hanno prodotto la crisi tremenda che da cinquant’anni affligge la Chiesa, nonché su questa stessa crisi, come se essa non esistesse.
La terza, che consiste nel considerare i fedeli cattolici che beneficiano dell’opera pastorale dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità, come persone incapaci di intendere e quindi suscettibili di essere plagiati dall’aspro polemizzare dei sacerdoti della Fraternità. Uomini e donne limitati che farebbero bene ad abbandonare la Fraternità e a rifugiarsi nelle rispettive parrocchie, dove, al contrario di come si fa nelle cappelle della Fraternità, non si insegnano cose difficili e complicate come il fatto che Gesù Cristo è il Re dell’universo e che ogni cosa, celeste e terrena, deve sottostare al suo imperio e alle sue leggi; e che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Filippesi 2, 10-11).
Eccellenza, se Lei fosse un vescovo della Fraternità, sarebbe felice di accettare questa impostazione in nome dell’unità, e sarebbe riconoscente per la munificenza del Papa e della Gerarchia che Le permetterebbero di essere vescovo solo per finta?
Ci pensi, Eccellenza, e non risponda a me, che sono nessuno, ma a Lei stesso e alla sua coscienza di cattolico.
Con i sensi della mia deferenza, in Cristo e Maria.
Giovanni Servodio
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