I giudizi critici di Roberto de Mattei e più ancora di Enrico Maria Radaelli sulla rinuncia di Benedetto XVI al papato hanno provocato comprensibili reazioni nel campo che può essere definito “conciliare”.
Ecco qui di seguito che cosa ha scritto il professor Gianluca De Candia, che insegna filosofia e teologia presso la Facoltà teologica pugliese. Nella forma di una lettera aperta a colui che sarà eletto come nuovo papa.
LETTERA AL PROSSIMO PONTEFICE
Santità,
la sede di Pietro fra poco resterà vacante. Nell’interstizio fra le dimissioni di Benedetto XVI e la Sua elezione, un po’ tutti, atei e credenti, ci troviamo ad immaginare in anticipo la novità del Suo pontificato.
Non sappiamo ancora con quale nome potremo rivolgerci a Lei: Pio XIII, Giovanni XXIV, Paolo VII, Giovanni Paolo III, Benedetto XVII? Fuor di retorica, sappiamo bene che dietro ognuno di questi nomi è nascosto un intero stile, un modo di proporre la fede, di affrontare il difficile rapporto della Chiesa con la cultura contemporanea.
Una cosa è certa: la rinuncia dell’ufficio pastorale da parte del Suo predecessore ha chiuso una stagione. Essa è stata un atto di implicita modernizzazione, che relativizza la persona del papa, ed in ciò, rappresenta forse l’ultimo grande atto del Concilio Vaticano II. D’ora in poi la “persona” del romano Pontefice – che finora era nascosta dietro l’alone inossidabile della sua autorità sacrale –, potrà riemergere in modo più realistico, umile. Con “persona” si guarda ora all’uomo Joseph Ratzinger (che come ognuno di noi è fragile, fallibile, invecchia), mentre con “autorità” ci si riferisce alla sua potestà di giurisdizione e al significato infallibile del suo magistero ex cathedra. Nessuno oserà più rivolgersi a Ratzinger chiamandolo: “Santità” – né lui desidererà più questo appellativo.
Così Lei, Santo Padre, nonostante alcuni l’abbiano fregiata “ante praevisa merita” del titolo di “antipapa” (vedi Roberto de Mattei e soprattutto Enrico Maria Radaelli), in realtà potrà salire al soglio petrino con una coscienza un po’ meno infelice, consapevole che i diritti della sua “persona” saranno rispettati e forse accolti meglio di come, in questi giorni, si commenta la rinuncia di Benedetto XVI.
Con le dimissioni del Suo predecessore Le è lasciata infatti una grande eredità e insieme, forse, un testamento.
La decisione di papa Benedetto ha tutti i segni della profezia, e come ogni profezia potrebbe avere conseguenze che andranno ben oltre le intenzioni di chi l’ha posta in essere (come fu per Giovanni XXII, che indicendo il Concilio spinse in mare aperto la Chiesa cattolica, senza poter calcolare né la rotta né l’approdo).
È una profezia che realizza ulteriormente quel Concilio, assumendo la “storia concreta” come la vera ermeneutica della fede. La storia: con i suoi bisogni, con la sua precarietà, fallibilità, con l’eterogenesi dei fini può diventare il vaso del passaggio di una possibile rivelazione di Dio.
C’è chi si spaventa di fronte al gesto così genuinamente umano del Suo predecessore, ma quando l’umano emerge in modo così umile, non c’è da temere per l’integrità della fede.
Ci aspettiamo da Lei, Santità, che sappia raccogliere questa sfida indicandoci vie percorribili, strade di realismo cristiano, che non fuggano la contemporaneità ma se ne facciano carico. Non sembra forse anche a Lei che questo resta l’unico modo che ci è ancora dato per incarnare almeno un po’ il Vangelo?
In attesa di conoscerLa,
Gianluca De Candia
Bari, 21 febbraio 2013
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Anche il professor Pietro De Marco ha sviluppato nuove riflessioni, come contraccolpo alle posizioni dei tradizionalisti.
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RINUNCIA E PERMANENZA, DUE OPZIONI LEGITTIME
di Pietro De Marco
Vi sono almeno tre vertici del problema: il carisma dell’ufficio papale, il “bonum ecclesiae”, la coscienza personale del papa. È evidente che l’ottimo risiede nell’armonia fra i tre vertici. Ma quando emergono disarmonie, il calcolo dei “bona” diventa complicato.
Nella prospettiva carismatica non è certamente un “bonum” che un papa rinunci per una ragione estrinsecamente posta, come l’efficienza fisica, poiché il carisma è da Dio e l’uomo non può toglierlo all’uomo; e vulnerare l’ufficio carismatico petrino sarebbe un “vulnus” alla Chiesa. Da ciò l’allarme dei tradizionalisti. Solo la potestà sovrana del pontefice, che implica anche un giudizio in Cristo, assistito dallo Spirito, decide del bilanciamento tra il “bonum ecclesiae” e la personale permanenza o rinuncia. Nella rinuncia sembra che il “bonum ecclesiae” comporti un danno all’ufficio carismatico, un indebolimento, una “umanizzazione” del “munus” papale, come molti sperano o temono. Dalla permanenza del papa gravemente disabile un danno opposto: una protezione del “munus” ierocratico a svantaggio della continuità di governo della chiesa. In ambedue i casi un rischio.
Per me le due opzioni sono – secondo la tradizione – legittime, anche se non è casuale che la rinuncia sia stata rarissima. Ma lo sono sotto vincoli, come per ogni diritto sacro. I vincoli, nel caso della rinuncia, risiedono nella salvaguardia dell’ufficio petrino dalle conseguenze dell’atto di rinuncia, che scompone la mirabile unità di ordine e giurisdizione nella persona del papa. Il futuro pontefice ne terrà conto, confermando l’intatta natura carismatica dell’ufficio petrino anche nella “tradizionale” rinuncia fatta da Benedetto XVI. Ciò che la rinuncia di papa Benedetto rappresenta per la Chiesa è solo nelle mani della Chiesa stessa.
Firenze, 21 febbraio 2013
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