“Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini” (Joseph Ratzinger, ancora Benedetto XVI)
Il farsi ombra di un Papa – non è cosa di tutti i giorni né di tutti i secoli né (a ben guardare: fu, il precedente celestiniano, più un ridurre nell’ombra che un farsi ombra) cosa di ogni millennio. Non c’è nome per definire l’evento, non c’è titolo per colui che lo compie, non c’è luogo (logico) dove possa stare.
Confuso con il carisma, il carisma inevitabilmente si tirerà dietro – come una luce, che forse illumina e da adesso forse acceca; sembra una condanna, un peso insieme imponderabile e irrinunciabile. Così, l’uomo che fu il Vicario ascolterà dunque l’uomo che è diventato Vicario – magari sentirà una parte di quel peso ricadere sulle sue spalle: impastare creta imperfetta (più simile al fango, che vide salire attorno ai suoi piedi e lambire la veste bianca) con la Parola di Dio. E sarà certo in silenzio e “nascosto per il mondo” – se il Papa parla, non un ex Papa può prendere la parola; se il Papa si mostra, non può l’ombra del suo predecessore neanche lambire il mantello – eppure inevitabilmente il suo sarà un silenzio carico di pensieri e un’assenza piena di visioni: perché a nessun altro è stato dato fino a ora un simile privilegio e inflitta una simile condizione. Suggestiva condizione, ma soprattutto tremenda condizione. Chi fu “umile lavoratore nella vigna del Signore”, e poi la gloria suprema toccò, in uno sfolgorare di sapienza e porpora e bianco, adesso dall’orto delle ospitali suorine di clausura – magari una semplice tonaca nera, ché non sanno bene neppure come vestirlo, e con una tonaca nera un uomo di Dio non sbaglia mai, pur se di Cristo fu Vicario – volgerà lo sguardo e tenderà l’orecchio, ma sguardo cieco e orecchio sordo: esattamente come nel chiaroscuro di un confessionale dove pensieri e segreti e voci non hanno destinazione terrena. Sarà assenza, sarà lo stesso presenza – perchè il farsi ombra è anche e sempre un farsi doppio. E ogni cosa dentro la fine, carica di stupori, di una millenaria mitologia.Il farsi ombra di un Papa – non è cosa di tutti i giorni né di tutti i secoli né (a ben guardare: fu, il precedente celestiniano, più un ridurre nell’ombra che un farsi ombra) cosa di ogni millennio. Non c’è nome per definire l’evento, non c’è titolo per colui che lo compie, non c’è luogo (logico) dove possa stare.
A ogni morte di Papa, si diceva. A ragione, questo si diceva – il Papa muore, un altro Papa si fa; il Papa è morto, viva il Papa! Come pietre di una collana, meglio, grani di un rosario: uno dopo l’altro, ordinatamente (a parte quel curioso intoppo di settecento anni fa, “Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis…”, che tanto pare assomigliare a ciò che adesso fa salire il cielo in Vaticano, ma che a esso non somiglia affatto), appunto a tener conto della pazienza di Dio e a frenare quella dell’uomo. E’ stato il Grande Teologo, il custode supremo e affaticato dell’ortodossia, a farsi Grande Eversore, a far saltare il rito, ancora inespugnabile, eppure stanco. Nessun uomo al mondo, che abbia pensato di farsi ombra, era mai stato così al centro della luce – dei riflettori mediatici, della Parola di cui era custode. L’elicottero (curiosa ascensione, questa) che il 28 di febbraio si alzerà sulla cupola di San Pietro, dentro il tramonto del suo ultimo giorno da Vicario, per portarlo via per sempre, andrà a deporlo, prima che a Castel Gandolfo, dentro l’ombra che lo aspetta e che ha cercato: la pietra di Pietro che pare cedere, così invece da resistere alle porte degli inferi terreni che parevano avanzare. Ma il suo farsi ombra dentro l’ombra – sarà sempre anche un po’ ombra sul suo successore. Né Ratzinger vorrebbe, ciò è sicuro, ma lo stesso sa che così inevitabilmente sarà. Dalla letteraria “Roma senza Papa” immaginata di Guido Morselli, con il Vicario trasferito nel grottesco accasamento di Zagarolo, da ultimo tango a ultimo Pontefice, alla realtà di una Roma con due Papi – ché un ex Papa non ha rito e non ha codificazione, né luogo né nome, e il pigolare sconfortato dei canonisti in questi giorni che preparano il più clamoroso abbandono di tutta la storia ne è riprova. (Occorre pur dire che nel romanzo di Morselli, oltre la fantasiosa Zagarolo, una quasi azzeccata previsione c’è: “Finendo di essere una corte per ridursi a una burocrazia, la S. Sede ha perso in splendore senza guadagnare in precisione” – una noia e un andamento da piccola succursale impiegatizia, tra piante da salotto e mobilia ministeriale, divorata dalla voracità dei capiufficio imporporati, come “er cardinale de pasto” di certi sonetti del Belli: “il volto deturpato”, la Parola incrinata che lo sguardo fa voltare – con cristiano spavento).
E’ dunque l’ombra il destino di Joseph non più Benedetto, né più Papa, nè più cardinale, o cardinale sì, chissà se ne verranno a capo: la consuetudine frana di fronte all’inaudito. Ma vescovo ancora, e quello per sempre si rimane – vescovo come quei vescovi anziani, emeriti (emerito è la parola che precede l’assenza: nella chiesa, nella politica), che languono e pregano in qualche ospitale casa del clero, tra monache attente e confratelli vigili. La sottrazione che di se stesso ha fatto Ratzinger è sottrazione totale, massima – formidabile: come le sue lezioni teologiche, come la sua elezione papale – così che il mondo ha riempito di tanto stupore che nessun altro prima di lui aveva provocato. Non sarà facile, per il suo successore, convivere con quell’ombra. Ora le voci dei giornali dicono che la curia preferirebbe che lui non si facesse ombra dentro quel piccolo monastero di monache di clausura, sperso dentro i giardini vaticani, così che l’inedito e inevitabile allinearsi di Pietro che fu e di Pietro che è non diventi pure inevitabile allinearsi di pensieri, fusi orari, spazi visivi. Sotto uno stesso cielo, dentro una stessa fede – non (troppo) dentro lo stesso perimetro. Perciò di Papa ce n’è uno solo, ma un ex Papa è cosa che nessuno aveva previsto (e anche qui, il lamento dei canonisti giunge rasposo lassù) – e nessuno dovrebbe, a logica, pensarlo, ma tutti lo penseranno: a Roma, adesso, ci sono due Papi. E uno contiene l’altro – e se ciò che è fuggito (si è elevato) nell’ombra ha da racchiudere anche chi nella luce che fu sua ora si trova, o se la luce di chi ha sostituito l’ombra può la stessa ombra includere. Benedetto XVI – che ha passato i decenni da prefetto del Sant’Uffizio e i pochi anni da Pontefice a combattere il relativismo che vedeva montare e farsi padrone del mondo – ha infine relativizzato se stesso, perché il fumo del relativismo, la boria di un clericalismo fastidioso e burocratico, a volte rapace e spesso un po’ pavido, “quanta sporcizia nella chiesa” disse il cardinale Ratzinger, era penentrato nei Sacri Palazzi: forse l’ultima scia che preannunciava la presa definitiva di possesso di quello demoniaco che Papa Paolo aveva a sua volta intravisto. Il corpo di Joseph non era fatto per la luce, ché corpo Joseph quasi non ha, e dentro la luce del suo “venerabile predecessore” – il polacco di grande muscolatura, di lesto passo, di braccia spalancate – pareva sperdersi, con le mani timidamente allungate, il sorriso timidamente distribuito, il passo timidamente tenuto. E’ un corpo per l’ombra, quello del grande teologo, che tutto fece per non essere eletto – così che i cardinali elettori allora cristianamente, con paterni ceffoni dalla sommità di un altare, pose di fronte ai loro limiti e alle loro colpe – e che eletto infine ha compiuto il tutto per liberarsi da quel peso e quella pena: come se il pallio di lana d’agnello intorno al collo (l’agnello del pastore portato sulle spalle, con conficcate le schegge del dolore di Cristo, a volte di un Papa) togliesse respiro, come giogo pesante di bove, così che un giorno lo depositò proprio sulla tomba di quel Celestino che prima di lui se ne andò – o ad andarsene fu costretto. Che poi non è vero quello che il Belli dava per vero, nella Roma dove di Papa ce n’era uno solo e due parevano impensabili, “era Papa a ggenio suo pò llegà e sscioje / tutti li nodi lenti e cquelli stretti”. Così nell’ombra, quel corpo fatto per l’ombra, ora per sempre torna.
Anche osservando visivamente dove il vescovo emerito Ratzinger (non più Vostra Santità, non più Santo Padre) andrà a vivere, si ha netta la sensazione di questo gioco di ombra e di luce che nel cuore della cristianità si capovolge e lascia stupefatti. C’è davanti il palcoscenico dove il Vicario si muove: lo splendore della basilica di San Pietro, il colonnato berniniano che abbraccia e intanto certifica potenza, la gloria delle statue degli apostoli a vigilare lassù in alto, le chiavi di Pietro levate verso il cielo. E dietro, dietro la basilica, dietro le quinte – come nella più straordinaria scenografia teatrale mai concepita da mente umana – tra gli alberi e gli orti e certi cespugli di rose, in una casa che minuscola appare al confronto con l’immensità della basilica e degli appartamenti pontifici, abbracciato a un semplice altare invece che in gloria sotto il baldacchino che s’innalza per quasi trenta metri ad afferrare la cupola, l’ex Vicario carico di libri e fede e ancora pensieri. La più singolare coabitazione che si potesse immaginare – seppure monsignor Ratzinger sa benissimo ciò che il Papa Benedetto sapeva: che per essere santi (e ancor meglio per provare a vivere in santità) la luce non è necessaria, e anzi la luce a volte distrae – “santi nascosti, senza altari, devozioni né eroismi visibili”.
Nascosto e invisibile – eppure quando il nuovo Papa parlerà, sempre qualcuno si chiederà cosa l’ex Papa avrebbe detto, cosa avrebbe da dire al riguardo. Né il vescovo emerito (ché di Roma, come Papa, fu vescovo) dirà niente: si capisce benissimo che per lui l’ombra è una (ri)conquista, non una condanna. Ma il semplice pensare che c’è qualcuno (l’unico) che potrebbe farlo, che ha quel carisma da cui non si sfugge e quella storia da cui non ci si libera, crea imbarazzo. La semplice idea di una foto, dove dietro al nuovo Vicario spunti il vecchio, appare clamorosa, impensabile: la certificazione visibile della forza dell’ombra – quasi come in quel racconto dove Borges incontra l’altro Borges nella sua camera d’albergo, “non capisci che l’importante è accertare se c’è un solo uomo che sogna o due che si sognano”. Con un’ombra non è facile convivere: ha il passo silenzioso e a volte un calare da vertiginose altezze; con l’ombra, con la propria ombra – e un Papa mai ha avuto un’ombra come quella di un ex Papa alle spalle – bisogna mettersi faccia a faccia, spiegherebbe Carl Jung che se l’ombra è ciò che viene rifiutato, che viene rimosso, si muta in nemico interno: il se stesso che non accetta di essere lasciato solo. Ha avuto molte amarezze e molte delusioni, nei suoi anni da Vicario, il cardinale Ratzinger – la cenere che mercoledì hanno depositato sui suoi capelli bianchi era ammonitrice, quella che gli chiudeva la gola stava per soffocarlo – e da tale sommità ha visto cose che neanche il suo sguardo di grande teologo avevo scorto nei libri e in una sapienza dilatata in un’intera esistenza. Potrebbe essere complicato anche per lui convivere con il suo mutarsi d’ombra, il suo nascondersi al mondo, il farsi irraggiungibile, dopo che così tanto e di così indigeribile ha sfiorato la veste bianca: non sarà possibile frantumarlo per il mondo stesso come il suo anello piscatorio – e il peso di quel pescare uomini e anime non doveva essere più lieve di quello di condurre in salvo sulle spalle l’agnello senza peccato. Un po’, dentro il piccolo monastero, come il “passeggero segreto” di Conrad che viaggia nella stiva di una nave altrui potrebbe sentirsi, e nel convivere in così poco spazio dal suo successore avvertirsi un po’ come il William Wilson di Poe, che un altro se stesso incontra – ha il suo nome e il suo cognome ed è nato nello stesso giorno, “e il suo mormorio singolare divenne la mia stessa eco” – pur senza, si capisce, il ferale duellante epilogo. O il “sosia” dostoevskiano – che è copia esatta del protagonista, ma che il protagonista finisce con l’opprimere – il “Goljadkin minore” che si muta in antagonista e tormento del “Goljadkin maggiore”.
Lo scivolare via di Benedetto dalla luce e dalla guida del mondo – del suo mondo: quello cristiano, dove appunto mai il sole tramonta – si può fare evocativo di quello di Carlo V, che dal suo impero su cui mai tramontava il sole si ritirò nel convento di San Jeronimo di Yuste, “fatto disegno di deporre lo scettro e di ritirarsi dal mondo”: solo che quello partì con navi e migliaia di persone e si presentò con cavaliere e alabardieri, Joseph arriverà con i libri, qualche pretino di conforto, le monache ad accogliere – e monache di clausura, così che le voci siano al minimo e il silenzio davvero pieno e consolante. Né asceta né curiale – ché il formicaio della curia sempre il prefetto Ratzinger osservò come dal bordo di uno stagno di papere un po’ starnazzanti – tra le pagine dei suoi mille e mille volumi qualche lampada nell’ombra accenderà (“siate anche voi simili alle lampade!”), però neanche quella tenue fiammella dovrà arrivare a riflettersi sul bianco e sul faticoso pallio del nuovo Vicario, così che neppure l’agnello innocente sia reso confuso. Sarà – se in Vaticano il vescovo emerito si sistemerà – innanzi tutto un reciproco gioco di sottrazione, un sapere (che c’è) e un non pensare troppo (che c’è). E chissà se dalla sua finestra Joseph vedrà passare a passeggio nei giardini il suo successore, lì dove lui con la stessa veste e forse diversa pena passeggiava; e se mai il suo successore volgerà il passo verso quel tranquillo e semplice ritrovo di monache – che al suo interno contiene la più clamorosa storia dell’intera storia della chiesa stessa: che un Papa debba morire si sa, che un Papa possa morire da ex Papa finora neppure la sapienza, di colpo logora, di tanti curiali e di tanti teologi aveva sfiorato.
Lontano dal mondo, al mondo sottratto, il mite teologo tedesco, infinite volte tornerà – a cercar consolazione nella preghiera, a cercar spiegazione nella dottrina – sulla sua avventura di grande (e in fondo, pure lui, povero: qui, come Celestino) cristiano. E se avrà voglia di parlarne con il suo successore, e potrebbe (“tutte le parole richiedono un’esperienza condivisa”, dice Borges al suo doppio), chissà se mai lo farà. Una vita a studiare la Parola, così per appurare alla fine che quella di Dio può persino non spiegare né a volte piegare quella degli uomini – come sapeva pure Pio IX, mentre fuggiva verso Gaeta (e travestito da prete fuggiva, ma non dal papato) quando gli chiesero se avesse paura per la sorte della navicella di Pietro: “Oh no, la navicella di Pietro non affonderà mai. Sapete piuttosto chi temo? Temo dell’equipaggio”. Forse la mossa laterale del vescovo emerito Joseph ha salvato la chiesa, forse ha dato una mano alla fede – ché ciò che era piombo nelle ali possa precipitare a terra mentre lui si sottrae alla loro vista e alle loro mani – di sicuro ha regalato pace alla sua umana impazienza, riconducendola infine alla pazienza divina. E magari (ri)assicurato per il tramonto ultimo. Diceva (dicono che dicesse: ma se è così bella la battuta, qualcosa di vero deve esserci), a proposito del paradiso, un altro Benedetto seduto sul trono di Pietro, l’arguto quattordicesimo del Diciottesimo secolo: “Finché fui prete ebbi gran speranza di andarvi, da cardinale ne dubitai, ne disperai da Papa!”. Così adesso si spiega che dalla croce non si scende, e forse Joseph, che alla gloria e dalla luce si è sottratto, sulla croce si è solo affrettato a risalire.
Lontano dal mondo, al mondo sottratto, il mite teologo tedesco, infinite volte tornerà – a cercar consolazione nella preghiera, a cercar spiegazione nella dottrina – sulla sua avventura di grande (e in fondo, pure lui, povero: qui, come Celestino) cristiano. E se avrà voglia di parlarne con il suo successore, e potrebbe (“tutte le parole richiedono un’esperienza condivisa”, dice Borges al suo doppio), chissà se mai lo farà. Una vita a studiare la Parola, così per appurare alla fine che quella di Dio può persino non spiegare né a volte piegare quella degli uomini – come sapeva pure Pio IX, mentre fuggiva verso Gaeta (e travestito da prete fuggiva, ma non dal papato) quando gli chiesero se avesse paura per la sorte della navicella di Pietro: “Oh no, la navicella di Pietro non affonderà mai. Sapete piuttosto chi temo? Temo dell’equipaggio”. Forse la mossa laterale del vescovo emerito Joseph ha salvato la chiesa, forse ha dato una mano alla fede – ché ciò che era piombo nelle ali possa precipitare a terra mentre lui si sottrae alla loro vista e alle loro mani – di sicuro ha regalato pace alla sua umana impazienza, riconducendola infine alla pazienza divina. E magari (ri)assicurato per il tramonto ultimo. Diceva (dicono che dicesse: ma se è così bella la battuta, qualcosa di vero deve esserci), a proposito del paradiso, un altro Benedetto seduto sul trono di Pietro, l’arguto quattordicesimo del Diciottesimo secolo: “Finché fui prete ebbi gran speranza di andarvi, da cardinale ne dubitai, ne disperai da Papa!”. Così adesso si spiega che dalla croce non si scende, e forse Joseph, che alla gloria e dalla luce si è sottratto, sulla croce si è solo affrettato a risalire.
Perché fare l’ex Papa potrebbe essere più faticoso, certo meno penoso, che fare il Papa – davvero ombra che dalla sua ombra non deve più uscire, preghiere che nessuno ascolterà più, parola che sa di dover trattenere, sguardi cauti, dal momento in cui si leverà in volo sopra San Pietro. E’ l’esatto doppio che non potrà mai permettersi di apparire tale. Ma lo stesso e per sempre qualche ombra di Pietro, del suo essere stato Vicario in terra, e in terra fermarsi come ex Vicario, resterà sul suo viso. E inevitabilmente, nel viso di Pietro che verrà, sempre si crederà di intuire un’ombra di Joseph – che fu Benedetto e che poi non fu più. Alla pazienza di Dio, al solito, sbrogliare i fili che l’impazienza umana ha finito con il legare in maniera così strana e paradossale, che pure i canonisti stanno impazzendo. Il Papa si è dimesso! Lo stesso: viva il Papa! O i Papi?
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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