Beh,
quel che lamentavo riguardo alla formazione nel mio Ordine, in
realtà costituisce un problema generale, che tocca ogni ambito,
diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, col
quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria.
Non mi si fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con
convinzione tutte le riforme da esso promosse e successivamente
realizzate; sono riforme che si rendevano necessarie per il
mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i Papi e i
Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di
aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla
possibilità di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma
sempre entro i limiti previsti dalle nuove normative. Il problema è
che spesso tali normative sono state completamente ignorate dalla
“base”, la quale anzi riteneva che, col Concilio, si era fatta
piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di azione fosse
ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente
coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.
Perché,
direte voi, questa lunga introduzione? Dove vuole arrivare Padre
Scalese? È la riflessione che mi è venuta in mente quando, l’altro
giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato alquanto perplesso:
il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena
Domininel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il
problema? Non è un bellissimo gesto quello deciso da Papa
Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è forse una delle opere
di misericordia corporale? Il Papa non può decidere liberamente
dove celebrare la Messa del giovedí santo?
Vorrei
cominciare col rispondere a quest’ultima domanda, perché credo
che da una corretta risposta ad essa dipenda tutto il resto. È vero
che il Papa può decidere quel che vuole: egli è il legislatore
supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se
esiste una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una
legge esistente, fatta da lui o da uno dei suoi predecessori, lui
non la cambia, non mi sembra opportuno che la disattenda. Non sono
un canonista, ma non mi pare che al Papa possa applicarsi il
principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto
corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a
osservarle. Questo, come principio generale.
Nel
caso presente, non si tratta propriamente di leggi, ma di
indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio parere, un valore
piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato
ilCæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato
soltanto ai cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai
Vescovi stessi. Faccio notare che non mi riferisco
al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex
decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum,
auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che
cosa si dice nel suddetto Cerimoniale a proposito
dei riti del Triduo pasquale?
«Tenendo
quindi presenti la particolare dignità di questi giorni e la grande
importanza spirituale e pastorale di queste celebrazioni nella vita
della Chiesa, è sommamente conveniente che il
Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena del
Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella
passione del Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in
essa si devono celebrare i sacramenti della iniziazione cristiana»
(n. 296).
E,
specificamente a proposito del giovedí santo,
il Cerimonialeprosegue:
«Il
Vescovo, anche se ha già celebrato al mattino la Messa del crisma,
abbia ugualmente a cuore di celebrare anche la Messa della Cena del
Signore con la piena partecipazione di presbiteri, diaconi, ministri
e fedeli intorno a sé» (n. 298).
Non
si tratta di norme tassative, ma di indicazioni in ogni caso
pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per gravissime ragioni ci
si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito, Papa
Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva
quando era Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che
intenda ripetere il gesto ogni anno). È chiaro che il problema non
sorge solo ora che Bergoglio è diventato Papa, ma esisteva già
quando era Arcivescovo. Posso supporre il ragionamento che avrà
fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del crisma con
tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà
celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in
cattedrale? Magari non ci saranno neppure i seminaristi perché
mandati ad aiutare nelle rispettive parrocchie. Quindi me ne vado a
celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o agli anziani) e cosí
faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento
abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di
“smontare” tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva
autorevolmente dichiarato:
«Il
Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo
gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi
fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la piú grande
importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno
al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è
una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena
e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni
liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima
preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai
suoi sacerdoti e ministri» (Sacrosanctum Concilium, n.
41).
Un
testo che viene ripreso dal Cerimoniale, che aggiunge:
«Dunque
le sacre celebrazioni presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero
della Chiesa a cui è presente Cristo; perciò non sono un semplice
apparato di cerimonie … In tempi determinati e nei giorni piú
importanti dell’anno liturgico si preveda questa piena
manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il
popolo proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto
sarà possibile, i presbiteri» (nn. 12-13).
«La
principale manifestazione della Chiesa locale si ha quando il
Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia
soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio
e dai ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il
popolo santo di Dio. – Questa Messa, chiamata stazionale,
manifesta l’unità della Chiesa locale e la diversità dei
ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad
essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri
concelebrino con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio,
gli accoliti e i lettori esercitino le loro funzioni» (n. 119).
«Questa
forma di Messa sia osservata soprattutto nelle maggiori solennità
dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro crisma
e nella Messa vespertina in Cena Domini,
nelle celebrazioni del santo fondatore della Chiesa locale o del
patrono della diocesi, nel giorno anniversario dell’ordinazione
del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo cristiano, nella
visita pastorale» (n. 120).
Nel
comunicato con cui si informa della decisione di Papa Francesco, si
aggiunge: «Com’è noto, la Messa della Cena del Signore è
caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e dal
gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo
caso il Cerimoniale dei Vescovi appare piú
completo e preciso:
«Con
questa Messa dunque si fa memoria della istituzione dell’Eucaristia,
o memoriale della Pasqua del Signore, con la quale si rende
perennemente presente tra di noi, sotto i segni del sacramento, il
sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria della
istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo
la missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa
memoria dell’amore con cui il Signore ci ha amati fino alla morte.
Il Vescovo si preoccupi di proporre opportunamente ai fedeli tutte
queste verità mediante il ministero della parola, affinché possano
penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí grandi
misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta»
(n. 297).
La
lavanda dei piedi è certamente un momento significativo della
celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un errore considerarlo
il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito
obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo
consigliano» (n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi
luoghi, esso è stato caricato di significati che esorbitano dal suo
valore originario.
Qualcuno
dirà che sto facendo di un’inezia una montagna; qualcuno mi
accuserà di pignoleria, se non addirittura di rubricismo o di
legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che
accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato;
qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno
dica quel che vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che
certe decisioni, apparentemente innocue, potrebbero avere
conseguenze devastanti:
a)
innanzi tutto, disattendendo le norme esistenti, anche quelle che
potrebbero apparire secondarie, si rischia di mettere in discussione
alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso in luce e ha
voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b)
in secondo luogo, potrebbe passare l’idea che le norme ci sono,
sí, ma non è poi cosí importante rispettarle: se il Papa ritiene
possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí importanti;
e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c)
inoltre si potrebbe dare l’impressione che non esista alcuna norma
oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto
dipenda esclusivamente dalla discrezionalità del responsabile di
turno;
d)
infine c’è il rischio che il relativismo, tanto osteggiato a
parole nella società, diventi di fatto la norma suprema anche
all’interno della Chiesa.
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