Papa Mastai avrebbe abbandonato la sua reggia scagliando un terribile anatema su tutti gli usurpatori che vi si sarebbero istallati dopo la cacciata
GIACOMO GALEAZZICITTA' DEL VATICANO
Nella corsa al Quirinale c'è un altro colle da tener presente: quello vaticano. Stamattina il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri (tra i candidati alla presidenza della Repubblica) ha partecipato, insieme con i suoi familiari, alla messa celebrata da Francesco nella Cappella della Residenza di Santa Marta. "Chi entra Papa esce Cardinale": lo storico aforisma di Giulio Andreotti sul valore delle candidature per il Quirinale nei giorni precedenti all'elezione del Capo dello Stato, non scoraggia il «toto-elezioni» nei media e tra i politici stessi, con tanto di sondaggi.
Cattolici o laici che fossero, i presidenti della Repubblica che si sono avvicendati al Quirinale non hanno mai avuto un rapporto sereno con il colle più alto di Roma. Tanto che Carlo Azeglio Ciampi è stato uno dei pochissimi ad andarvi ad abitare. Soprattutto per i primi (ma non necessariamente, visto quanti tra i presidenti laici indulgessero alla scaramanzia) per quelle stanze continua ad aleggiare la «maledizione di Papa Mastai».
Secondo la leggenda, infatti, Pio IX avrebbe abbandonato la sua reggia scagliando un terribile anatema su tutti gli usurpatori che vi si sarebbero istallati dopo la cacciata del Papa Re. A suffragare i timori di tanti superstiziosi il contenuto sibillino di una circolare diramata poco dopo il 20 settembre 1870 da Monsignor Antonelli, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Segretario di Stato di un Pontefice ormai sovrano del solo Vaticano. Vittorio Emanuele, scriveva Antonelli, «ha commesso un attentato di fronte al quale era rifuggito lo stesso Mazzini allorquando nel 1848 proclamava la sua repubblica».
I Savoia, in altre parole, erano molto peggio del cospiratore rivoluzionario. E con loro tutti i loro successori. Vittorio Emanuele, anche per questo, evitò di farsi vedere a Roma prima del dicembre 1870, quando la capitale fu vittima della peggiore inondazione della sua storia, ed il re fu costretto a recarsi in visita alla popolazione colpita. Una zingara, vedendolo passare per la strada, gli predisse che sarebbe morto al Quirinale. Così fu, qualche anno dopo. E la maledizione sembrò estendersi a tutti gli esponenti di Casa Savoia: suo figlio Umberto cadde sotto i colpi dell'anarchico Bresci; suo nipote Vittorio Emanuele III finì i suoi giorni nell'esilio di Alessandria d'Egitto, dopo aver assistito al disfacimento della monarchia. Umberto II, infine, fu un re che di regale non aveva neanche il titolo (Luogotenente del Regno) e che svolse le sue funzioni per un paio di anni appena. Prima di partire anche lui in esilio, subì l'umiliazione di avere sua moglie che votava per la Repubblica al referendum del Due Giugno. Non a caso il primo re d'Italia suo bisnonno continuò sempre, anche dopo il dicembre 1870, a chiamare il Quirinale «la Ca' `d preive", la «casa dei preti».
Tra i presidenti, Enrico De Nicola non volle mai metterci piede. Preferì vivere per tutto il tempo del mandato a Palazzo Giustiniani, dove si pagava da solo la bolletta del telefono e rifiutava l'appannaggio presidenziale. In realtà c'era un altro motivo, oltre alla supposta maledizione, che gli impediva di andare ad occupare le stanze dei Savoia: era monarchico, e la cosa gli sarebbe sembrata quasi un parricidio. Luigi Einaudi invece non poté esimersi da un atto che rappresentava anche fisicamente il passaggio del paese dalla monarchia alla repubblica. Non lo fece per nulla volentieri, comunque. Iniziò schermendosi, adducendo strane scuse. Dovette letteralmente portarcelo per mano Giulio Andreotti, all'epoca giovane sottosegretario alla presidenza del consiglio con Alcide De Gasperi. Su incarico di questi, Andreotti si recò da Einaudi, pronto a vincere le sue resistenze con le armi della persuasione. Einaudi si offrì di andarci a lavorare tutte le mattine, ma a patto di poter tornare a casa a dormire. «Va bene- disse Andreotti- venga al Palazzo che glielo mostro". Einaudi venne così attirato tra quelle mura per non uscirne più: aveva appena varcato la porta principale che comparve alle sue spalle un valletto con tanto di valigia. Dentro c'erano il pigiama e gli effetti personali del Presidente. «Si fermi qui, solo per questa notte», fece suadente Andreotti. Einaudi cedette, ma solo per quella notte. All'indomani lesse su tutti i giornali la notizia del trasloco definitivo, e non poté più tornare a casa sua. Ad Einaudi, comunque, non accadde nulla di spiacevole. Giovanni Gronchi invece fu sfiorato da molte chiacchiere. Anche lui, ad ogni modo, aveva cercato di non metterci piede. «I miei figli sono ancora ragazzi», arrivò a dire, «non posso farli crescere tra i corazzieri». Antonio Segni non terminò il settennato: nel 1964, durante un burrascoso colloquio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, fu colpito da un ictus che lo portò su una sedia a rotelle. Firmò le dimissioni con la mano sinistra. Andò meglio a Saragat, che chiuse la permanenza senza scossoni apparenti (anche se quello fu un periodo abbastanza burrascoso per la Repubblica, ed il Pci giunse ad offrirgli protezione in caso di colpo di stato dell'estrema destra).
Decisamente peggio andò a Giovanni Leone, anche lui costretto a firmare le proprie dimissioni per una campagna giornalistica (infondata) che lo voleva coinvolto nello scandalo delle mazzette versate dalla americana Lockheed per l'acquisto da parte italiana di un certo numero di Hercules C-130. La completa riabilitazione da parte del mondo politico è giunta solo lo scorso dicembre, in occasione del suo novantesimo compleanno. Sua moglie Vittoria, al termine della cerimonia al Senato in cui finalmente era arrivata la piena soddisfazione per il marito, commentò con un gelido «meglio tardi che mai». Sandro Pertini, il successore di Leone, è stato il Presidente più amato dagli italiani (almeno fino a Ciampi), ed il suo settennato ha segnato il momento dell'avvicinamento dei comuni cittadini alla magistratura più alta dello Stato. Nonostante le nubi del caso P2, da lui stesso denunciato in uno storico messaggio di fine anno, la sua permanenza sul Colle non ha comportato gravi traumi né per lui, né per gli altri. Forse perché Pertini, non immune dalla scaramanzia, non ha mai voluto dormire nell'ex residenza di Pio IX. Aveva una buona scusa: abitava a Fontana di Trevi, ed il Presidente della Gente passava tra la gente ogni mattina, a piedi, per andare in ufficio.
Francesco Cossiga ha chiuso il suo settennato tra una raccolta di firme per metterlo in stato d'accusa e le chiacchiere di chi arrivava a parlare di un suo cattivo stato di salute per spiegarne le esternazioni. Quanto a longevità, anche politica, comunque ha smentito ogni profeta di sventura. Lo stesso Oscar Luigi Scalfaro, del resto, è arrivato indenne alla fine della corsa, nonostante il tentativo di trascinarlo in uno scandalo di fondi neri usati impropriamente dai vertici del Sisde. Leggenda smentita? Probabilmente sì. Ma c'è chi sostiene che la `maledizione´ debba intendersi estesa anche ai semplici candidati alla Presidenza, e negli ultimi anni gli influssi negativi si sono concentrati su molti tra i grandi nomi «papabili», ad esempio, del 1992: Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e Giovanni Spadolini. Magari è questo uno dei motivi per cui è nato il «metodo Ciampi», quello che contempla un solo candidato da eleggere a botta secca. Con Giorgio Napolitano non è andata così: quattro scrutini e elezione sofferta. Magari è per questo che, alla fine del settennato, ha dovuto affrontare la crisi politica più dura della sua carriera politica. Una crisi ancora non risolta. Se c'è una cosa duratura, in Italia, è la scaramanzia.
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