1952. Il giovane Giulio Andreotti
con Alcide De Gasperi
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«Sono nato sotto un Benedetto, morirò sotto un Benedetto»
aveva preconizzato Andreotti all’elezione al Soglio pontificio di Ratzinger. Un
dettaglio tenero, quasi struggente; come pochi ancora, considerava i papati
come scansione temporale, un po’ come fanno i Giapponesi con i Tennō,
gli Imperatori - questa presente, regnante Akihito, è l’era Heisei,
quella di Hiroito era l’era Shōwa, e così via.... Nato sotto
Benedetto XV, nell’arrivo di Benedetto XVI il senatore vedeva una coincidenza
onomastica che sapeva di segno di celeste completezza: la sua era stata una
vita grande, conchiusa in un simmetrico senso divino. Non sapeva, il senatore,
che il mondo è talmente cambiato che Benedetto XVI è ancora vivo ma il Papato è
quello di Francesco I...
È morto l’ultimo grande democristiano; forse, ci si può
spingere a dire: il solo. Nessun altro come Andreotti avrebbe rappresentato la
continguità tra il Papato e la Politica di uno Stato, quello italiano, che ai
suoi albori ottocenteschi era nato come negazione violenta della Chiesa di
Roma. Questa contiguità, che in teoria ci aspetteremmo essere la cifra di un
partito che si è chiamato Democrazia Cristiana e che ha dominato la scena
politica per quasi tutta la metà del secolo XX. Sappiamo che purtroppo non è
stato così: già con gli anni Sessanta, la DC fece entrare nei suoi quadri
persone che cristiane non lo erano minimamente (il problema, mutatis
mutandis potrebbe averlo avuto anche la Chiesa postconciliare: così
qualcuno spiega l’impennata di preti pedofili degli ultimi anni). Da partito
sedicente cristiano, la DC divenne bellamente un sistema di gestione, a volte
anche virtuosa, della cosa pubblica. Ma della dottrina cattolica, della morale,
della bellezza della Religione di Cristo, si perse quasi subito traccia: ci
siamo ritrovati così con le bave di Forlani (a cui dobbiamo due titani dello
spirito come Follini e Casini, che sono coscientemente i ruttini digestivi del
mondo che si è pappato la DC), le labbra oscene di De Mita (a cui dobbiamo la
nullificazione finale del messaggio cristiano in politica, la quale con Ciriaco
diventa un tecnicismo feudale meridionalista), le manovre oscure di Andreatta
(a cui dobbiamo la svendita del Britannia, Prodi, e finanche un governo, quello
attuale, in cui un premier in teoria ex-democristiano si prende come ministra
la feticida seriale Emma Bonino). No, la Democrazia Cristiana tanto cristiana
non era, e quindi figuriamoci se era cattolica.
In tutto questo marasma Giulio Andreotti aveva saputo
spesso- scusate l’ironia - tenere la schiena dritta. Andreotti con il Vaticano,
per lo meno, ci parlava sul serio. «E lei andava dal papa così, come io vo
dal tabaccaio?» gli chiese sconvolta Oriana Fallaci in intervista (ora
contenuta in Intervista con la Storia, Rizzoli), quando Giulio le
disse che frequentava l’Oltretevere ancora ragazzino. Era proprio così: la
dimestichezza di Andreotti con il massimo mondo ecclesiastico era una realtà
tangibile ed arcana. Era considerato un «cardinale esterno», e molti
chiacchierano di come fosse stato scientemente scartato dalla curia perché
potesse proseguire, sempre al servizio della Chiesa di Roma, una carriera
nell’universo secolare, che gli era più congeniale.
Alla notizia della morte, gli ebeti grillini al senato, in
una ennesima prova del loro infimo squallore mentale e morale, hanno berciato
ed ululato. La deputata M5S Giulia Sarti (quella di cui si narrano le mail
rubate con annesse interessanti foto di «solitudine») non ha trovato di meglio
che scrivere «è morto Andreotti, il condannato prescritto per Mafia». Gian
Carlo Caselli, l’azzimato persecutore dalla mirabile chioma, ha gracchiato che
comunque era stata «provata la responsabilità penale». Il suo collega Ingroia,
cercopiteco para-comunista ha rincarato la dose: «uomo dalle tante ombre e
dalle poche luci». Il vacuo fenomeno editoriale transitorio Roberto Saviano ha
tuonato che «l’ha fatta franca». Il PDL Fabrizio Cicchitto ha cercato una
inquadratura bonaria fuori tempo massimo: «per lui la mediazione era l’essenza
della politica e andava esercitata con tutti... fino alla mafia tradizionale,
mentre condusse una lotta senza quartiere contro quella corleonese».
Al contrario di questa oscura selva di personaggi, lo
scrivente, come picciotto dedito alla causa di un realismo politico che governi
il mondo con fermezza e saggia misura, si vorrebbe mettere in fila con quelli
che bacerebbero quelle mani antiche che in questo momento, dicono le cronache,
sono fredde ma impugnano salde un rosario nero. Io plaudo all’Andreotti che
fortifica la posizione mediterranea e vicino-orientale dell’Italia e dell’ENI,
anche se questo vuol dire stringere la mano dell’impresentabile Arafat. Plaudo
l’Andreotti che a Mosca guadagna - segno raro e benevolo - la prima pagina
della Pravda mentre è in visita a Gorbachev; l’Andreotti che fa puntare i mitra
dei carabinieri contro i Marines a Sigonella (e come l’altro protagonista della
storia, Bettino Craxi, pagò il conto); l’Andreotti che si sorbisce gli sfoghi a
cena di Saddam Hussein; l’Andreotti nemico della riunificazione tedesca;
l’Andreotti che non accetta di presentarsi ad un rodeo di Bush senior con gli
stivali e il cappello da cowboy (tutti gli altri “statisti”
stranieri invitati, da Mitterand in giù, si misero invece in costume da vaccaro
per il Re d’America); l’Andreotti che era visto come fumo negli occhi dalle
amministrazioni Nixon, Carter, Clinton, nonché dall’eterno padrone del vapore
diplomatico Henry Kissinger; l’Andreotti capace di stoccate che solo uno che
gioca su un piano globale - e profondissimo - può permettersi. Nessuno lo
ha ricordato in questi giorni di lutto, ma il fatto fu clamoroso, e indicativo
della potenza di fuoco andreottiana.
All’altezza dei primi anni Novanta, Mehmet Alì Agca, dopo
essersi rimangiato la sua versione dei fatti una quantità di volte, aveva
riattaccato a dire che erano i bulgari gli organizzatori dell' attentato.
Il giornalista del Corriere Antonio Ferrari seguì il senatore
Andreotti ad Atene per un convegno, e gli chiese un’intervista: «Presidente,
Agca ora dice d' essere andato a casa del caposcalo romano delle linee aeree
bulgare Sergej Antonov. Sarà vero?». Andreotti con una ironica voce bassa:
«Certo che è vero». Poi sgancia la bomba: «Nel condominio dove abitava Antonov,
Agca è andato di sicuro. Ma per quanto riguarda l' alloggio che ha descritto,
si è sbagliato». Ferrari stupefatto chiede: come? «Sì, si è sbagliato di piano.
Ha descritto l' appartamento di padre Félix Morlion, il frate notoriamente
legato alla Cia». Non so se sia chiaro: giunti ad un certo punto del
giuoco, il senatore «bruciò» (cosi si dice nel gergo dell’intelligence)
un agente americano - per giunta un domenicano! - in quattro e quattro otto,
quasi con indifferenza, con la stessa placidità con la quale poteva regalare a
Vespa una battuta sulla Carrà. La tessitura profonda del mondo, che è
vastissima e concreta, per lui non era quel mistero che è per tutti noi comuni
mortali.
Lo chiamavano Belzebù, perché il suo acume era immenso e
opaco, le sue trame pervadevano il mondo intero. Uomo di intelligenza cauta e
sopraffina, riversava la sua folgorante lucidità in pensamenti aforistici che
superano persino l’estro di Ennio Flaiano o Karl Kraus. «I rospi meglio
ingoiarli da girini». «In politica ci sono più Dracula che donatori di sangue».
«Sono di media statura ma non vedo attorno a me giganti». «Amo talmente la
Germania che ne preferivo due». «Il potere logora chi non ce l’ha», che in
realtà non è nemmeno una sua battuta - gliela sussurrò, pare il cardinale
Francesco Marchetti Selvaggiani - contiene in nuce la raffinata idea politica
con la quale la DC per anni ha imballato i partitini avversari per ucciderli di
sfinimento. Quando Aldo Moro ci provò con il PCI, finì ammazzato nel più grande
psicodramma della storia repubblicana: in realtà, l’orrore di tutta quella
storia (il sangue dei morti, il caos istituzionale, il corpo dello statista
pugliese rannicchiato nella R4 in via Caetani) era la visualizzazione del
logorio definitivo di chi il potere non lo possedeva e stava - con il crollo
del muro di Berlino - per perderne per sempre la speranza. Una plastica
rappresentazione della massima andreottiana: i brigatisti, e certo anche i loro
mortiferi padroni, erano solo degli impotenti logorati.
Per Andreotti proprio Moro ebbe, nella squallida prigione
Brigatista di Via Gradoli, parole durissime: «Tornando poi a Lei, on.
Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Paese (che non tarderà ad
accorgersene) a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la grigia
carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma
buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che
Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani,
imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei.
Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà,
saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici
cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’
meno, ma passerà senza lasciare traccia.». Sono parole tremende, mirate bene
per colpire emotivamente Giulio sin nell’intimo: ad offenderlo non era certo
l’appello al suo «grigiore» di burocrate (ebbe a dire «essendo noi uomini medi,
le vie di mezzo sono per noi le più congeniali») quanto il paragone con De
Gasperi, figura paterna sul cui ricordo Andreotti era assai permaloso. C’è un
punto però sul quale le ingenerose parole di Moro di certo sbagliano. Anche se
non lascia un impero, una scuola, una corrente, un segno di certo indelebile
nella società italiana il senatore lo lascia. Non è purtroppo, un segno
positivo: è anzi un marchio del Diavolo, un sigillo dell’azione veridica di
Beelzebul, quello vero. Sempre in quel fatale 1978, a pochi giorni dalla morte
di Moro, la Gazzetta ufficiale pubblica il testo della legge 194, firmata dal
primo ministro democristiano Giulio Andreotti. Come ben racconta Francesco
Agnoli nella sua Storia del Movimento per la Vita edito da
Fede & Cultura, Andreotti pensò di dimettersi, ma poi - raccontò - prevalse
l’idea di evitare la caduta del governo e dare stabilità al paese: una scusa
patetica, considerando il numero devastante di governi fatti e disfatti sotto
gli occhi della storia italiana. Anzi, va ricordato come l’Andreotti primo
ministro (carica che ricoprì poi ben sette volte) esordì con un governo che
durò la bellezza di nove giorni (dal 17 al 26 febbraio 1972), il più breve che
l’Italia Repubblicana ricordi.
Caso unico al mondo di legge abortista firmata da politici
democristiani, la 194 è siglata da Andreotti e dai ministri democristiani Tina
Anselmi, Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino, Filippo Maria Pandolfi nonché
dal presidente democristiano Giovanni Leone. Costoro tutti sono de
facto corresponsabili della strage di almeno 5 milioni di vittime
innocenti. Con l’aggravante che essi erano tutti uomini che si dicevano
cattolici, anzi la cui carriera e il cui stipendio erano definiti dal dirsi
“cattolici”, perché altrimenti i voti se li sarebbero dovuti sudare.
Essi sono gli iniziatori della legge per cui l’Italia
perpetra un autogenocidio a spese del contribuente, un caso patologico di Paese
che esegue il rituale sanguinario del suo stesso suicidio: tra quei 5 milioni
di morti, vi sono cittadini che avrebbero potuto diventare medici, operai,
musicisti, calciatori, ingegneri, commercianti, avvocati, artisti. Vi erano i
ricambi della nostra società costretta a subire le ondate immigratorie, e forse
pure i ricambi di una classe politica che ha toccato il fondo. Cinque milioni
di bambini, cinque milioni di figli, cinque milioni di fratelli, cinque milioni
di anime sacrificate al Nulla, o per chi ci crede, a Satana. Perché questo sono
gli aborti: offerte alla genìa degli Immondi. L’alimento dei diavoli e delle
loro schiere, il nutrimento primo dei nemici di Cristo e dell’umanità, della
vita e del creato.
Qui Andreotti ha toccato il limite - estremo,
metafisico, tragico - della sua medietà democristiana, del suo genio della
politica, cioè dell’arte del possibile, del compromesso: mediazione per
mediazione, ha provato a stipulare il patto con Beelzebul - quello vero. Gli ha
così consegnato milioni di anime, e quindi forse anche la sua. Perché cos’altro
è l’aborto, se non il ritorno al sacrificio umano grato ai demoni? La Chiesa un
tempo non aveva paura di dirlo, e per questo condannava le streghe, così come
si legge nel Malleus Maleficarum, il manuale degli inquisitori: i
feticidi sono attività materialmente demoniache, sono commercio con Lucifero
nello stato più puro.
L’aborto è la forma suprema forma di invocazioni sataniche:
sono le porte dell’Inferno che si spalancano, e inghiottono l’umanità che non
si aggrappa a quella roccia su cui, come disse il Maestro, non
prævalebunt.
Eppure Andreotti credeva nell’Inferno. Dei dubbi modernisti
sull’esistenza dell’Inferno diceva che erano il prodotto «di un certo buonismo
teologico».
Di nostro, anche noi sappiamo che l’Inferno esiste. E certo,
non possiamo sapere cosa stabilirà il Giudice - quello vero, non quello dei
processi farsa - per l’Andreotti, maledetto firmatario della legge di Erode,
sanguinario ed immondo patto con Beelzebul.
Ora, che tu sia tra le fiamme o meno, possiamo solo dirti,
caro Giulio: fai buon viaggio.
Amen.
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