Ruini: “Uomo del dialogo”. L’Osservatore: “Capacità di mediazione e intelligenza pragmatica”. Bagnasco: "Grande statista" (http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/andreotti-andreotti-andreotti-24611/)
ECCO CHI SECONDO MORO, FU IL VERO RESPONSABILE DELLA SUA MORTE: GIULIO ANDREOTTI
Se la condanna per il Divo Giulio non arriva dalla Terra, giunge spietata dall’aldilà: nelle lettere che Moro scrisse durante il suo sequestro, le parole contro Andreotti erano durissime - “È restato indifferente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria” - “Ho un immenso piacere di avervi perduti”...
Gianni Barbacetto per "Il Fatto Quotidiano"
ALDO MORO E GIULIO ANDREOTTI
Aldo Moro lo conosceva bene, Giulio Andreotti. Visto da vicino, il Divo non aveva il fascino che tanti post mortem gli attribuiscono. "Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca". Così di Andreotti scriveva Moro.
"Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia".
MORO
Così Moro nel suo "Memoriale", quell'insieme di documenti vergati durante il sequestro, ritrovati in diverse circostanze tra il 1978 e il 1990 e resi pubblici nel 2001 dalla Commissione parlamentare sulle stragi. E che tornano di attualità nel giorno del 35° anniversario del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani.
"È RESTATO INDIFFERENTE, LIVIDO, ASSENTE, CHIUSO NEL SUO CUPO SOGNO DI GLORIA"
"Io mi sarei atteso, a parte i valori umanitari che hanno rilievo per tutti, che l'On. Andreotti, grato dell'investitura che gli avevo dato, desideroso di fruire di quel consiglio che con animo veramente aperto mi ripromettevo di non fargli mai mancare, si sarebbe agitato, si sarebbe preoccupato, avrebbe temuto un vuoto, avrebbe pensato si potesse sospettare che, visto com'erano andate le cose, preferisse non avere consiglieri e quelli suoi propri inviarli invece alle Brigate rosse", scriveva Moro in prigionia.
ANDREOTTI
"Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto. Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l'umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all'estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant'altro ancora.
Che significava, in presenza di tutto questo, il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della Dc? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente. (...) Andreotti sarebbe stato il padrone della Dc, anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no". (...) Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti".
BENIGNO ZACCAGNINI
Nella lettera scritta dal carcere delle Br e recapitata alla moglie Eleonora il 6 aprile, Moro dice: "Mia Carissima Noretta (...) Si può fare qualche cosa presso: Partiti (specie Dc, la più debole e cattiva), i movimenti femminili e giovanili, i movimenti culturali e religiosi. Bisogna vedere varie persone, specie Leone, Zaccagnini, Galloni, Piccoli, Bartolomei, Fanfani, Andreotti (vorrà poco impegnarsi) e Cossiga".
"L'UNICA COSA CHE VERAMENTE CONTA PER ME È LA FAMIGLIA, NON LA CARRIERA"
Il 29 aprile, a Flaminio Piccoli, presidente del Gruppo democristiano, scrive: "Importante è convincere Andreotti che non sta seguendo la strada vincente. (...) Conviene trattare". Lo stesso giorno, viene recapitata una lettera direttamente scritta ad Andreotti: "Caro Presidente, so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani e tu ne porti altissima responsabilità.
MO AMINTORE FANFANI 1964
Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il governo. (...) Quando ho concorso alla tua designazione e l'ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di beneaugurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. (...) Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell'unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia".
FLAMINIO PICCOLI
Il giorno prima, 28 aprile, era stata recapitata una lettera scritta da Moro "alla Dc": "È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie (...).
COSSIGA MORO
La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della Dc a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la Dc, né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità".
“Andreotti? Non fu uno statista”
A Vatican Insider il cardinale Velasio De Paolis: “Non possiamo tacere opacità e zone d’ombra nel suo operato”
GIACOMO GALEAZZICITTA' DEL VATICANO
"Giulio Andreotti non fu uno statista: a travolgerlo sono state le stesse ambiguità e i lati oscuri del suo modo di fare politica". A infrangere il coro di giudizi positivi sul sette volte presidente del consiglio scomparso lunedì è il cardinale Velasio De Paolis, commissario papale per i Legionari di Cristo.
"Opacità e zone d'ombre nel suo operato di importante uomo di governo non possono essere taciute", afferma a "Vatican Insider" l'influente porporato di Curia."Credo che non avesse la statura dello statista. Occupa sicuramente un posto rilevante nella storia d'Italia ma ha sempre amministrato il potere cercando di aggiustare le cose senza un autentico progetto d'insieme per il Paese, senza una strategia complessiva"aggiunge il cardinale. I guai giudiziari furono solo un incidente di percorso, quindi."E' una figura che merita profondo rispetto e anche gratitudine per come ha retto la barra del governo in anni travagliati- sottolinea De Paolis-.Però è innegabile che Andreotti sia finito vittima della sua stessa politica, inficiata spesso da opacità e mancanza di chiarezza. Sicuramente Andreotti è stato uno dei più principali protagonisti della storia italiana dal dopoguerra in poi. Ma non mancano punti controversi".
Opposto il giudizio storico del ciellino Renato Farina su "Tempi" secondo cui "la scatola nera di Andreotti è stata il suo senso religioso, non posto accanto alla sua azione, ma come desiderio continuo, meticoloso, dentro ogni istante, di dialogare con il Mistero, anzi, lui direbbe con il buon Dio". In questo è stato esempio di politico cristiano: "Ricordo il comunicato scritto da don Giussani quando fu incriminato. Disse proprio che veniva messa sotto accusa la maniera cristiana di intendere la politica. Brandì le sue difese, mentre altri movimenti, dove pure Andreotti era cresciuto e aveva rivestito cariche nazionali, prudenti tacevano. Don Gius espose il proprio fianco senza esitazioni, perché Andreotti era Andreotti, ma anche perché Giulio era la concretezza della Chiesa cattolica, apostolica, romana. Avevano due temperamenti diversissimi". Infatti, don Giussani era travolgente, aveva nelle sue espressioni, anche quelle di tenerezza, una violenta concisione romantica. Andreotti era il minimalismo spirituale, nelle forme. La Messa vissuta senza tremori di abbandono. Gesù e i santi trattati nelle sue parole come fanno i bambini (di una volta…) con le figurine dei calciatori. Cose da album. Guai a chi gliele tocca però. Gli ultimi quindici anni viveva un entusiasmo nuovo partecipando alle Messe e ai sacramenti di Battesimo e Cresima di don Giacomo Tantardini".
Rievoca Farina:"A Rimini ogni anno conducevo un’intervista con lui. Due ore a fargli domande dinanzi al pubblico che più amava: quello del Meeting di Comunione e liberazione".Andreotti raccontò di sé così: «Non ho mai attraversato il buio della fede. Ho letto di certe notti tremende in alcune pagine di Madre Teresa di Calcutta e di Padre Pio. Io non ne ho avute, e devo per questo gratitudine a Dio. Ho sempre sentito una certa protezione. Sono un cattolico romano. Ho visto e frequentato le catacombe, i segni cristiani mi hanno colmato sin da bambino. Abito in corso Vittorio sul fiume e io dalla mia stanza da letto vedo le finestre del Papa, da un lato, e dall’altro Castel Sant’Angelo. So che il Papa alle 11 esatte dorme, perché si spegne la luce in Vaticano. Tutto questo finisce per essere un privilegio, mi rendo conto che sono stato formato alla memoria dei primi cristiani, a vedere come questo albero è nato su enormi sacrifici. Questo comporta grandissime responsabilità, però porta anche delle certezze. Come questo nel conto finale servirà non so. Ma ognuno di noi deve fare più affidamento sulla misericordia di Dio che sul proprio libretto di lavoro".
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