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giovedì 2 maggio 2013

Sincretismo alla bosiana


Bibbia e agnolotti il segreto di Enzo Bianchi

Il priore della comunità monastica di Bose Enzo Bianchi
IL PRIORE DELLA COMUNITÀ MONASTICA DI BOSE ENZO BIANCHI

Il Priore di Bose festeggia i settant’anni e si confessa. Oggi alle 18 a Torino al teatro Regio con Padre Lombardi e Massimo Cacciari la presentazione del volume "La Sapienza del cuore. Omaggio a Enzo Bianchi", Einaudi.

Quando il Priore di Bose riposa, come riposa? «Ai fornelli, sospeso fra ricette monferrine e cucina francese. Di primo, agnolotti alle tre carni. Di secondo, coq au vin». Tabacco? «Fumavo, e non poco. L’ultima sigaretta la spensi trent’anni fa». Letture? «Poesie. Ad appassionarmi, ora, sono i versi di Patrizia Valduga, un’autentica elegia d’amore». 


Settant’anni. Come il padre guardiano nella Forza del destino. Non è un caso, forse, che Enzo Bianchi festeggi domani il suo compleanno nel Foyer del Teatro Regio, uno sguardo, prima di entrarvi, all’elmo barocco di San Lorenzo e a Palazzo Madama, la gozzaniana casa dei secoli. Giungendo dal Canavese verde e un po’ eretico (tra monsignor Bettazzi, il filosofo Piero Martinetti, Adriana Zarri) dove respira - una testimonianza conciliare lunga mezzo secolo - la Comunità di Bose. 

Il Priore ha fortissimamente voluto - la sua orma alfieriana, astigiana, originario com’è di Castel Boglione - che l’oasi sulla Serra d’Ivrea nascesse e lievitasse. «Almeno due volte ho esercitato una forte violenza su me stesso. Abbandonando gli studi e la carriera universitaria offertami dal professor Abrate, così da tagliare i ponti alle mie spalle e non avere nostalgie; successivamente, diventato monaco, non accettando l’ordinazione a prete offertami dal cardinal Pellegrino - che per convincermi si affidò pure al vescovo ortodosso Emilianos, amico di entrambi - e successivamente dal mio vescovo di Biella. Volevo restare un semplice cristiano, laico come lo sono i monaci, come lo furono Pacomio, Benedetto, Francesco d’Assisi... Sapevo per esperienza che un semplice fedele laico non ha garanzie ecclesiastiche, ma volevo essere monaco, cioè inessenziale nella Chiesa, perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Mi affascinava il detto di sant’Antonio: “Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà”. Sì, in seguito è arrivata la laurea honoris causa e sono diventato, come si dice, “qualcuno”, ma malgrado me». 

Il monaco, un destino, una vocazione racchiusa nell’etimo, unico, il gaddiano chicco individuo «non appiccicato ai compagni», irriducibile alle consorterie. «Sì, quando posso torno a Castel Boglione, sul bric di Zaverio, la collina dove, ragazzo, ero solito rifugiarmi. C’era, c’è, una caverna scavata nel tufo. Mi accompagnavano i libri - i russi in particolare, da Dostoevskij, I fratelli Karamazov, a Tolstoj, nonché l’Imitazione di Cristo - e, talvolta, un’amica, Carla, l’amore giovanile, oppure il cavalletto e i colori per dipingere i miei quadri». 
È una corteccia il volto di Enzo Bianchi, un’icona affilata, tersa, scolpita. Una sentinella a cui domandare «a che punto è la notte?», ottenendo in risposta la Parola tornita nel silenzio, l’unguento che è, depurata di ogni incenso e di ogni accomodamento al qui e ora. Come avverte un «adagio» di Bose: «Sopra una quercia c’era un vecchio gufo: più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva». 

Settant’anni. Come scrutarli, Enzo Bianchi, al lume della Bibbia, la sua «ruminazione» quotidiana? «Aprendo il salmo 90: “La nostra vita arriva a settant’anni / a ottanta se ci sono le forze: / la maggior parte sono pena e fatica / passano presto e noi ci dileguiamo”. Il mestiere di vivere - com’è intonato il lessico di Pavese - diventa il mestiere di morire. Occorre disporsi all’esodo. Andarsene amando - non detestando - ciò che si lascia». Quale tesoro si scopre di possedere avvicinandosi l’addio? «La sapienza del cuore. O il cuore della sapienza. Là dove aureo è il distacco maturato dalla vita. La si guarda, la si soppesa, la si vaglia. Allo stesso modo che lo scultore di fronte alla statua». 
Risale all’8 dicembre 1965, quando termina il Vaticano II, l’iniziale bagliore di Bose. «Incubato nella periferia di Rouen, nella comunità dell’Abbé Pierre. Giorno dopo giorno raccattando ferri e stracci, imparando - accanto a ex legionari, alcolizzati, sbandati vari - che cosa significhi essere uomini: nella disgrazia, nel vizio, nella delinquenza. Decisi quindi di abbandonare l’impegno politico - militavo nella Dc, corrente fanfaniana: una carriera aperta - per la via evangelica monastica. Il mio parroco e un onorevole vennero a Bose per farmi recedere, invano». 

Il Concilio Vaticano III? «Non lo ritengo attuale. L’auspicio è che papa Francesco attui il suo progetto: modellare una Chiesa dei poveri e più povera. Solo se a immagine di Cristo la Chiesa potrà compiere ulteriori, radicali passi: per esempio verso la sinodalità collegiale». Cinquant’anni fa pulsava il Vaticano II: «Due i suoi architravi: la Parola di Dio e la Liturgia». Quale Parola la interpella maggiormente? «Il Vangelo di Marco e il Vangelo di Giovanni. Marco, ovvero l’umanità di Gesù. Giovanni: il Gesù vivente, operante oggi in me». 
La Parola. E le parole tra noi desuete. Inferno, diavolo, resurrezione. Inferno. «È l’assenza di Dio, la dostoevskijana impossibiltà di dare amore. Si dimentica facilmente che verrà il giudizio. Poi sarà dispensata, e magari in abbondanza, la misericordia. Ma un bilancio dell’esistenza come non contemplarlo? Per giustizia». Diavolo: «Lo sperimenta ciascuno di noi. Chi non avverte la tentazione di procurare il male?». Resurrezione, un orizzonte da tempo appannato nella Chiesa, se Quinzio dovrà immaginare, invocare, l’enciclica Resurrectio mortuorum: «La Resurrezione, perno del mio Credo. La certezza che ri-saremo, non smentendo la nostra umana identità, ancorché trasfigurata». 
A Bose è atteso Bartolomeo I, Patriarca di Costantinopoli. Enzo Bianchi è tra gli artefici dell’ecumenismo: «Confidavo di assistere all’unificazione delle Chiese cristiane. Una grazia che non mi toccherà in sorte. Il percorso si è complicato. Per gli ortodossi l’ostacolo principe è il papato. Per i protestanti, con il papato, l’etica. A metà Novecento, e anche dopo, era un idem sentire o quasi. Adesso vige una netta divaricazione di vedute, soprattutto sulla morale sessuale». 
L’ecumenismo. Barth affermava che l’unico problema ecumenico è il rapporto con gli ebrei. «Se non è impostato correttamente il rapporto con gli ebrei - specifica Enzo Bianchi - non si possono risolvere i problemi tra i cristiani. Sono debitore della mia sensibilità verso i figli di Sara e di Abramo alla donna che, morta mia madre, mi crebbe. Durante le funzioni pasquali, quando si pregava “pro perfidis Judaeis”, mi avvertiva: “Gli ebrei sono come noi, non sono cattivi”». 

Sensibilissimo alla questione ebraica, sulla scia del cardinal Bea, il cardinal Martini, tra gli «pneumatofori», gli ambasciatori dello Spirito, transitati a Bose. «Mi legava a Martini una solida amicizia. Differente, filiale, il rapporto con padre Pellegrino, che - non esita il Priore - colloco all’apice degli pneumatofori. Ci prese per mano, quando, agli esordi, la Comunità attirò non poche incomprensioni. Si rivelerà un vescovo straordinario, senza eguali nell’episcopato italiano odierno: di una statura da Padre della Chiesa». 

Enzo Bianchi offre in dono, con la Parola, il nocino, la marmellata di fichi, le pere caramellate, le Rose di Damasco. Come contraccambiare, come augurargli buon compleanno? Con un versetto di Matteo, per l’occasione - potenza dell’ermeneutica - adattato: «Settanta volte sette».
BRUNO QUARANTAMAGNANO (BIELLA)

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