I primi cento giorni di governo di Papa Francesco
Don Ariel S. Levi di Gualdo interpreta “l’enigma” di Papa Francesco alla luce della fiaba del “pifferaio magico”.
Don Ariel come interpreta i primi cento giorni di questo pontificato?
Per il momento vedo solo un Sommo Pontefice che ha conquistato la simpatia del popolo da un estremo all’altro della terra, inclusi molti di coloro che non conoscono neppure le prime cinque parole del Padre Nostro ma che affollano come mai accaduto prima la Piazza di San Pietro. Speriamo che questa sia l’occasione propizia per essere penetrati dalla grazia di Dio, imparando non solo le prime cinque, ma tutte le parole della preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato.
Sotto il precedente pontificato la stampa internazionale parlava ogni giorno di tutti i peggiori mali della Chiesa, veri o presunti. Poi, improvvisamente, dopo il conclave del marzo 2013, pare sia cominciata una dolce luna di miele. Tutti i maggiori problemi sembrano essere scomparsi, o almeno non se ne parla più. Dal momento che questa luna di miele non è ancora finita, sebbene siano già trascorsi i primi cento giorni, non si può fare un’analisi, perché non ne abbiamo elementi, pertanto bisogna attendere ancora.
Secondo lei, in questi primi cento giorni di pontificato, quali sono state le azioni più importanti del Santo Padre Francesco?
Abbiamo notato da subito che il Santo Padre parla spesso di povertà e di poveri. Queste due parole, nel mondo ecclesiale e nel mondo secolare, hanno però significati completamente diversi, a volte anche in contrasto tra di loro, basti pensare in che modo diametralmente opposto il concetto di povertà viene trattato dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla ideologia marxista. Per esempio: nel corso dell’ultimo mezzo secolo, nei paesi latino-americani, alcuni teologi non hanno usato il povero o il problema della povertà per scopi sempre evangelici. Il Santo Padre è molto sensibile al problema dei poveri e della povertà. Questo è molto bello, soprattutto profondamente cristiano, perché investe le più intime essenze della nostra dottrina sociale. Per questo molti vescovi, sacerdoti e teologi sono in attesa che il Santo Padre, con un linguaggio tutto quanto teologico, ci doni al più presto una bella enciclica su questo tema a lui così caro, spiegando che cosa significano veramente il povero e la povertà secondo la teologia e la dottrina sociale della Chiesa, il tutto alla luce del suo alto magistero pontificio.
Lei pensa che la volontà del Santo Padre di riformare la curia romana è qualcosa di raggiungibile in un medio periodo? E quali sarebbero, le principali sfide?
La riforma della Curia Romana è una necessità urgente da decenni. Per fare una vera riforma è però necessario in primo luogo allontanare molte persone non idonee che in essa sopravvivono da tre pontificati, con conseguenze spesso gravi per la Chiesa. Nessuno ha il coraggio di dirlo, se però mi passate la frase lo dico io: pochi mesi fa abbiamo assistito all’evento storico e per certi versi traumatico della rinuncia di un pontefice al ministero petrino. Il Romano Pontefice se ne è andato, mentre molti fautori e diretti responsabili dell’attuale situazione ecclesiale sono sempre tutti ai loro posti. Cosa questa sulla quale meriterebbe davvero riflettere in modo grave. In ogni caso, per la riforma della curia è necessario in primo luogo pensare con una antica psicologia romana. Non a caso si chiama: curia romana. Perché Roma non è solo una città, né tanto meno una qualsiasi città del mondo, ma il centro della universalità della Chiesa. Questa universalità non può essere trasferita in altro dove e in altro contesto socio-culturale.
Il Santo Padre Francesco, in un colloquio privato reso poi pubblico dagli interlocutori ha fatto riferimento alla esistenza di una lobby gay dentro il Vaticano. Quale è la sua personale posizione su questo delicato problema?
Il suo predecessore Benedetto XVI ha parlato per anni del dramma della “sporcizia nella Chiesa”, a partire dal 2005, quando pochi giorni prima della sua elezione alla Cattedra di Pietro fece un memorabile commento alla IX stazione della Via Crucis, che nel corso dei suoi anni di pontificato ha variamente riproposto, spesso in toni allarmati e drammatici. Non occorre certo andare chissà dove in giro per il mondo, basta vedere cosa accade in certi collegi sacerdotali internazionali e case di formazione al sacerdozio che si trovano proprio nella Diocesi di Roma, nelle quali sono presenti — come peraltro più volte pubblicamente denunciato — sacerdoti e seminaristi di evidenti tendenze omosessuali che si muovono e che operano indisturbati direttamente sotto le finestre del Vescovo di Roma. Dunque adesso dobbiamo aspettarci una azione precisa per la protezione della Chiesa da questa lobby forte e pericolosa, alla quale nel 2011 ho dedicato l’intero capitolo secondo di un mio libro [N.d.R. E Satana si fece Trino, Bonanno Editore]. Non vedo l’ora di vedere l’azione e soprattutto di parteciparvi come fedele servitore della Chiesa. Quando infatti si percepisce e si individua il male, nostro compito è sconfiggerlo per la protezione della Chiesa, non certo lasciarlo lì dove si trova, semmai per equilibri di politica interna e di buona diplomazia.
Come definirebbe il Santo Padre Francesco?
Credo che per adesso il Sommo Pontefice sfugga alle definizioni. Dovendolo però in qualche modo definire, lo definirei un enigma. Mi spiego: a parte alcuni suoi pensieri ricorrenti, come i poveri e la povertà cui accennavo prima, nessuno ha ancora capito ciò che veramente pensa, di conseguenza cosa intende fare e in che modo intende farlo. Tutto questo è profondamente destabilizzante e forse tutt’altro che casuale, bensì voluto, sicuramente in vista di un supremo bene che al momento non possiamo neppure immaginare.
Per la mia formazione al sacerdozio ho avuto a che fare coi gesuiti della vecchia scuola della benemerita Compagnia di Gesù, alla quale tanto la Chiesa deve in somma gratitudine. Uomini del tutto diversi da alcuni attuali gesuiti, che sembrano sempre più somigliare alla sincretistica Compagnia delle Indie.
Una particolare caratteristica che ho riscontrato nei vecchi gesuiti formati prima degli anni Settanta o comunque miracolosamente non toccati da ciò che in quegli anni accadde anche nella Compagnia di Gesù, è che sono persone accomunate da una caratteristica: puoi vivere anche per anni a contatto con loro, parlare con loro per ore e ore, sino ad accorgerti un bel giorno di non essere mai riuscito a capire quel che pensavano veramente. Stile questo particolarmente destabilizzante, casomai fosse calato, come io tendo a pensare, nel governo di questo Pontefice. E difatti, tutto quanto, per adesso è ancora paralizzato, sia fuori sia dentro la curia romana. Carrieristi, arrivisti e sporcaccioni vari, non è che siano spariti dalla Chiesa dall’oggi al domani; non è che siano usciti di scena dopo la rinuncia di Benedetto XVI, che per sua stessa pubblica ammissione si è dichiarato non più in grado, per età e salute, di far fronte a certe situazioni di gravità a tratti inaudita. Oggi questi perniciosi soggetti non sanno che cosa fare e soprattutto non sanno come scalpitare e muoversi per arraffare tutto il possibile, perché il Sommo Pontefice Francesco è appunto enigmatico e come tale destabilizzante. Forse, il Sommo Pontefice Francesco, sta facendo il gioco del pifferaio di Hamelin. Questa celebre fiaba è nota ma vale la pena riassumerla perché sta al centro di ciò che penso al momento su questi primi cento giorni di pontificato: un uomo con un piffero si presenta nella città e promette di disinfestarla. Appena il pifferaio inizia a suonare, tutti i topi restano incantati dalla sua musica, escono allo scoperto dalle loro tane e si mettono a seguirlo. Il pifferaio li conduce fino alle acque del Weser dove i topi muoiono annegati gettandosi uno dietro l’altro in questo fiume.
Ecco, detto questo non ho altro da aggiungere. Nel frattempo rimango in fiduciosa e operosa osservazione sopra al ponte, col mio amato Pontifex Maximus, la pietra sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa.
E chi vivrà, vedrà …
Per la mia formazione al sacerdozio ho avuto a che fare coi gesuiti della vecchia scuola della benemerita Compagnia di Gesù, alla quale tanto la Chiesa deve in somma gratitudine. Uomini del tutto diversi da alcuni attuali gesuiti, che sembrano sempre più somigliare alla sincretistica Compagnia delle Indie.
Una particolare caratteristica che ho riscontrato nei vecchi gesuiti formati prima degli anni Settanta o comunque miracolosamente non toccati da ciò che in quegli anni accadde anche nella Compagnia di Gesù, è che sono persone accomunate da una caratteristica: puoi vivere anche per anni a contatto con loro, parlare con loro per ore e ore, sino ad accorgerti un bel giorno di non essere mai riuscito a capire quel che pensavano veramente. Stile questo particolarmente destabilizzante, casomai fosse calato, come io tendo a pensare, nel governo di questo Pontefice. E difatti, tutto quanto, per adesso è ancora paralizzato, sia fuori sia dentro la curia romana. Carrieristi, arrivisti e sporcaccioni vari, non è che siano spariti dalla Chiesa dall’oggi al domani; non è che siano usciti di scena dopo la rinuncia di Benedetto XVI, che per sua stessa pubblica ammissione si è dichiarato non più in grado, per età e salute, di far fronte a certe situazioni di gravità a tratti inaudita. Oggi questi perniciosi soggetti non sanno che cosa fare e soprattutto non sanno come scalpitare e muoversi per arraffare tutto il possibile, perché il Sommo Pontefice Francesco è appunto enigmatico e come tale destabilizzante. Forse, il Sommo Pontefice Francesco, sta facendo il gioco del pifferaio di Hamelin. Questa celebre fiaba è nota ma vale la pena riassumerla perché sta al centro di ciò che penso al momento su questi primi cento giorni di pontificato: un uomo con un piffero si presenta nella città e promette di disinfestarla. Appena il pifferaio inizia a suonare, tutti i topi restano incantati dalla sua musica, escono allo scoperto dalle loro tane e si mettono a seguirlo. Il pifferaio li conduce fino alle acque del Weser dove i topi muoiono annegati gettandosi uno dietro l’altro in questo fiume.
Ecco, detto questo non ho altro da aggiungere. Nel frattempo rimango in fiduciosa e operosa osservazione sopra al ponte, col mio amato Pontifex Maximus, la pietra sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa.
E chi vivrà, vedrà …
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Ariel Stefano Levi di Gualdo nasce nella Maremma Toscana il 19.08.1963. È consacrato sacerdote a Roma dove risiede e dove dirige la Collana teologica Fides Quaerens Intellectum. Svolge il ministero sacerdotale principalmente come confessore, direttore spirituale e predicatore. È autore di vari saggi editi dalla Casa Editrice Bonanno e di diversi articoli pubblicati su varie riviste teologiche internazionali italiane e straniere.
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