IL FILOSOFO MARXISTA E IL PAPA POP
Nel trionfo dell’esistente, della piattezza piccolo borghese,
dell’apologia dei peccatucci di provincia, del perdono totale, un
‘condono tombale’ come dice il fisco, che cancella il senso del peccato
(Simenon in confronto è un profondo teologo morale), della misericordia
ridotta a sentimentalismo (attraverso un’intervista, Dio Padre diventa
un patetico Dio Nonna), mentre si vuole trasformare Roma in una
periferia del mondo mercificato, conviene allontanarsi per un po’ da una
discussione così degradata, cercare un riparo dal vocio deprimente (c’è
chi ha scambiato la missione evangelica con la mania aziendalistica
dell’audience).
Roma è la capitale della forma, la Chiesa di Roma mette i punti fermi
attraverso il dogma; al contrario, certi personaggi paiono conoscere
soltanto l’emotività, il sentimento cieco, il buonsenso curialesco, il
vezzo appunto in-formale, perciò non è fatuo andare a curiosare tra i
vecchi nemici del mondo contemporaneo, tra chi nutre ancora rispetto per
l’oggettività, tra gli ostinati non-riconciliati, tra coloro cioè che
non riconoscono la legittimità di un simile universo ridicolo: un colto
pensatore marxista può risultare più interessante di un papa pop (come
lo chiama una nostra amica), che ogni giorno fa da eco alle vacuità
mondane.
Il nostro marxista, interessato all’«antimondo» e all’«antistoria», ci
parla di uno spazio ‘profetico’ del cattolicesimo. Per lui la Chiesa di
Roma assolve una importantissima funzione: quella «di trattenere la
modernità, di ritardare l’accelerazione dello sviluppo» (Intervista a Tronti, Quel circolo di sacro e secolare,
«il manifesto», 29 aprile 2005). Antropologicamente ormai si pone un
problema molto serio a livello planetario – sostiene il filosofo
materialista –, vale a dire il contrasto fra una accelerazione sempre
più vertiginosa «del tempo nella produzione, nei consumi, nelle
comunicazioni, nell’uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che
non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le
conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa:
assunzione superficiale dell’innovazione, accettazione leggera di tutto
quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della
ricchezza». Ora, nell’«acquisizione volgare del benessere» non c’è forse
quel riprendere i peggiori vizi del liberalismo? Non è il mercato e la
sua unica legge – senza più interrogarsi su amore e desiderio (e magari
anche sui feti da eliminare) – a imporsi anche nel più intimo della
persona? L’«accettazione leggera» di ogni ‘perversione’, dimenticando il
senso del peccato, già assolto in una specie di tutto compreso, non è
la più servile remissività al mercato?
Il pensatore marxista ritiene che spetterebbe anzitutto alla sua parte
politica di «farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al
seguito della corsa», invece cioè di rincorrere sempre e comunque il
nuovo che avanza, senza mai preoccuparsi di «trattenere» qualcosa, di
«ritardare» per l’appunto «l’accelerazione dello sviluppo» su tutti i
piani della vita storica individuale e collettiva». A maggior ragione,
aggiungiamo noi, la Chiesa di Roma dovrebbe ben guardarsi dal
partecipare alla corsa all’aggiornamento, mostrando in tal modo di
vergognarsi di quello scarto che è la sua gloria.
«Il religioso – dice il filosofo – è un bisogno umano, legato alla
imperfezione, alla fragilità e transitorietà di noi esseri terreni, è
una dimensione eterna con cui bisogna fare i conti» (Intervista a
Mario Tronti, in «Il giornale di filosofia», 2 agosto 2008). Invece i
cattolici progressisti vogliono costantemente fare i conti con quanto
prescrive il mercato culturale, come se l’eternità fosse in continuo
ritardo sulle voghe passeggere, rovesciando dunque l’ordine in una serie
di paradossi grotteschi. Il marxista arriva allora a considerare la
Chiesa post-conciliare come una istituzione che cede costantemente alla
modernità sua nemica, che lascia svuotare la fede dalla tecnologia
massmediatica.
È strano dover leggere proprio sull’«Unità» delle sagge riflessioni come
queste: «La Chiesa sente su di sé il morso dei tempi nuovi [..] Il
Concilio in fondo è il nuovo episodio di un antico rapporto,
controverso: quello tra Chiesa e modernità. Una storia lunga, con luci e
ombre, più ombre che luci. Lo stesso Novecento, il secolo della
modernità in crisi, ne aveva dato drammatica rappresentazione. Il
contesto però a quel punto è inedito. Il Moderno sta arrivando in mezzo
al popolo. […] Nel Concilio la lotta fra tradizionalisti e innovatori fu
frontale, con la vittoria, bisogna dire, di questi ultimi, come si può
vedere dalla maggior parte dei documenti conciliari. Semmai, le
mediazioni al ribasso vennero nel dopo-Concilio. […] Il problema di
oggi, a cinquant’anni di distanza, è valutarne gli esiti e darne un
giudizio disincantato. Difficile dirne in poche battute. La mia
impressione è che ci fu un di più di subalternità rispetto all’onda
modernizzante e secolarizzante allora potentemente in atto, e da allora
poi dilagante in forme sempre più antropologicamente devastanti».
Devastanti più che mai gli esiti se il «vescovo di Roma» agita i temi
imposti dalla rozzezza dei massmedia.
Così «l’aderire passivamente a una pura esigenza di aggiornamento
dell’istituzione» pare correre dietro «non alla modernità, ma a quella
sua deriva che è venuta avanti come cosiddetto postmoderno». E «chi non
coglie nel Moderno il segno tragico, che lo attraversa, sempre, chi ci
vede soltanto uno strumento di sviluppo per la storia della salvezza,
chi non ne riconosce le aporie, le contraddizioni drammatiche, fino a
capire come nel progresso si nasconda il ritorno del sempre eguale, non
vede lontano, si fa prigioniero di un presente effimero, e innesca senza
volerlo ingovernabili percorsi di decadenza. È accaduto in vari campi.
Il campo ecclesiale non ne è rimasto immune».
Non si tratta solo dell’onnipotenza del mercato, ci sono pure le
conseguenze di questa sugli umani: «ma – ecco un grande tema culturale
di oggi – viene riprodotta in maniera allargata da un vecchio apparato
ideologico radicaleggiante, falsamente libertario, di stampo
neo-borghese progressista, che separa libertà da responsabilità e così
crea guasti forse irrimediabili soprattutto nella formazione umana delle
giovani generazioni». Benedetto XVI appariva all’autore dell’articolo
la voce di colui che, «per chi sa intendere, detta, a volte contro la
sua Chiesa, un messaggio teologico di rigore etico, di cui oggi si sente
gran bisogno, accanto e ben oltre il rigore economico, consiglia uno
stile di austerità nei comportamenti, individuali e sociali, sfugge
opportunamente nei linguaggi a ogni posa da grande comunicatore» (M.
Tronti, Venne la Riforma. Ma restano difficili i conti col Moderno,
«l’Unità», 7 ottobre 2012). Ovvero, tutte quelle forme che sono ora
dissolte dall’uragano argentino abbattutosi nella «vigna del Signore»..
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