ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 24 ottobre 2013

Che sia effetto del palazzo ex S.U.?

Comunione? No

La coscienza individuale ha dei limiti. Misericordia? Mai senza giustizia. Eruzione di dottrina in vaticano. Parla il Sant’Uffizio

L’ospedale da campo di Francesco che cura le ferite e riscalda il cuore degli uomini viene investito, d’improvviso, da una ventata di dottrina soffiata direttamente dalle stanze dell’ex Sant’Uffizio.
Al kairós della misericordia di Bergoglio servono punti fermi, robustezza teologico-sacramentaria, almeno a leggere il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, monsignor Gerhard Ludwig Müller. Il tema è quello delicato dei divorziati risposati, se ammetterli ai sacramenti, in particolare all’eucaristia. Peccatori che chiedono la seconda possibilità, previo pentimento. Il Papa gesuita che fa proprio il senso della misura pragmatico del Samaritano intento a guarire l’anima del suo prossimo, spiega che “la chiesa è madre, che deve andare a curare i feriti con misericordia”. Dopotutto,  “il Signore non si stanca di perdonare”, di lui non si deve “avere timore, Egli sempre ci perdona, è pura misericordia”, “la misericordia di Gesù non è solo sentimento, anzi, è una forza che dà vita, che risuscita l’uomo”. E poi, Gesù è il nostro “avvocato che ci difende sempre, anche da noi stessi e dal nostro peccato”, diceva in uno dei suoi primi Angelus, appena dopo Pasqua. Basta chiedergli perdono, insomma.
Ma anche la misericordia è condizionata, non toglie il peccato, chiarisce Müller. Il perdono esige il pentimento. “Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene”, dice il custode dell’ortodossia cattolica. Non si può banalizzare la misericordia, darne un’interpretazione errata: “Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”. E comunque, chiarisce Müller, “per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile”. Certo, bisogna lavorare di pastorale, bisogna accompagnare il cammino di queste persone “come una comunità di guarigione e di salvezza”. Solo dopo può arrivare il perdono per il peccato commesso.

Matrimonio vittima della contemporaneità
Parla di guarigione, il prefetto dell’ex Sant’Uffizio, rimarcando che il matrimonio, valore non negoziabile derubricato a entità minore da un pezzo, spesso secolarizzato e vittima della “mentalità contemporanea” che “influenza molti cristiani”, rimane indissolubile anche nella chiesa misericordiosa di Francesco. Nonostante le aperture e gli spiragli che avevano fatto già parlare di rivoluzione epocale.
A creare qualche aspettativa, per la verità, c’aveva pensato anche il Papa, che parlando in aereo, a braccio e a migliaia di metri sopra la terraferma, lo scorso luglio dopo la settimana trascorsa in Brasile per la Giornata mondiale della gioventù, citava l’esempio della chiesa ortodossa, dove ai divorziati risposati viene data “una seconda possibilità”, permettendo l’accostamento alla comunione. “Loro seguono la teologia dell’economia, come la chiamano. Credo che questo problema si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale”, precisava Bergoglio, facendo già intendere che quello sarebbe stato il tema del Sinodo straordinario dei vescovi del 2014.
Ma dal custode della fede arriva una chiusura anche a questa possibilità: la prassi ammesa dalle chiese ortodosse “non è coerente con la volontà di Dio, chiaramente espressa dalle parole di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio”. Tradotto, niente comunione neppure se c’è pentimento. La Tradizione, dai Padri della chiesa in poi, fino al Concilio con la costituzione pastorale “Gaudium et Spes”, parla chiaro: il matrimonio è completa unione corporale e spirituale tra uomo e donna e l’istituzione stabile che viene a fondarsi non è dipendente dall’arbitrio dell’uomo. Violare il patto, rompere il sacramento, significa rifiutare la grazia divina. Commettere peccato. Frasi che si discostano da quanto Papa Francesco diceva solo tre mesi fa, una chiusura che arriva direttamente dal custode della fede cattolica, da quel Gerhard Ludwig Müller che certo non può essere tacciato di antibergoglismo. Dopotutto, proprio lui, l’ex vescovo di Ratisbona, curatore dell’opera omnia teologica di Joseph Ratzinger e da quest’ultimo chiamato a Roma poco più di un anno fa per diventare il suo secondo successore al Sant’Uffizio, era diventato il bersaglio prediletto di tradizionalisti, nostalgici e conservatori per le aperture alla Teologia della liberazione. E’ stato Müller “l’ingenuo” (definizione reiterata del cardinale arcivescovo di Lima, Juan Luis Cipriani) a portare da Francesco Gustavo Gutiérrez, uno dei padri della teologia nata in America latina processata e condannata – almeno in parte – a suo tempo dall’allora cardinale Ratzinger. E sempre Müller – che sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano ha pubblicato un articolo su memoria e identità nella visione cristiana della storia – è stato uno dei primi uomini della curia romana sottoposta all’opera di ristrutturazione da parte degli otto cardinali consultori a essere confermato (non più a tempo, in attesa che si provveda altrimenti) dal Papa. Ed è in tale veste di custode dell’ortodossia che il prefetto vuole fare chiarezza su ciò che definisce “concetto problematico di coscienza”. In una delle interviste concesse negli ultimi tempi, Francesco diceva che “ascoltare e obbedire alla coscienza significa decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”. Parole che, messe in relazione con la questione dei divorziati e dei sacramenti, sembravano significare un lasciapassare alla comunione. Basta ascoltare la coscienza, affidarsi al suo primato, tanto in soccorso arriva la casuistica a dirimere il dubbio se sia giusto seguire la coscienza o la norma morale.
Nel suo intervento pubblicato sull’Osservatore Romano – che il giornale della Santa Sede ha presentato come contributo in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia che si aprirà tra un anno – Müller chiarisce come stanno le cose: “Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di coscienza, è già stato respinto” quasi vent’anni fa dalla congregazione per la Dottrina della fede.
In ogni caso, precisa il titolare dell’ex Sant’Uffizio, “i fedeli sono tenuti a verificare sempre nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato grave non confessato sempre si oppone”. Bene ascoltare la coscienza, interrogarsi in profondità, confessarsi. Ma alla fine, l’ultima parola non è né può essere la loro: “Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale”. E questo perché il matrimonio non è solo affare tra uomo e donna e tra essi e Dio, ma anche realtà viva della chiesa. “E’ un sacramento sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la chiesa in cui egli è incorporato mediante la fede e il battesimo, è tenuta a decidere”.

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