ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 5 ottobre 2013

Sensus Ecclesiae

 o conformismo ideologico?


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1. Come è possibile che un Istituto religioso di diritto pontificio debba fare un “rinnovato cammino di ecclesialità”? Analogamente, cosa significa per un Istituto religioso (regolarmente approvato dalla Santa Sede) correre il rischio della “autoreferenzialità”? Il caso del Commissariamento dei Francescani dell’Immacolata ha posto, tra gli altri gravi quesiti di natura teologica e giuridica, anche il problema del significato dell’ecclesialità. Il che, come è evidente, andando ben oltre la vicenda particolare, presenta una questione di rilievo universale.

Si può essere membri della Chiesa e avere bisogno di acquisire l’ecclesialità? Qual è il metro del “sensus Ecclesiae”? Insomma, l’ecclesialità riguarda la realtà o la percezione? Si riferisce all’essere o all’apparire (a sé o ad altri)? Configura una essenza o una tipologia? È un dato intrinseco o una situazione estrinseca? Appartiene al permanere della Chiesa o alla mutevolezza della prassi prevalente (invalsa o imposta)? Afferisce all’oggettività teologale, sacramentale e disciplinare, oppure si riferisce al soggettivismo di opinioni e di atteggiamenti (ecclesiastici)? Come si vede, si tratta di interrogativi essenziali. Di fronte ad essi le espressioni allusive, come le formule retoriche non costituiscono alcuna risposta. Come in ogni campo di ricerca, il vuoto lasciato dai concetti non può essere colmato dall’ossequio al “si dice”.
Ora, non è arduo rilevare che l’ecclesialità può avere molteplici accezioni. Senza la loro chiarificazione, l’equivoco resta insormontabile. E con l’equivoco, la tendenziosità (di illazioni e di accuse) e la superficialità (di attribuzioni e di inclusioni). A ben vedere, l’ecclesialità può essere intesa in una triplice accezione: ovvero in senso teologico, in senso sociologico ed in senso ideologico.
2. Dal punto di vista teologico l’ecclesialità è un principio ontologico. Si riferisce alla realtà della Chiesa e di quanti vi appartengono. A rigore, l’ecclesialità non può essere se non l’essenza: ciò per cui la Chiesa è Chiesa. Ed analogamente, ciò per cui chi vi appartiene, vi appartiene. In questo senso, l’ecclesialità riguarda ciò che è sostanziale, non ciò che è accidentale. Ciò che è essenziale, non ciò che è marginale. Ciò che è permanente, non ciò che è provvisorio.
Al riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica (del 1992) indica i legami visibili di comunione nella Chiesa (e con la Chiesa) nella “professione di una sola fede ricevuta dagli Apostoli”, nella “celebrazione comune del culto divino, soprattutto dei sacramenti”; e nella “successione apostolica mediante il sacramento dell’Ordine” (§ 815). Il medesimo Catechismo ricorda che si diviene membri della Chiesa (“Popolo di Dio”) “mediante la fede in Cristo e il Battesimo” (§ 782). Il Catechismo Tridentino (pubblicato da san Pio V) insegna che “nella Chiesa militante vi sono due specie di uomini: i buoni e i cattivi. I cattivi partecipano dei medesimi sacramenti e professano la stessa fede dei buoni, ma ne differiscono per la vita e i costumi. Buoni sono quelli i quali sono congiunti e stretti tra loro non solo dalla professione della fede e dalla comunione dei sacramenti, ma anche dal soffio della grazia e dal vincolo della carità” (§ 108).
L’ecclesialità, per se stessa – cioè teologicamente – è in dipendenza di tali condizioni. Solo in loro assenza, essa è assente. Si tratta di condizioni obiettive. Nel loro rilievo esterno, verificabili. In ogni caso, esse o si danno o non si danno. Come rispetto ad ogni realtà e ad ogni principio essenziale (quindi necessario affinché qualcosa sia quello che è), l’ecclesialità è un dato intrinseco (alla Chiesa ed ai fedeli), non estrinseco. Non dipende dall’arbitrio o dall’opinione di chicchessia. Come tale vale per essa il principio di non contraddizione. In definitiva, o la Chiesa è se stessa, oppure non lo è. O si è nella Chiesa o non lo si è. Se non lo si è, vi deve essere un motivo obiettivo (non una tendenza non accolta, o un desiderio non adempiuto) che lo escluda. Chi pone in questione tale motivo (di chiunque si tratti) ha il dovere di dichiarare di quale si tratti.
Se l’ecclesialità di un Istituto religioso non è garantita dall’approvazione delle sue Costituzioni o della sua Regola, da che cosa dovrà esserlo? Se l’approvazione è anche una convalida obiettiva del carisma del Fondatore, come può essere considerato una colpa (di “autoreferenzialità”) il conformarsi ad esso? Considerata in se stessa, quindi, l’ecclesialità o si dà o non si dà. Tertium non datur. Non c’è alcun cammino da fare. Al di là dell’essere, c’è solo il non essere. Un cammino presuppone una meta non ancora raggiunta. Chi è in cammino è ancora estraneo al conseguimento dell’obiettivo. In questo caso la distanza da colmare non sarebbe altro che l’esclusione da registrare. Su quali basi? Con quale metro? Dell’ortodossia o del potere? Della comunione sacramentale o dell’imposizione prassistica? Della disciplina o del conformismo?
3. Se invece l’ecclesialità si intende in senso sociologico, allora essa corrisponde ad una tipificazione di osservazioni empiriche, sulla base di una teoria (quale che sia). In questo caso, quello che rileva non è la natura delle cose, ma la rappresentazione più diffusa. Quello che risulta decisivo non è la realtà (della Chiesa), ma diviene l’immagine che deriva dalla ricorrenza di determinati comportamenti. Quello che si afferma non è ciò che è essenziale, ma ciò che è percepito come distintivo (di un gruppo). Ci si riferisce a ciò che accade per lo più, non a ciò che vale (e deve valere) per sempre. Si fa appello all’opinione (tale da essere contata), non alla valutazione (che, per se stessa, va pesata). Conta il «qui ed ora», non l’ubique et semper (in cui san Vincenzo di Lerino, indica due criteri per riconoscere le verità di fede). Così ciò che è attuale diventa il criterio di ciò che vale (per un certo gruppo). Come ogni identità sociologica, anche questa pretende di essere autofondante. Sicché è incommensurabile in termini obiettivi ed arbitraria in termini assiologici.
D’altra parte, se l’ecclesialità corrisponde, sociologicamente, al sentire prevalente tra gli ecclesiastici (e tra i fedeli) in un certo momento, occorrerebbe concludere che nel contesto della crisi ariana, l’ecclesialità era appannaggio degli eretici che negavano la divinità di Cristo, vista la diffusione che conseguirono. Bisognerebbe ammettere che al tempo della “riforma gregoriana” l’ecclesialità spettava al clero ed ai vescovi, simoniaci e concubinari. E non al gruppo, meno numeroso, dei santi riformatori. Ci sarebbe da ricavare che allorquando l’empirismo e il razionalismo si era diffuso nelle Scuole cattoliche, l’ecclesialità era da attribuirsi alla confusione dottrinale (ampiamente diffusa) e non ai pochi centri di studio che diedero vita (col decisivo sostegno di Leone XIII) alla «rinascita» della filosofia cristiana. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Insomma, come si vede, l’ecclesialità sociologica è un criterio di appartenenza del tutto estrinseco ed effimero. Se viene assunto come principio, per se stesso, non solo risulta vuoto di contenuto e perciò fallace, ma porterebbe sovente a capovolgere il giudizio di valore, a favore delle deviazioni e degli scandali.
4. Infine, l’ecclesialità può essere intesa in senso ideologico (in modo più o meno implicito). Come in ogni opzione ideologica, ciò si verifica allorché la prassi dà origine alla teoria, si identifica con essa e fa della prassi stessa il mezzo e il fine, insieme. In questo caso, come ogni paradigma ideologico, l’ecclesiasialità si identifica con un progetto da attuare, il quale viene assunto come unico giudice di se medesimo. L’ideologia, infatti, è un pensiero strumentale, che fa della propria parzialità la misura della totalità. È un pensiero che sostituisce l’opinione alla verità, quindi l’opzione al bene. Opinione ed opzione fatte misure di se stesse, quindi tali da escludere ogni misura.
Il mutamento della teologia in ideologia avviene obiettivamente (prescindendo da ogni considerazione relativa alle intenzioni) allorché si adotta il primato della prassi (quindi, del risultato) e la conseguente immanentizzazione della fede. Allorché il naturalismo (metodologico e prassiologico) prende il posto della vita soprannaturale, il progressismo sostituisce l’escatologia, l’attivismo subentra all’ascesi. Allora la prassi (pastorale, organizzativa, comunicativa, diplomatica o mediatica, che sia) pretende di essere il criterio per intendere la Rivelazione. Così i gesti si sostituiscono ai principi. Le tendenze operative vanificano l’oggettività della fede, della morale, della disciplina. Anzi, pretendono di esserne la misura.
Se l’ecclesialità si identifica con un progetto (di “nuova Chiesa” o di “nuovo Cristianesimo”) che pretende di farsi prassi – ovvero con una pretesa di futuro che si identifica col mito dell’irreversibilità della storia – allora occorre rilevare che questo è precisamente il criterio di ecclesialità di tutti i gruppi (semanticamente, settari) che hanno preteso di identificare la Chiesa con il loro opinare ed il loro operare, dai montanisti, ai donatisti, ai dolciniani, ai modernisti. In questo caso la condivisione di un nuovo senso della Chiesa, costituisce il criterio di ecclesialità. Solo chi lo condivide vi appartiene. E nessun altro. Poco importa il progetto dichiarato dirimente. Quale che sia la dilatazione del consenso.
È chiaro che se l’ecclesialità assume i connotati dell’ideologia (che erge a spartiacque un evento, una tesi, o un atteggiamento) essa può riempirsi dei contenuti più diversi ed arbitrari. Ma certamente abbandona il campo del riferimento al Fondatore della Chiesa, per optare per una sua “rifondazione”, o per fare di questa il criterio di Quello.
Solo se l’ecclesialità è intesa in senso sociologico o in senso ideologico è (effettivamente) possibile un “cammino di ecclesialità”. Allora, infatti, l’approssimazione data dal “cammino” sarebbe tale da assimilare ad una (prevalente) identità sociologica o ad una (nuova) prassi teorizzata. A cui si può aderire più o meno ampiamente, sotto il profilo della condivisione soggettiva (delle mode o delle pratiche, delle opinioni o delle teorie).

5. A queste distinzioni potrebbe essere aggiunto – stando a talune tesi – un ulteriore significato dell’ecclesialità: quello “ermeneutico”. In questo caso l’ecclesialità dipenderebbe da una particolare “ermeneutica”. Una certa ermeneutica assicurerebbe l’ecclesialità. Una diversa ermeneutica la escluderebbe. In termini immediati l’oggetto dell’ermeneutica sarebbe il Concilio Vaticano II. Ma è ovvio che il principio, per se stesso, è suscettibile di essere esteso a qualsivoglia dato o fatto. Allora, il criterio equivarrebbe tanto ad una prassi (quella ermeneutica), da praticare, quanto ad uno schema (quello interpretativo), da assumere. Non al Depositum fidei, non ai principi (naturali e soprannaturali) dell’agire.
Insomma, il criterio risulterebbe un a priori (metodologico), assunto quale filtro conoscitivo, rispetto al quale ogni conclusione non varrebbe per se stessa, ma come risultato (ermeneutico). Si darebbe un metodo, che subordinerebbe a sé qualsiasi contenuto. In questo caso l’ortodossia come l’eresia non sarebbe una questione di verità (accolta o rigettata), ma l’effetto di una certa ermeneutica.
L’operazione ermeneutica, a sua volta, potrebbe essere manchevole per eccesso o per difetto (come per rigidità o per variabilità). Gli errori nel campo della fede, non avrebbero come riferimento le verità rivelate, ma l’attitudine ermeneutica, suscettibile di deviazioni su opposti crinali. La collocazione degli errori sarebbe allora topografica, piuttosto che teologica, tendenziale piuttosto che dottrinale. In ogni caso, il «dogma fondamentale» (il dogma che giudica tutti dogmi) sarebbe quello che definisce l’ermeneutica. E la colpa più grave sarebbe il «delitto di lesa ermeneutica». Dogma e delitto, ovviamente, inesistenti.
Ora, se l’ermeneutica viene assunta come criterio di ecclesialità, non si può fare a meno di chiedere quale significato si attribuisca all’ermeneutica stessa. Si tratta dell’ermeneutica nella prospettiva di Schleiermacher o di Nietzsche? Di Heidegger o di Gadamer? D’altra parte, se l’ecclesialità dipendesse dall’ermeneutica del Vaticano II, occorrerebbe osservare che ci si troverebbe nella singolare situazione, in cui sarebbe possibile una storia (degli avvenimenti) ed una esegesi (dei documenti) di tutti i Concili, fuorché del Vaticano II. Solo per questo Concilio sarebbe necessario far rifluire ogni indagine in una ermeneutica prestabilita, pena addirittura l’illegittimità (ecclesiale) dello studio.
In questo caso il “cammino di ecclesialità” coinciderebbe con un “cammino ermeneutico”. Dunque di progressiva ermeneutizzazione della fede. Dove l’ermeneutica sarebbe data, il cammino obbligato, il risultato – l’ecclesialità – da trovare (di volta in volta). Come in ogni apriorismo metodologico, il metodo fonderebbe il contenuto. Dove il metodo (privo di contenuto) è tutto. E il contenuto è solo una (sua) derivazione possibile. Il metodo diviene, così, una opzione o una ipotesi, non un criterio obiettivo richiesto da un determinato oggetto di indagine. Diversamente dal realismo della (retta) ragione e della fede (autentica), per il quale il contenuto fonda il metodo. E non viceversa. In filosofia come in teologia. (Giovanni Turco)
http://www.corrispondenzaromana.it/sensus-ecclesiae-o-conformismo-ideologico/

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