ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 11 ottobre 2013

Un caffettino alla gesuita?

Gesuiti americani contro Francesco

Prof. della Societas Jesu dispensa sulla rivista America (tendenza liberal) un rispettoso rabbuffo al Papa: se giudichi lebbrosa la curia, perché canonizzi il suo campione Wojtyla? E sull’ecumenismo religioso non accettiamo lezioni

Mi trovo qui alla Seattle University a tenere alcuni workshop per la School of Theology and Ministry sull’apprendimento interreligioso – questa scuola è leader nella nuova ondata di formazione interreligiosa per ministri della fede – e quindi sono rimasto un po’ indietro con le notizie. Ma un amico mi ha spedito il link alla seconda intervista concessa dal Papa, quella con Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano Repubblica. Anche questa è un soffio d’aria fresca che arriva così presto in questo pontificato nuovo e dallo stile nuovo, un soffio d’aria fresca dopo gli ultimi trentacinque anni in cui i papi hanno avuto uno stile molto differente. Sono stato molto felice di leggere quasi tutti questi nuovi commenti, e sono grato per il nuovo approccio di Francesco. Sono quindi recalcitrante nel sollevare un paio di interrogativi che mi sono venuti in mente durante la lettura, ma dato che mi tormentano, penso sia il caso di esporli.

Per prima cosa, il Papa continua a essere critico nei confronti della burocrazia del Vaticano, la curia: “I capi della chiesa sono stati spesso narcisisti, adulati e idolatrati dai loro cortigiani. Le corti sono la lebbra del papato… [Sì,] ci sono a volte dei cortigiani nella curia, ma la curia nel suo complesso è tutt’altra cosa. E’ quella che nell’esercito è chiamata l’intendenza, chiamata a gestire i servizi della Santa Sede. Ma ha un difetto: è Vaticano-centrica”. E’ un po’ difficile, anche a una seconda o terza lettura, capire la distinzione che il Papa fa tra la “lebbra di questa corte” e le buone funzioni della curia, la sua funzione apparente e il suo narcisismo. In ogni caso, se la curia – o una parte di essa – è causa di rovina per la chiesa e ha un disperato bisogno di essere riformata e ripulita, per quale motivo Francesco si affretta a canonizzare Giovanni Paolo II, che l’ha presidiata, promossa e nutrita, ne ha nominato i funzionari e così via per ventisette anni? E’ difficile incolpare i “capi della chiesa” e gli “elementi della curia” e criticare i narcisisti e i cortigiani, senza che si accusi in qualche modo anche il potente Papa che vi ha regnato per tanto tempo. Che i papi debbano essere canonizzati o meno è una questione che rimane aperta; ma nel momento in cui stanno per essere elevati agli onori degli altari, il modo in cui hanno gestito il Vaticano dovrebbe essere un criterio fondamentale di valutazione, ed è strano che Francesco continui la sua corsa alla canonizzazione di Giovanni Paolo II quando è così critico nei confronti di una delle principali componenti dell’eredità amministrativa del suo predecessore.
Dopodiché, più avanti in questa stessa intervista, in riferimento alla domanda sullo “status di minoranza” della chiesa nel mondo attuale, Francesco risponde in parte, “il Concilio Vaticano II, ispirato da Papa Paolo VI e da Papa Giovanni, ha deciso di guardare al futuro con uno spirito moderno, e di essere aperto alla cultura moderna. I Padri conciliari sapevano che essere aperti alla cultura moderna avrebbe significato ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Ma dopo di ciò è stato fatto davvero poco in quella direzione. Ho l’umiltà e l’ambizione di voler far qualcosa in merito”. (L’enfasi in corsivo è mia). E’ sbalorditivo dire che è stato fatto “davvero poco” riguardo l’ecumenismo e il dialogo dai tempi del Concilio. Ammetto subito che, almeno rispetto al dialogo interreligioso, più d’una volta a due passi avanti è seguito un passo indietro. Pensate alla “Dominus Iesus” e ai processi di Jacques Dupuis, SJ.
Sicuramente c’è ancora molto da fare, e molti rimpianti da esprimere. Ma non si deve dire, con noncuranza e en passant, che è stato fatto “davvero poco” dall’epoca del Concilio. Sono stati fatti enormi passi avanti negli scambi ecumenici con un’ampia gamma di chiese cristiane dell’occidente e dell’oriente. Attraverso il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e gli altri uffici e comunità globali e locali, e nella vita dei cattolici ovunque nel mondo, sono stati fatti passi enormi nel cambiare il vecchio atteggiamento della chiesa verso le altre religioni, prima spesso arrogante e polemico. Molto è stato fatto anche riguardo lo sradicamento dell’antisemitismo, l’apertura verso i nostri fratelli e sorelle musulmani, gli scambi ricchi e profondi con gli indù e i buddisti.
Quando Francesco dice che è stato fatto “molto poco” in questo campo, cosa intende, dunque? Ha fatto di più come cardinale in Argentina? Può essere che, mettendo le cose in prospettiva, Jorge Mario Bergoglio non sia mai stato coinvolto in scambi ecumenici o interreligiosi nel suo ruolo di parroco, vescovo, arcivescovo e cardinale (anche se gli si conferisce grande credito per aver promosso le relazioni fra ebrei e cristiani). Forse non è mai venuto in contatto con le teologie e le pratiche delle religioni asiatiche, ad esempio, e non ha spinto i suoi collaboratori a lavorare per implementare la visione ecumenica e interreligiosa del Concilio. Forse ce n’era meno bisogno in Argentina, e lui era troppo impegnato per notare quello che stava accadendo altrove nella chiesa. Ma di certo, ora che è Papa, deve essere più cauto e più attento a quello che gli altri hanno fatto e a ciò che la chiesa ha davvero raggiunto negli ultimi cinquant’anni.
di Francis X. Clooney SJ

(Francis X. Clooney, gesuita, dal 2005 è professore di Teologia alla Harvard Divinity School dopo aver insegnato per ventun anni al Boston College. Dal 2010 dirige il Centro di Harvard per lo studio delle religioni mondiali e dal 1998 al 2004 è stato il coordinatore per il dialogo interreligioso negli Stati Uniti per conto della Compagnia di Gesù)
http://www.ilfoglio.it/soloqui/20142

Ignaziani molto di sinistra

Se il Papa si dice “non di destra”, ecco voci cattoliche più chiare

Finora, nelle loro intemerate contro tradizionalisti e centralismo romano, davanti al Papa si erano sempre fermati.Dopotutto, il voto d’obbedienza del soldato d’Ignazio verso il Pontefice Massimo vale ancora. Ma il cieco destino ha voluto che a essere rispettosamente rampognato da “America”, la rivista dei gesuiti d’oltreoceano stampata a New York e d’orientamento ultra liberal, fosse proprio il primo Papa proveniente dalla Compagnia.

D’altronde, sul New York Times di domenica scorsa, Ross Douthat l’aveva in qualche modo predetto: cercare di stare in mezzo tra rigoristi e progressisti, accomodandosi al mondo per conquistarlo con la forza dell’attrazione, può comportare seri rischi. “America” vorrebbe di più, dal suo Papa. Vorrebbe che chiudesse per sempre e in modo chiaro con le schiere angeliche a difesa dei valori non negoziabili, che mettesse a tacere i vescovi capitanati da Timothy Dolan che da anni lottano, con le baionette innestate sui pulpiti, contro le riforme liberal di Barack Obama. Proprio sul provvedimento più discusso del presidente dem, l’Obamacare, “America” aveva lanciato l’anatema contro i vescovi intransigenti: “Si rileggano la Deus Caritas Est”, aveva tuonato, ricordando che in quell’enciclica ratzingeriana è scritto nero su bianco che “la dottrina sociale cattolica non vuole conferire alla chiesa un potere sullo stato”. I gesuiti della East Coast tiravano in ballo la libertà di coscienza, il suo primato, dicevano che “sbarrare il finanziamento per la contraccezione è un’opposizione politica, non morale”. Invitavano a fare i conti con la realtà, che con la “chiamata in causa della libertà religiosa non si fa altro che un cattivo servizio alle vittime della vera persecuzione religiosa nel mondo”.
Ma “America” è anche la rivista che, tramite padre James Martin, tra le sue firme più prestigiose, definì “figure eroiche” le suore in tailleur e ballerine che vorrebbero la messa celebrata da donne e che sull’aborto, tutto sommato, pensano si possa pure discutere. Così come su nozze omosessuali ed eutanasia. Padre Martin si scagliava contro l’ex Sant’Uffizio, che aveva imputato alle religiose ribelli “un femminismo radicale incompatibile con la fede cattolica”. Queste donne, diceva l’editorialista gesuita, “servono generosamente Dio, i poveri e il paese”. Che poi abbiano di quel Dio una concezione particolare e lontana dalla dottrina cattolica (così stabilì la commissione dottrinaria della chiesa americana), pazienza. Troppo rigore, troppi dogmi e decreti: al mondo bisogna aprirsi, bisogna farci i conti e scendere a patti. Meno guerre razionali e più accomodatio, come insegna la missionarietà ignaziana. Concetti che aveva ben capito pure Roger Haight, teologo condannato da Roma e interdetto dall’insegnamento per aver usato un metodo teologico che di fatto subordinava il depositum fidei alla sua accettabilità da parte della cultura postmoderna. Nonostante la sanzione comminata da Roma, Haight pubblicò qualche anno fa sulle colonne di “America” un saggio in cui si spiegava che il futuro della teologia cattolica sarà roseo solo se sarà capace di farsi comprendere dalla cultura dominante.
Era la linea di padre Thomas Reese, direttore dal 2000 al 2005. Fu costretto a dimettersi su pressioni del Vaticano, si disse negli Stati Uniti: troppo liberal ed estreme certe sue posizioni su aborto, politica, matrimoni gay e rapporti con l’islam. Il suo esordio coincise con la critica alla Dominus Jesus in cui si ribadiva la visione del cattolicesimo come strada principale per la salvezza dell’uomo. La sua fine, poco dopo l’elezione di Benedetto XVI al papato: in un editoriale, “America” scriveva che “una chiesa che non può discutere le questioni apertamente, è una chiesa destinata a un ghetto intellettuale”.

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