ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 4 novembre 2013

E la chiamano FESTA..!

Oggi mi sento in vena di ecumenismo. E vado in cerca di ciò che ci unisce. Di ciò che unisce la Forma Ordinaria del Rito Latino (FO) alla Forma Extra-ordinaria del medesimo Rito (FE). E trovo il trait d’union nella celebrazione odierna – In commemoratione omnium fidelium defunctorum - o anche, se vogliamo, nelleMissae pro defunctis in generale.

E’ infatti cosa evidentissima per chi conosca la FE, quale e quanto sia lì lo scarto tra la celebrazione feriale e quella di suffragio. Se ne accorge massimamente il celebrante, e chiunque con lui abbia la pazienza di soffermarsi sulle indicazioni del rubricale.

Anzitutto la FE chiede che nelle messe per i defunti sia omesso integralmente il salmo 42, cosicché la cerimonia si trova ad iniziare ex abrupto dalConfiteorSimilmente vengono decurtate la preghiera di purificazione prima della lettura del Vangelo, che di tre parti – Munda cor meum, Iube Domine, Dominus sit – ne mantiene solo una; e le preghiere precedenti la Comunione – Domine I. C. qui dixisti, Domine I. C. Filius Dei vivi, Perceptio corporis tui – che sono ridotte a due.

L’Agnus Dei conosce una variazione nelle risposte. Ed ugualmente varia la conclusione del rito, cui vengono omessi il congedo abituale e la benedizione. Cadono alcuni gesti: il segno di croce all’Introito(modificato più che annullato), il bacio del Vangelo, il segno di croce sull’ampollina dell’acqua all’Offertorio, il percotimento del petto all’Agnus Dei.

Che dirne? La celebrazione si fa greve. Qualcuno dirà: lugubre. Secca e asciutta. Quasi che il gesto liturgico del celebrante porti con sé la pesantezza ed il dolore del popolo che piange i propri morti. E questa morte riveste con potenza il sacerdote, che si paramenta tutto in nero – non così il paliotto dell’altar maggiore né il conopeo, luoghi della presenza del Santissimo, di Colui che è Vita: qui un violetto è l’estrema variatiocromatica concessa – e con ciò davvero sembra, il sacerdote, non aver più la forza di benedire, di baciare, di salmeggiare, di battersi e pregare.

Scompaiono – quasi dimenticavo – anche i gloria (all’IntroitoLavabo) ed i relativi inchini. Scompaiono le preci che elargiscono sul popolo la pace: ora che i morti, se pace avranno, dovranno  chiederla direttamente al Giusto Giudice e non da noi mortali.

Tutto nel rito di suffragio mostra dunque che la ferita della morte preme stancamente e raccoltamente sul sacerdote, il quale realmente va così facendosi carico delle angosce del popolo fedele e affranto. Mentre troneggia quasi al cuore della funzione, ritmata e inesorabile, la Sequentia: Dies irae, dies illa.

E ora a noi e all’ecumenismo.

Un ecumenismo triste, se mi è concesso dirlo con ironia nel giorno grigio dei morti affidati a Dio. Sì, perché guardi e vedi come in fondo l’Ordinario feriale della FO sia piuttosto simile al rito funebre della FE.

Com’è la Messa odierna? Inizia, quasi di botto, con un Confesso magro e sbrigativo, procede sveltamente in un decurtamento generale delle parole e delle azioni. Pochi sono gli inchini comandati, e meno ancora quelli che in effetti si fanno. Saccheggiati i segni di croce, depennati al minimo i simboli del pentimento. Di tre preci all’Evangelo la FO ne tiene una, di tre alla Comunione due; l’Agnello di Dio è variabile; il finale pure.

Ho promesso, e lo confermo, di voler essere ironico. E’ nel mio stile. Eppure non può sfuggire del tutto, per quanto concesso al variare dei simboli e alla creatività liturgica attuale, che la santa Messa d’oggi è così: breve e secca, asciutta. Quasi da funerale?

Stando alle norme, andrebbe fatta – per esser schietti – sempre con canti, e con silenzi intelligenti e con ampi coinvolgimenti di popolazione. E questo ne darebbe lo splendore, per me pur sempre un poco modernista, ma in sé aggraziato e tale da salvarne la sublimità. Ahimè, silenzi attori e canti di solito fan pena oppure latitano.

Per cui, daccapo, la Messa quotidiana, per noi che del perenne rito siamo gli inossidabili amatori, e dell’ammodernato bistrattato vittime, ha un che di affranto sottiliforme smorto. Come una volta – appunto - nella Missa da morto. E in più senza neppure quel vigore che il nero, il tumulo e il Dies iraevibravano ad ogni movimento.

Ciò basti. Non tanto per dir male di un rito che la Madre Chiesa oggi promuove ed ama, ma per spronare chi della nuova forma ha cura, a celebrare bene, con scrupolo e con zelo. Ogniqualvolta il prete moderno con fare distratto sciupa tempi e cadenze del santo Sacrificio, mostra a sé e al mondo di stare celebrando non per i vivi ma per i defunti. Non vivo, lui stesso, ma sciupato e storto. Prete in nero – non nel vestire, ma nell’intenzione – prete da morto.


Che poi nel dì dei morti troviamo tanti stimoli a dire della liturgia nelle sue forme, è cosa che stupisce poco o nulla. In fondo qui si gioca tutta la sfida del liturgico e del dottrinale: attorno al senso di una vita che, con Cristo Crocifisso, dia senso ai morti, ai preti, ai riti, e al nostro quotidiano decadere.

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