Il papa parroco di tanti anni fa: Benedetto XIII. Povertà per sé, carità per gli altri, fasto per l’altare
Non è una novità, nulla è nuovo sotto il Cupolone, tutto si ripete. Ed è così che il monaco domenicano pugliese Pierfrancesco Orsini, destinato a diventare papa Benedetto XIII, questo innamorato del culto divino, già nel Settecento sarà il papa “povero” e dei poveri, “spirituale”, “parroco” e “pastore”. Ma anche duro, intransigente: anzitutto con sé stesso, poi anche con gli altri. Sull’Essenziale specialmente; e sulla vanità e mondanità ecclesiastica. Nulla di nuovo, dunque.Non amava starci. Ma come ultimo dei servitori visse nei sacri palazzi, allora ubicati presso il Palazzo del Quirinale, o meglio ancora come un monaco; nient’altro che una cella monacale come qualunque altra fu per lui quel grandioso palazzo reale. Aborrì le ricchezze e le comodità, non rifuggendo da esse, ma vivendoci a contatto, nella più estrema delle povertà, a dimostrazione che la povertà può e deve essere vissuta anche a contatto con quello che si ritiene un “male”. Forse persino necessario. L’importante è non confondere e non confondersi; distinguere e distinguersi. Sicché, la sua stessa stanza era e fu la riproposizione della sua cella conventuale. Due sedie di paglia, un inginocchiatoio, un crocifisso, un letto con un materasso di paglia, lenzuola di lana rozza e pesante, alcune immagini di santi, di carta, attaccate alle pareti. Fu frugale nel pranzo, che spesso saltava, digiunando secondo i precetti della Chiesa o per i suoi continui impegni pastorali.
di Giuseppe Massari
Pierfrancesco Orsini di Gravina seppe e volle rinunciare ai benefici, ai titoli nobiliari che gli sarebbero derivati dal suo casato, essendo il primogenito. A 17 anni si recò a Venezia, con la scusa di un viaggio d’istruzione, e nel convento di san Domenico a Castello vestì le bianche lane del santo di Guzman. A Santa Sabina, a Roma, compì la sua vocazione avviandosi al noviziato prima, al sacerdozio successivamente. All’età di 21 anni, con dispensa papale (occorrendo almeno 24 anni compiuti per il presbiterato), il 24 febbraio 1671, venne ordinato sacerdote.Costretto alla porpora a 22 anni
Solo un anno dopo, il 22 febbraio del 1672, fu creato cardinale, del titolo di san Sisto, nonostante le sue riluttanze, la sua forte contrarietà, perché voleva continuare a vivere nella quiete del convento, come semplice frate domenicano. A nulla valsero le sue resistenze. Dovette piegarsi al volere dei suoi superiori che gli intimarono il dovere alla santa ubbidienza. Dal 1675 al 1680 fu alla sua prima esperienza di pastore di anime nella Diocesi di Manfredonia, la vecchia Siponto. Da qui, dal 1680 al 1686 fu traslato alla sede vescovile di Cesena e da questa, il 1686, fino alla sua morte, avvenuta in Roma il 21 febbraio 1730, a quella di Benevento, che conservò anche da papa e che visitò due volte: il 1727 e il 1729.
In questi sessant’anni di ministero episcopale e petrino il suo lungo cammino spirituale non si interruppe mai. Fu umile, semplice, povero. Volle continuare a vivere nello spirito di povertà e di obbedienza, secondo la regola monastica della sua vita. Fu sempre un figlio di san Domenico. Non si sentì mai superiore, mai distaccato dai suoi doveri verso la sua famiglia religiosa. Fu figlio del Tridentino, attuando ed applicando, nelle sue Diocesi, tutti i decreti, le norme per regolamentare al meglio la vita della Chiesa e del clero. Fu discepolo di san Carlo Borromeo. Fu collaboratore, se non ispiratore, dell’opera del Crispino: Trattato della visita pastorale.Il papa che volle restare vescovo
Sulla base di questi insegnamenti, egli non trascurò mai di visitare le sue diocesi, con apposite visite pastorali e la celebrazione di sinodi diocesani. A Benevento ne celebrò 34 diocesani e due provinciali. Aristocratico per nascita, l’arcivescovo Orsini amò gli umili, la plebe, i diseredati, li protesse dai soprusi e dalle prepotenze dei tirannelli locali e si fece promotore o sostenitore di svariate forme assistenziali che miravano ad alleviare la loro miseria e, come leggiamo in una lapide commemorativa del tempo, «a rivestire i loro animi del verde della speranza».
Sul piano strettamente spirituale, la sua azione mirava ad educarli cristianamente, tanto è vero che egli, nonostante le dignità che rivestiva, i ruoli che esercitava, non disdegnava di farsi catechista ai piccoli, agli adulti, alle donne e agli uomini. Fu sempre parroco nell’istruire, nel predicare, nel sermoneggiare, nel non avere fretta per i riti sacri, che celebrava con solennità e gaudio del popolo orante. Non amava vivere nei palazzi apostolici. Non amava codazzi di gente, di guardie del corpo. Di solito, usciva da solo, facendosi accompagnare, quando era necessario, da un seguito molto ristretto. Abolì guardie e gendarmi, ma soprattutto gli orpelli inutili, badando all’essenziale.Aristocratico allergico alle pompe mondane; sacerdote del fasto liturgico
Spartano nelle esigenze personali, austero nell’indole, caritatevole per fede, povero per scelta, nonostante gli usi correnti in cui venivano praticati anche abusi che egli combatté fino in fondo. Non consentì che i parroci non vestissero degnamente, o che fossero trasandati nei loro portamenti. Vietò l’uso indiscriminato, ai chierici e, soprattutto, ai prelati delle parrucche. Fu rigoroso, intransigente ed inflessibile, fino a prevedere e comminare scomuniche.
La sua lunga azione pastorale si distinse nell’esercizio delle funzioni più semplici. Dall’amministrare i sacramenti, al benedire nuove chiese, consacrare nuovi altari (un’autentica passione, che accentuò da pontefice), campane, suppellettili ed arredi sacri. Dai suoi diari, dai diari delle funzioni pontificali, i suoi biografi, tra i quali, in particolar modo il domenicano suo confratello, padre Giuseppe Bartolomeo Vignato, hanno ricavato cifre importanti e significative. Non numeri, ma azioni continue e frequenti per la edificazione della Chiesa.Il guinness dei primati come edificatore del sacro
Una tabella eloquente è quella riportata dal Vignato. Da questa si ricavano dati unici, rari, originali; dei veri e propri primati che nessun successore è riuscito ad eguagliare o superare. Un primato che parte dagli anni del suo ministero episcopale, fino a quelli in cui fu al timone della Barca di Pietro. Proviamo a leggerli e farcene una ragione di tanto impegno, di tanto zelo, di tanta solerzia.
427 battezzati, 94.973 i cresimati; concesse gli ordini minori e maggiori per i candidati al sacerdozio, fino al sacerdozio stesso, in questa misura: 2.715 tonsure, 1.455 ostiari, 1851 lettori, 1.922 esorcisti, suddiaconi 2.397, diaconi 2.347, preti 2.526, tra i quali, nella basilica vaticana, il passionista fondatore della omonima famiglia religiosa, Paolo della Croce e suo fratello Giovanni Battista. Ordinò e consacrò 152 vescovi, 40 abati, 4 badesse. Partecipò alla consacrazione di 183 monache, fra le quali, la prima fu quella di sua sorella Fulvia Maria Orsini, nel convento di santa Sofia di Gravina.
Non da meno e con lo stesso ardore benedisse 36 prime pietre, per la costruzione di nuove chiese, alcune delle quali dedicate al suo santo protettore, san Filippo Neri. Consacrò 380 chiese; benedisse 1.632 altari fissi, alcuni dei quali, fatiscenti e fatti ricostruire, anche a sue spese, se era il caso, e 630 portatili. Non mancò la sua attenzione per le sepolture dei defunti, tanto che si prodigò nel costruire alcuni cimiteri e nel consacrarne altri, per un totale complessivo di 92. Celebrò 22 matrimoni e partecipò alla consacrazione e alla benedizione degli oli santi per ben 36 volte. Benedisse sempre ed ovunque 1.150 patene, 991 calici, 659 campane, oltre a tutti gli altri arredi sacri tra i quali amitti, camici, pianete, dalmatiche, tunicelle e piviali.
Fu colui che canonizzò san Giovanni della Croce, san Luigi Gonzaga, san Stanislao Kostka, san Pellegrino Laziosi, san Turibio da Mongrovejo, santa Margherita da Cortona e sant’Agnese da Montepulciano. Portò ai primi gradini della santità, tra gli altri, la beata Giacinta Marescotti e Fedele da Sigmaringen.
Un pastore sempre presente. Un pastore non abituato ad essere statico. In continuo movimento, da mane a sera, anche quando l’età non gli consentiva più di dover e poter essere efficiente. Egli, incurante dei consigli che lo invitavano alla prudenza, si consumò fino alla fine, vivendo la sua vita a contatto con gli infelici, ammalati, moribondi, ai quali portava il conforto della preghiera, della benedizione finale e del Viatico.Vivere al Quirinale come in una cella monacale
Molti storici ed osservatori lo hanno accusato di curarsi poco degli affari della Chiesa. Il giudizio può avere qualche riscontro e fondamento di verità, soprattutto se si considera che egli, se voleva, poteva essere uomo di governo nel curare gli affari politici della sua famiglia. Preferì abbracciare la vita religiosa, incurante, non immaginando o lontanamente pensando che sarebbe stato rivestito della sacra porpora o che avrebbe raggiunto il traguardo del Soglio di Pietro. Questi impegni non lo distrassero dal suo voler essere e farsi servo, a cominciare dalle comunità religiose, a cui era appartenuto, o apparteneva, e, che, di tanto in tanto, visitava, dove serviva a tavola, lui, il papa.
Come ultimo dei servitori visse nei sacri palazzi, allora ubicati presso il Palazzo del Quirinale, o meglio ancora come un monaco; nient’altro che una cella monacale come qualunque altra fu per lui quel grandioso palazzo reale. Aborrì le ricchezze e le comodità, non rifuggendo da esse, ma vivendoci a contatto, nella più estrema delle povertà, a dimostrazione che la povertà può e deve essere vissuta anche a contatto con quello che si ritiene un “male”. Forse persino necessario. L’importante è non confondere e non confondersi; distinguere e distinguersi. Sicché, la sua stessa stanza era e fu la riproposizione della sua cella conventuale. Due sedie di paglia, un inginocchiatoio, un crocifisso, un letto con un materasso di paglia, lenzuola di lana rozza e pesante, alcune immagini di santi, di carta, attaccate alle pareti. Fu frugale nel pranzo, che spesso saltava, digiunando secondo i precetti della Chiesa o per i suoi continui impegni pastorali.
Di questa sua vita spartana, egli, non ne fece una lode di merito o di vanto. Silenziosamente, senza il frastuono delle sia pur limitate ed esigue cronache del tempo, visse i suoi giorni sforzandosi di essere un modello di santità per sé e per gli altri, visto che fu severo prima e più con se stesso che verso gli altri. Fu uomo di preghiera, partecipando alle ore liturgiche nel coro, sedendo all’ultimo posto, insieme agli altri, anzi, confondendosi con gli altri. Fu uomo di preghiera nel momento in cui, spesso, entrava in una chiesa a pregare. Si fermava al suono della campana per l’Angelus.
Nei pochi e lunghi viaggi cui si sottopose, per esempio a Benevento, come abbiamo accennato innanzi, nelle due volte che vi si recò, da papa, per fare visita alla Diocesi che egli tanto aveva amato e nella quale e per la quale molto si era speso, soprattutto durante e dopo gli anni della ricostruzione, si accompagnava con il Santissimo Sacramento.
Per sommi capi, abbiamo descritto la vita di un pastore, che fu fedele agli insegnamenti delle verità dottrinali e dogmatiche sanciti con chiarezza dal Concilio di Trento; di uno strenuo difensore dei diritti della Chiesa; di un paterno uomo di Chiesa, sempre pronto e disponibile a farsi tutto per tutti, senza distinzioni di ceto, di razza o di condizione sociale.Nessuno osi essere il “rivoluzionario” a nome di Cristo: Lui solo è l’Unico e Irripetibile. Rivoluzionario
La Chiesa ha il dovere di non dimenticare, prima di incamminarsi in avventure sperticate, in cui spesso dimentica il proprio passato, di esaltare, di far lumeggiare questo personaggio ricco ed intriso di santità fino in fondo all’anima.
Chi, oggi, pensa che la Chiesa sia stata solo un covo di delinquenti,di farabutti, di malfattori, pensa, e pensa male, sbagliando e dimenticando, con indicibile ignoranza, che questa istituzione, pur attraversata da marosi e da tempeste, è ancora lì ad insegnare – possibilmente, nel silenzio, senza troppi fastidiosi fragori, o senza troppo fragoroso, fastidioso e ricorrente divismo ecclesiastico, a cui molti stanno ricorrendo, e molti stanno inseguendo, a cominciare dai mezzi di comunicazione – che la Chiesa, dicevo, è ancora lì a testimoniare, per testimoniare, innanzitutto, la sua storia passata; ma, anche, quella da costruire. Senza lasciarsi prendere da certe frenesie emotive o lasciarsi suggestionare dai malefici spiriti emozionali; ma con compostezza, con garbo e con gusto. Nel dovere e nella consapevolezza che nessuno può essere il rivoluzionario o il rivoltoso in nome di Cristo, perché è solo Cristo, che rimane il primo, unico ed irripetibile Rivoluzionario della storia universale e della storia dei popoli. L’unico in grado di garantire, ora e sempre, fino alla consumazione dei tempi, come recita il salmista, misericordia e verità, giustizia e pace.
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