ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 30 gennaio 2014

La sabbia della mondanità

“La Chiesa non ha mai detto che le ingiustizie non possono o non devono essere corrette; o che le condizio­ni della società non possono o non devono essere rese più fe­lici; o che non vale la pena di dedicarsi alle faccende secolari e materiali; o che non è giusto promuovere le buone maniere, diffondere il benessere o ridurre la violenza.
Ha detto che non dobbiamo fare affidamento sulla certezza che il benessere di­venterà più diffuso o la violenza più rara, come se ciò fosse un inevitabile movimento della società verso un'umanità senza peccato, invece di essere, com'è, una condizione dell'u­manità, anche migliore, che però può essere seguita da una peggiore. Non dobbiamo odiare l'umanità, o disprezzarla, o rifiutarci di soccorrerla, ma non dobbiamo riporre in essa la nostra fiducia, nel senso di credere che un cambiamento nel­la natura umana non può evolvere verso il male. «Non confi­date nei principi né in alcun figlio d'uomo. (Sal 146,3)»” [G. K. Chesterton – Il pozzo e le pozzanghere]
I clero moderno, invece, fonda le proprie certezze sulla sabbia della mondanità, delle cose del mondo, di quel mondo cui la Chiesa dovrebbe a loro dire conformarsi, aggiornarsi e aprirsi. Così facendo non lo salva, ma vi si adegua, tradendo brutalmente il comando di Gesù Cristo.
L’impressione che si ricava è che oggi nella Chiesa la preoccupazione sia di cambiare. Cambiare a prescindere da cose e da come, l’importante è farlo. Condiziona davvero troppo l’idea che il mondo ha della Chiesa. E l’assurdo sta nel fatto che l’idea della Chiesa che preti, vescovi e vaticanisti compiacenti oggi vogliono cambiare, è un’idea di Chiesa sballata che il mondo stesso si è costruita nei secoli. I cattolici che hanno abbandonato le certezze dogmatiche, si ritrovano come sempre in ritardo sulle fasi della storia. Pensano di vivere il “momento di Dio”, il tweet della storia, eppure non capiscono che la Chiesa è nel mondo ma non è del mondo e che tra Essa e il mondo corre una differenza sostanziale. Ignorate queste verità sostanziali, perché le verità oggi sono solo quelle esperienziali, ci si adegua alle mode (pur richiamando in continuazione il pericolo della mondanità). E cosa c’è di più mondano del progresso, del cambiamento, dell’aggiornamento? Specie in un epoca digitalizzata come la nostra dove i programmi dei pc sono aggiornati in continuazione e dove si deve tenere sempre aggiornato il proprio profilo, pena la morte sociale.
“Siamo tutti in qualche modo stancamente consapevoli del fatto che qualche moderno uomo di chiesa chiama «progresso» que­sto continuo cambiamento; è un po' come quando sot­tolineiamo che un cadavere brulicante di vermi ha una vita­lità in corso, o che il pupazzo di neve che si trasforma lenta­mente in una pozzanghera si sta emendando delle sue pro­tuberanze.” [G. K. Chesterton – Il pozzo e le pozzanghere]
Il progresso in sé, solo perché progresso, non è necessariamente buono. Oggi invece, rimbambiti come siamo dalle categorie concettuali del mondo, non sappiamo distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, non siamo più capaci, perché il fondamento di ogni nostra azione è quello della mediaticità, dell’esserci nell’istante per poi sparire in quello successivo. E sempre perché rifiutiamo con disgusto ogni verità dottrinale e accettiamo solo quelle che la nostra esperienza convalida. Per cui non è Dio che stabilisce ciò che è vero e falso e la Chiesa lo ratifica annunciandolo al mondo, no!, siamo noi che stabiliamo il vero e il falso e arriviamo all’assurdo filosofico che tutto è vero (ma allora perché non tutto è falso?). Su questi binari ogni cosa deve mutare e adattarsi alle circostanze che di volta in volta si presentano. Con questi fondamenti non c’è posto per una verità eterna e immutabile. In questo panorama il dogma è una bestemmia e l’esperienza, il momento, l’attimo è la sola categoria valida cui confrontarsi e costruire. Ecco che, di conseguenza, la liturgia (espressione cultuale di ciò che si crede) diventa il godimento dell’esperienza, la ritualità vien bandita, la gestualità veicolata dall’emotività con l’assurda convinzione che quello che ci si sente di fare, specie davanti a Dio, sia più legittimo e buono di ciò che si deve fare. Abbiamo perso tante cose, non ultima anche la consapevolezza di essere figli e come tali di dover ricevere un educazione da un padre (e una madre). Oggi non è più così e laddove nel mondo civile la distinzione tra padre e madre piano piano viene eliminata dal vocabolario e dalla legislatura, nel mondo ecclesiale ognuno è padre e madre di se stesso. Nessuno può giudicare, nessuno può indicarci cosa è bene o male fare, perché l’importante è esserci, nell’istante in cui si celebra l’evento, e al diavolo secoli di Tradizione, di ricerca teologica, dogmatica e liturgica. Tutto nel cesso di un tweet o di un post.
L’edificio storico della Chiesa è crollato in maniera evidente sotto l’assedio dei suoi eretici pastori. L’edificio dottrinale non può mutare perché su di esso è impresso il sigillo dell’infallibilità. I novelli eretici pastori vogliono tuttavia cambiare anche la dottrina (leggasi in quei pochissimi siti e giornali dove se ne parla lo scontro tra il card. Maradiaga e il card. Muller). Vedremo cosa si inventeranno e quanto miseramente falliranno. La sostanza non verrà intaccata, ma con il bisturi della pastoralità, così com’è da cinquant’anni, ci si arriverà a sfiorarla da vicino. Le vittime non si conteranno, perché non interesserà a nessuno contarle, quel che conta sarà l’effetto gagliardo che questa devastazione procurerà agli occhi del mondo. Quando la Chiesa si ricorderà, perché è una verità dogmatica, che Essa non deve chiedere niente a nessuno, ma solo al Suo Sposo, per gli uomini di queste generazioni sarà troppo tardi. Se ce ne saranno, se Dio lo disporrà, per le generazioni future sarà una stagione faticosa di ricostruzione. Ma sappiano, e questo è il compito dei cattolici non ammodernati – oltre al dovere di conservare la fede per salvare la propria anima -, che non dovranno inventare niente di nuovo; l’ossessiva invenzione di verità, liturgie e strutture ha portato allo sfascio nel quale si ritroveranno a vivere.

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