C'è un Faust in Vaticano
Anche Bergoglio ha il suo Mefistofele: la Bundesbank. Contro la quale nulla può la Misericordina
Il Papa venuto da lontano. Due pontefici si sono presentati il giorno della nomina davanti ai fedeli in piazza San Pietro con questa frase. Karol Wojtyla il 16 ottobre del 1978 s’affaccia dal balcone e dice: “Lo hanno chiamato di un paese lontano…”. Jorge Mario Bergoglio fa la stessa cosa trentacinque anni dopo, saluta con un “buonasera” e dice: “Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…”.
Quanto è lontano il Papa venuto da lontano? Da dove e da cosa?
Risposta: lontano da Roma, dall’Europa e dalla libertà. Un Papa venuto da lontano ha una domanda che lo martella: come annullo la distanza tra me e Roma? Come far convivere il mio Nuovo Mondo con il Vecchio Mondo? Non a caso ieri il Papa ha ricordato come Pietro Favre “aveva il vero e profondo desiderio di ‘essere dilatato in Dio’: era completamente centrato in Dio, e per questo poteva andare, in spirito di obbedienza, spesso anche a piedi, dovunque per l’Europa, a dialogare con tutti con dolcezza, e ad annunciare il Vangelo”. Predicare. A piedi. E’ la “chiesa in uscita” di Bergoglio e l’Europa resta ancora la sfida più grande per il papato.
La lontananza di Wojtyla era quella di un uomo nato nel 1920 in Polonia, a Wadowice, paese invaso dai nazisti nel 1939 e poi dominato dai comunisti, un luogo senza libertà. Il remoto di Bergoglio è quello di un figlio di emigrati italiani nato nel 1936 a Buenos Aires, capitale di un paese sotto dittatura militare dal 1976 al 1983, impiccato alla convertibilità del dollaro, esposto agli esperimenti del Fondo monetario internazionale. Que Viva Argentina, Evita e… default.
Quando Giovanni Paolo II si affacciò alla finestra e disse ai romani “se sbaglio mi corriggerete”, le relazioni internazionali erano figlie del patto di Yalta, le tigri asiatiche tigrotti, l’Africa un deserto dimenticato, il Sudamerica un laboratorio di rivoluzione, golpe, tango e samba, il medio oriente una polveriera convenzionale, l’Italia il centro della chiesa, la globalizzazione un baco senza farfalla, internet il sogno di un nerd in un garage californiano, la Borsa un Monopoli con le grida, l’Unione europea un Muro che divideva Berlino. Il Papa polacco interpretò lo spirito del tempo con la velocità di uno sprinter e la sicurezza di un sacerdote antico. Wojtyla si fece guidare dall’idea di “esportare” (sì, proprio così, esportare) la democrazia dove non c’era e si poteva fare. E per riuscire nell’impresa anticipò gli eventi, fino a guidarli. E Bergoglio? Anch’egli è totalmente immerso nella storia, ma la interpreta e la guida o ne è sopraffatto? Qual è la sua idea di Europa? Che cosa farà? Che cosa si deve domandare il Papa e che cosa possiamo chiedergli noi?
Angelo Panebianco sul Corriere della Sera si è interrogato provando a battere i sentieri della geopolitica, della secolarizzazione del Vecchio continente. E ha registrato la distanza tra il Papa sudamericano e gli europei. Confidavo in Eugenio Scalfari, ma il Fondatore per ora ha sbrigato la pratica aprendo un take away della speranza, prima dipingendo su Repubblica un presente a tinte fosche e dopo chiedendo al Pontefice – “lei che ci crede” – di “pregare per noi”. Ottimo proposito. E poi? Buttiamo la palla in tribuna, recitiamo un paio di Ave Maria e vamos todos a la playa in attesa dello tsunami? Non dubito della forza della preghiera, ma forse possiamo provare a spingerci più in là, perché la “rivoluzione pastorale” di Bergoglio (Alberto Melloni dixit) impone a tutti – perfino agli atei devoti in crisi mistica – meno trascendenza e più presenza nella storia. Questo Pontefice in fondo è un gesuita che viene da lontano e si propone di andare lontano. Proviamo a camminare con lui in questa scena di uomini e rovine. Cosa deve domandarsi il Papa? Davanti ai suoi e ai nostri occhi c’è il problema: la crisi dell’Europa. Anche la chiesa è di fronte ai problemi aperti da una lunga recessione seguita da una incerta ripresa che produce pochi posti di lavoro. Qual è la risposta della chiesa alla disoccupazione di milioni di giovani? Come superare l’euro senza politica, l’austerità tecnocratica, una Banca centrale germanizzata? Come dare un’idea del domani ai governi che arrancano e ai popoli inquieti? E’ un insostenibile scenario kunderiano, una malattia che provoca smarrimento. Mi viene in mente un libro, “L’anno del pensiero magico”, un memoir della scrittrice americana Joan Didion che racconta la perdita del marito e la malattia della figlia e descrive “l’effetto vortice”. Che cos’è? L’inquietudine che si propaga; non c’è una cura efficace. Noi siamo al centro di quel vortice: è l’Europa che muore. La sfida del Papa venuto da lontano è la crisi di un Vecchio continente fermo alla stazione di posta della seconda metà del Novecento, travolto dalla contemporaneità hi-tech, con i file della memoria archiviati ma impossibili da leggere, proprio nel momento in cui riemergono fratture antichissime.
Tutto questo fa parte del dilemma religioso del nostro tempo. E trova la sua rappresentazione nel mix di economia senza politica, negli schermi che fanno brillare il grafico dello spread, nuovo totem di un Essere ridotto a curva e istogramma. Paradiso e inferno in passato erano un immaginario cantato da Dante e Milton, oggi fanno parte della narrazione del caveau, angeli e demoni fanno la fila insieme allo sportello, accendono conti correnti e mutui, anche loro possono fallire. C’è lo zampino del diavolo perfino nella decisione di Mario Draghi di tagliare i tassi. La liquidità zampilla dalle corna di Satana. Non ci credete? Lo dice la Deutsche Bundesbank. Jens Weidmann, presidente della Banca centrale tedesca, ha spostato la faccenda dalla cassaforte all’altare, dalla sala trading alla sacrestia, dal deposito overnight alla fonte battesimale. Perché Weidmann cita il diavolo – rieccolo, il furfante – per sostenere che non bisogna stampare moneta. E le sue idee non si basano su un manuale di politica monetaria, ma sulla grandiosa opera letteraria di Goethe: “Permettetemi di ricordare brevemente la scena della ‘creazione della moneta’ nel primo atto della seconda parte del ‘Faust’. Mefistofele, travestito da buffone, parla con l’imperatore, che è in grave crisi finanziaria, e dice: ‘V’è alcuno a questo mondo a cui non manchi o questa o quella cosa? Qui ciò che manca è il denaro’. L’Imperatore finalmente risponde ai tentativi sottili di Mefistofele di persuaderlo: ‘Ne ho abbastanza dei se e dei ma. Ci manca il denaro, trovacelo’. Mefistofele risponde: ‘Troverò ciò che chiedi, e anche più’”.
Il presidente della Bundesbank dice che stampare moneta è opera del diavolo. E lo fa evocando il testo che è obbligatorio leggere in tutte le scuole tedesche: il “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe. Weidmann ripete la storiella – è notevole il suo discorso del 12 settembre 2012 su “Creazione di moneta e responsabilità” – puntando l’indice, ammonendo, rivelando l’essenza dello spirito tedesco che si fa politica economica, pensiero complesso, raffinato, che ha radici d’acciaio. Ecco perché la crisi economica non è un luogo d’azione solo di Cesare ma anche di Dio. La questione è mondanissima e trascendente. Il 7 novembre scorso, nel board della Bce che ha deciso il taglio dei tassi si sono scontrati gli eserciti dell’alleanza dei paesi del nord, capeggiata dalla ricca Germania, e la sgangherata coalizione del Club Med, guidata dall’indebitata Italia. Un conflitto-matrioska: nella prima bambola c’è una guerra sulla politica monetaria, ma sono le altre due bambole custodite all’interno ad alimentarla perché contengono le cariche esplosive della spaccatura religiosa e culturale. E’ una storia che viene da lontano: i paesi protestanti non accettano più il principio di “solidarietà” per la cattolicissima Spagna del cammino di Compostela, per l’Italia del papato spendi e spandi, per la Grecia dei coriacei ortodossi, per la Francia giacobina sì, ma pur sempre cattolica, per il Portogallo del segreto di Fatima. E’ una storia disseminata di tracce, segnali, dispacci, messaggeri, stazioni di posta, caserme, trincee, arsenali e forzieri. E tutti gli elementi narrativi conducono al paese che dell’Europa è sempre stato il cuore pulsante, croce e delizia, luogo fisico e filosofico, conservazione e rivoluzione, riforma e controriforma: la Germania. L’Europa è spaccata in due come nel Seicento con la comparsa dirompente del luteranesimo: la parte centro-settentrionale è protestante e per il rigore contabile, quella meridionale è cattolica e per la mitezza delle regole di bilancio.
E’ questo il tema centrale della contemporaneità e non a caso il “buco nero” è l’Europa continentale (l’isola d’Inghilterra è un’altra storia). Chi ha la soluzione? Questa leadership globale? E’ molto debole, forse perché non è stata forgiata e temprata nell’officina del Novecento: la guerra.
L’economia è diventata un terreno di scontro spirituale ed è un nuovo conflitto tra potenze. Parafrasando il generale prussiano Carl von Clausewitz: l’economia oggi è la continuazione della guerra con altri mezzi. Sul mio taccuino svolazza una frase di Karl Marx: “Uno spettro s’aggira per l’Europa”. Non il comunismo, ma il folletto della moneta, l’euro, accompagnato dalla colonna sonora della Cavalcata delle valchirie. Ancora una volta, come nelle profezie di Marx ed Engels (non avverate, ma tutt’altro che inutili per capire il pre-testo della crisi), la luce in fondo al tunnel conduce là dove passeggiava Martin Heidegger, nella Foresta nera, in Germania, epicentro della sfida del Pontefice.
L’economia è diventata un terreno di scontro spirituale ed è un nuovo conflitto tra potenze. Parafrasando il generale prussiano Carl von Clausewitz: l’economia oggi è la continuazione della guerra con altri mezzi. Sul mio taccuino svolazza una frase di Karl Marx: “Uno spettro s’aggira per l’Europa”. Non il comunismo, ma il folletto della moneta, l’euro, accompagnato dalla colonna sonora della Cavalcata delle valchirie. Ancora una volta, come nelle profezie di Marx ed Engels (non avverate, ma tutt’altro che inutili per capire il pre-testo della crisi), la luce in fondo al tunnel conduce là dove passeggiava Martin Heidegger, nella Foresta nera, in Germania, epicentro della sfida del Pontefice.
Cosa fa il Papa venuto da lontano? Il suo ospedale da campo è in movimento, ma se la chiesa deve essere un pronto soccorso terreno senza troppo ultra, allora serve una prassi che ha una robusta tesi. Siamo a Seneca: “Facere docet philosophia non dicere”, la filosofia insegna ad agire, non a parlare.
C’è Dio, la fede, ma questo è il campo di battaglia che rivendica solo e soltanto Cesare e distribuire in piazza San Pietro la confezione della “Misericordina” non sarà sufficiente per curare le ferite mortali di una generazione di giovani senza lavoro. Sono perdite equivalenti a quelle di un sanguinoso conflitto, diventano un fattore di ritardo biologico, di talento, genio politico e scientifico disperso. Mi vengono in mente le pagine di un saggio di George Steiner, “Nel castello di Barbablù”, un libro scritto nel 1971, capolavoro di pre-visione dello spirito del tempo: “Non c’è niente di naturale nella nostra presente condizione. Non c’è nessuna logica evidente o dignità nella nostra conoscenza che ‘tutto è possibile’”. Compreso il gioco d’azzardo biologico. Sono anticipazioni spirituali e temporali. Fiume dove il denaro prima scorre e poi improvvisamente si ferma, credit crunch. Premonizioni, come i versi scritti da Sylvia Plath: “Sfortunato l’eroe nato / In questa plaga dove il disco si è incantato / Dove i più bravi cuochi sono senza lavoro / E il girarrosto del sindaco va / Per conto suo, per inerzia”.
C’è Dio, la fede, ma questo è il campo di battaglia che rivendica solo e soltanto Cesare e distribuire in piazza San Pietro la confezione della “Misericordina” non sarà sufficiente per curare le ferite mortali di una generazione di giovani senza lavoro. Sono perdite equivalenti a quelle di un sanguinoso conflitto, diventano un fattore di ritardo biologico, di talento, genio politico e scientifico disperso. Mi vengono in mente le pagine di un saggio di George Steiner, “Nel castello di Barbablù”, un libro scritto nel 1971, capolavoro di pre-visione dello spirito del tempo: “Non c’è niente di naturale nella nostra presente condizione. Non c’è nessuna logica evidente o dignità nella nostra conoscenza che ‘tutto è possibile’”. Compreso il gioco d’azzardo biologico. Sono anticipazioni spirituali e temporali. Fiume dove il denaro prima scorre e poi improvvisamente si ferma, credit crunch. Premonizioni, come i versi scritti da Sylvia Plath: “Sfortunato l’eroe nato / In questa plaga dove il disco si è incantato / Dove i più bravi cuochi sono senza lavoro / E il girarrosto del sindaco va / Per conto suo, per inerzia”.
Il girarrosto va. E mentre gira appaiono segni e disegni nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, prova tecnica del Bergoglio che edifica la sua “chiesa in uscita”. Nel secondo capitolo, intitolato “Nella crisi dell’impegno comunitario”, ecco una citazione di Paolo VI, l’esortazione a “studiare i segni dei tempi”. Bagliori di Zeitgeist: “Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi”. Clic, ecco un’istantanea sul mercato: “Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto”. Scattata la Polaroid dell’oggi, resta il dilemma del domani. C’è un invito del Papa, ma è sospeso nell’indefinito: “Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire e non governare!”. Il futuro è così sfuggente tanto da alimentare interpretazioni e strappi utopici. L’esortazione di Bergoglio colpisce l’immaginario e alimenta il dibattito, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
L’Atlantic scrive che quella del Papa è una “condanna delle politiche di Ronald Reagan, Margaret Thatcher e dei loro successori”, afferma senza dubbio alcuno che Bergoglio ha “legittimato i gruppi progressisti e i governi di sinistra” e, dulcis in fundo, “il Papa ha dichiarato un nuovo nemico”, il libero mercato. Ma sempre sull’Atlantic leggo che “il mondo descritto da Francesco è una distopia, non viene citata nessuna statistica, è in contrasto con la realtà”. Non basta. Schermata del computer, titolo di Business Insider: “Il Papa ha appena pubblicato una delle più potenti critiche del capitalismo moderno che si potrà mai leggere”. Bloomberg ricorda il 29 novembre, giorno del Black Friday, il venerdì che apre gli acquisti della stagione natalizia, che “c’è un messaggio del Papa per i consumatori americani” e lancia in rete la parola shame, vergogna e peccato, che s’annida dietro gli sconti di quel giorno, rinviando a un servizio del Wall Street Journal sullo “sporco segreto” del commercio, degli sconti, dei magheggi del compro e vendo. I repubblicani si dividono: Newt Gingrich vede in Bergoglio la potenza radicale del messaggio di Gesù, mentre nell’arena dei Tea Party s’agita lo spettro del comunismo e per Rush Limbaugh i discorsi del Papa sono “puro marxismo”. La Harvard Business Review ne fa invece un manifesto ideale per il dibattito su eguaglianza e opportunità di crescita dei giovani, gli americani di domani. Mentre scorrono i titoli di coda del 2013, il settimanale Time fa di Bergoglio la copertina della persona dell’anno, ma alla vigilia di Natale il Financial Times ricorda al Papa che il suo discorso intorno all’ineguaglianza e alla globalizzazione si scontra con la realtà di un capitalismo che ha tirato fuori dalla povertà milioni di uomini e donne in Cina e in India, mentre i veri perdenti sono in occidente tra i cittadini della classe media. Un grande dibattito con una domanda che salta qua e là tra le pagine: il Papa è comunista?
Risponde Bergoglio nella preghiera a Santa Marta del 20 settembre scorso: “Non puoi servire Dio e il denaro. Non si può: o l’uno o l’altro! Questo non è comunismo, eh! Questo è Vangelo puro! Queste sono le parole di Gesù! Cosa succede col denaro? Il denaro ti offre un certo benessere all’inizio. Va bene, poi ti senti un po’ importante e viene la vanità. Lo abbiamo letto nel Salmo che viene questa vanità. Questa vanità che non serve, ma tu ti senti una persona importante: quella è la vanità. E dalla vanità alla superbia, all’orgoglio. Sono tre scalini: la ricchezza, la vanità e l’orgoglio. Nessuno può salvarsi col denaro! Il diavolo prende sempre questa strada di tentazioni: la ricchezza, per sentirti sufficiente; la vanità, per sentirti importante; e, alla fine, l’orgoglio, la superbia: è proprio il suo linguaggio la superbia”.
Mentre l’America discute, l’Europa produce molte scartoffie, attutisce, sorvola, sopisce. Intanto Mefistofele folleggia qua e là, facendo tintinnar la moneta, tra Francoforte e Roma. Ma se il fine del racconto del banchiere centrale tedesco Jens Weidmann è chiaro (opporsi alle scelte del presidente della Bce Mario Draghi e ribadire la superiorità della Germania), non è ancora visibile il punto d’atterraggio della parabola del Pontefice sul denaro, sulla finanza che ha preso il sopravvento sull’economia, legno storto della crisi europea.
Se il potente Herr Weidmann cita il Faust di Goethe per dare dignità mitopoietica alla divisione panzer dell’economia e l’Europa ha una generazione di giovani disoccupati che hanno bisogno di pane (e anche un po’ di Dio), forse l’altolà del Papa contro “il Dio denaro” è un primo passo che ha bisogno di concretezza. Per i fedeli di oggi e di domani è urgente sapere e conoscere, per poter assistere, vettovagliare, curare. Per i misteri, si sa, basta e avanza la fede, ma Bergoglio ha scelto di chiamarsi con quel nome, simbolo di un cammino impervio, un’esperienza di rigore e dolore in terra, ha voluto indossare il metaforico saio del frate di Assisi che viaggiò fino ai confini dell’Europa, segno della concordia tra Francesco e la povertà, testimonianza esposta all’estasi dei fedeli, trama e ordito di un’opera terrena che si fa divina. Ecco perché la materia incandescente con la quale il Pontefice deve misurare la dimensione mondana che ha voluto darsi è la crisi del Vecchio continente.
Tutto questo, converranno perfino i “nuovi teologi”, ha molto a che fare con la storia dei gesuiti. Ci sono parole e segni dei tempi, in giro, che lasciano scie luminose come un bengala nella giungla vietnamita. Si parla di “effetto Bergoglio”, di conversioni, di entusiasmi. Mi ha colpito una frase del cardinale di New York, Timothy Dolan: “Se avessi ricevuto un dollaro per ogni newyorchese che mi ha detto quanto ama l’attuale Santo Padre avrei pagato il conto salato dei restauri della cattedrale di St. Patrick!”. Dio e il denaro. E Faust. Si alimenta la metafora più o meno esplicita di un Papa che è anche “amministratore delegato”. Se si diffonde questa idea da Wallstreeter della chiesa, allora i dieci comandamenti sono la legge fondamentale della business community, ma il consiglio d’amministrazione presieduto dal Papa deve deliberare, far sapere ai suoi azionisti qual è la strategia per avere utili e dividendo proprio là dove il mercato è inceppato: in Europa. Attendiamo il grafico con le quotazioni della Misericordina.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Mario Sechi
Sondaggio al contrario del Papa. Scelto il meno votato
«Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi». Il Vangelo di Matteo (19,23-30) sembra
proprio adatto a descrivere il retroscena della nomina da parte di papa Francesco del nuovo
segretario generale, ad interim, della Conferenza episcopale italiana, Nunzio Galantino, vescovo di
Cassano allo Ionio.
Non solo perché la piccola diocesi in provincia di Cosenza non è certamente tra le prime d’Italia, né
lo è mai stata. Né per grandezza, né per importanza. Anche se nel Bruzio esisteva un’organizzazione
ecclesiastica fin dal V secolo ed essa era (un segno della storia?) alla diretta dipendenza del Papa,
come risulta dall’Epistolario di San Gregorio Magno.
Ma nel senso che monsignor Nunzio Galantino era proprio l’ultimo nella terna di nomi che il
presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco aveva presentato al Papa. Ed aveva raccolto solo,
diciamo così, un «voto» dei suoi confratelli nell’episcopato. Grande è stata la sorpresa, dunque,
quando Francesco ha fatto cadere su di lui la sua scelta, la sua preferenza.
Già i tempi e le modalità della designazione sono stati per il vertice della Conferenza episcopale
italiana quasi uno choc. La nomina del segretario (in sostituzione di Mariano Crociata destinato, con
una decisione senza precedenti, a una diocesi secondaria come quella di Latina) era programmata
per la fine di gennaio quando, come di consueto, si sarebbe riunito il Consiglio permanente della
Cei, il parlamentino dei vescovi.
Ma il Papa «calletero» («camminatore») ha chiamato il cardinale di Genova e gli chiesto di
procedere con maggiore celerità. Gli ha detto chiaramente che non c’era tempo da perdere.
Bagnasco si è messo al telefono e ha avviato rapide consultazioni informali. Con gli attuali statuti,
invece, il segretario Cei è scelto dal Papa dopo che il Consiglio permanente si è espresso
formalmente su alcuni nomi proposti dalla Presidenza. Le consultazioni per il sostituto di Crociata
sono invece avvenute al telefono. E come se ciò non bastasse, la scelta di Francesco è caduta
proprio sull’ultimo nome della terna, quello di Galantino appunto, «forte» di un solo voto.
Francesco ha preferito l’outsider.
La nomina è stata fatta per il momento ad interim. E nei palazzi vescovili di mezza Italia ci si
domanda che cosa accadrà a fine gennaio a Roma, quanto si riunirà il parlamentino della Cei. Anche
se è difficile che a poche settimane dalla decisione papale l’esito della inedita procedura telefonica
sollecitata da Francesco possa essere ribaltata. Certamente però più di una «Eccellenza» si è chiesta
che fine farà adesso la collegialità.
Per ora monsignor Galantino («don Nunzio») continuerà a fare il vescovo della sua diocesi.
Segretario Cei, dunque, ma anche «pastore» di quella Chiesa in cui Bergoglio non vuole che
vescovi e sacerdoti si riducano a «funzionari», ma che piuttosto abbiano «l’odore delle pecore».
Del resto il Papa ha preso carta e penna e ha accompagnato la nomina di Galantino con un gesto
assolutamente inedito. Ha scritto ai sacerdoti e ai fedeli della diocesi calabrese, per spiegare che il
loro vescovo gli serve «per una missione importante nella Chiesa italiana». «So quanto lo amate —
ha scritto il Pontefice con un tono che fa risuonare l’affetto che si legge in alcune lettere degli
Apostoli ai primi cristiani — e so che non vi farà piacere che vi venga tolto, e vi capisco. Per questo
ho voluto scrivervi direttamente come chiedendo il permesso». Papa Bergoglio si è detto anche
«commosso» del legame tra il neosegretario e la sua diocesi: «Vi domando, per favore, di
comprendermi... e di perdonarmi». Sulla sua nomina Galantino ha scherzato: «Penso che il Papa
abbia avuto un bel coraggio».
Oggi festa dell’Epifania viene proclamato nelle Letture che, con la nascita di Gesù , Betlemme non
sarà più ricordata come la più piccola città di Israele, quale essa era in realtà.
Nell’Antico Testamento, Giacobbe venne preferito addirittura al primogenito, Esaù. Un po’ come Galantino rispetto ad altri candidati meglio “piazzati”. «Preferito». Come sta scritto nel motto dello
stemma papale: «Miseareando atque elidendo».
di Maria Antonietta Calabrò
in “Corriere della Sera” del 6 gennaio 2014
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201401/140106calabr%f2.pdf
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