Il nuovo corso, ovvero “Muoia Sansone e tutti i filistei”
… alla latitanza della Chiesa istituzionale si accompagna da tempo quella del popolo. Di un intero popolo che, di fronte al nemico che avanza a marce forzate, non si dà troppa pena, non vuole vedere né sapere. E mentre qualcuno nega anche il pericolo quando l’esercito è già entrato in città, altri vedono la minaccia mortale e i soldati che sciamano indisturbati, ma vuole illudersi di avere una guida forte, capace di metterli in fuga… se non oggi, di certo domani o anche dopodomani, appena sbrigate altre faccende più urgenti. E non dubita neppure che, magari, con quel nemico sia già stata firmata una resa senza condizioni. Così ogni possibilità di difesa viene dissolta paradossalmente proprio in nome di una speranza senza oggetto.
di Patrizia Fermani
Da molto tempo Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno cercato di richiamare l’attenzione sullo scollamento di tanta parte della Chiesa, sempre più ansiosa di confondersi col mondo, dalla propria storia e dalla propria missione. Una Chiesa che non sembra più in grado di fornire alla società dei solidi canoni etici.
E’ vero che tale latitanza è risultata bilanciata almeno in parte dalla fermezza dottrinale dei pontefici. Soprattutto dall’intervento penetrante, inequivoco, costante, di Benedetto XVI che, impegnato per una intera vita a fornire agli uomini anche le ragioni della fede, ha continuato ad indicare a tutti con chiarezza come certi valori, una volta intaccati, avrebbero portato la rovina collettiva insieme alla perdizione individuale.
Tuttavia, ora che l’irrefragabilità dei principi etici è uscita dall’insegnamento papale ed è diventata una formula obsoleta, la Chiesa si occupa d’altro, quasi incurante del male in cui si consuma la società occidentale.
Mario Palmaro si è assunto ancora una volta il compito di denunciare questa micidiale latitanza, fattasi ora manifesta, con la famosa lettera a Cascioli sulla Bussola.
I passaggi del discorso sono semplici: c’è il pericolo imminente di annientamento di una società che ha perduto i fondamenti che le venivano dall’etica cristiana; maestra di vita cristiana è sempre stata la Chiesa, che però si è sottratta da tempo al proprio compito, fino a spogliarsene ora completamente. Gli unni sono alle porte, ma questa volta il Papa è altrove.
Palmaro ha lanciato un allarme ma ha anche avanzato una proposta. Siamo stati scaricati sull’isola e gli elicotteri sono ripartiti. Come organizzare la sopravvivenza dei miei figli e di quelli degli altri? Forse è possibile giocare un’ultima carta, l’unica perché gli elicotteri possano tornare e salvare questa generazione: non ci resta che richiamare con forza la Chiesa ad un compito che è parte integrante della sua missione evangelizzatrice, ad un dovere che essa ora tradisce, abbandonando i propri figli. Bisogna che tutti gli abitanti, anche quelli delle isole vicine, prendano coscienza del pericolo e finalmente si scuotano per protestare il proprio sgomento e la propria indignazione. E’ questa l’occasione per riorganizzare una lotta e per svegliare tante coscienze sopite, per tornare a sperare.
Dunque una chiamata alle armi, un appello all’onore della identità veramente cattolica, e all’orgoglio di chi intende combattere per la verità. Come spesso avviene nei momenti fatali della storia. Una chiamata alle armi per la salvezza di una società in procinto di essere annientata dalle forze del male, e per la quale la saldezza dottrinale della Chiesa, la proclamazione della legge fondamentale di Dio creatore, sono mezzo al fine. Un mezzo irrinunciabile e dovuto.
Il direttore si è mostrato sensibile alle preoccupazioni dell’autore ed ha aperto una discussione sotto il titolo emblematico “Il fumo di Satana”.
Molti hanno raccolto l’invito ad intervenire. Quasi tutti hanno ammesso di condividere quelle preoccupazioni, anche perchè è difficile non vedere, non sapere, non sentire che la terra già da tempo trema sotto i nostri piedi. Alcuni hanno riconosciuto la lontananza della Chiesa rispetto alla deriva etica della società, la sua fuga dalla realtà più minacciosa. Ma ai più è sembrato improprio vedere in questo delle responsabilità, altri le hanno riconosciute ma si sono rifiutati di trarne le conseguenze, altri ancora non hanno neppure affrontato il problema né colto il senso della proposta, e hanno parlato d’altro.
Ma conviene considerare in che modo le due questioni poste sul tappeto, quella della responsabilità della Chiesa nella crisi etica attuale e della necessità di insorgere richiamando la Chiesa alla propria missione, siano state sostanzialmente eluse fino ad essere neutralizzate.
Anzitutto è stata messa in sordina la gravità della situazione generale, come se questa, invece di essere il punto di partenza, sia un dato secondario e quasi scontato non meritevole di soverchia attenzione. Qualcuno l’ha ignorata del tutto e ha preferito dedicarsi ai massimi sistemi. Una volta scansato il problema della catastrofe che ci minaccia, anche quello della responsabilità della Chiesa, della sua omissione colpevole, diventa meno evidente. Se accantoniamo la causa del rimprovero, è facile dire che il rimprovero è fuori luogo, o comunque troppo severo. Perché se è pur vero che la Chiesa a volte ci sconcerta, ci delude, essa è guidata da Cristo e il Papa è infallibile. Stiamo in una botte di ferro. Se la giungla è scomoda è affare nostro, alla fine occorre spirito di adattamento e non c’è di che indignarsi.
Se il problema primo messo in campo è stato via via eluso fino a sparire, in generale il discorso si è andato concentrando sulla possibilità giuridica e teologica di una critica aperta, di una opposizione contro la Chiesa, oggi come in ogni tempo.
Alcuni hanno tagliato la testa al toro affermando categoricamente che l’etica non fa parte della evangelizzazione. Ci sono ragioni di competenza, scritturali e persino storiche. Ed è evidente che, se uccidiamo il toro, non c’è neppure motivo per fare la corrida. Non c’è nulla di cui la Chiesa possa essere rimproverata perché alla fine non c’è un dovere a cui è venuta meno. Chi sta nella giungla aspetti tempi migliori.
Di certo Palmaro, quando ha protestato contro l’inerzia della Chiesa, non ha pensato che la difesa di suo figlio dalla corruzione morale non rientrasse nel mansionario dei gesuiti, e tanto meno nella evangelizzazione. Lo ha dato per scontato perché ha letto il libro della Genesi, i dieci comandamenti, S. Paolo e i padri della Chiesa, che pure ora qualcuno vorrebbe ignorare. Ma soprattutto ha letto quella parte del Vangelo in cui si è scritto che chi scandalizza i piccoli deve legarsi una pietra al collo e gettarsi in mare. Senza sconti di misericordia pare di capire. Ma forse Palmaro non conosce la teologia sudamericana di Maradiaga, e non è al passo coi tempi.
Altri hanno a modo loro aggirato l’ostacolo della critica alla Chiesa e della protesta ricorrendo al principio indefettibile dell’obbedienza. Lo scudo dell’infallibilità era a portata di mano ed è stato imbracciato spavaldamente nonostante la fin troppo facile obiezione che l’infallibilità copre verità di fede che preesistono agli enunciati papali, e che con esse hanno a che fare di certo sia l’osservanza dei comandamenti sia la conseguente pratica pastorale volta a condurre il gregge sulla via tracciata da Dio creatore.
All’obbedienza ha fatto pure appello, paradossalmente, anche chi è consapevole di una realtà degenerata, riconosce le manchevolezze della Chiesa, riesce anche ad intravedere il collegamento causale tra le seconde e la prima, ma rifiuta categoricamente la possibilità di far valere il diritto di ribellarsi. Quasi che l’obbedienza non sia stata istituita a difesa della verità, ma sia un contenitore capace di adattarsi a qualunque contenuto. E con la contraddizione di sapere che una cosa è ingiusta, e decidere tranquillamente che debba essere avallata. Con buona pace di quanti continuano a pensare che l’obbedienza non deve giustificare l’esecuzione dell’ordine che si sa ingiusto.
Della possibilità di aspettare tempi migliori, senza darsi troppa pena, perché la speranza è comunque l’ultima a morire, è convinto chi, pur consapevole del pericolo imminente, delle responsabilità della Chiesa e del tradimento della dottrina, nutre la confortante certezza che la Provvidenza provvederà. Proprio come pensavano gli abitanti di Costantinopoli prima che le mura cadessero e lo sterco dei cavalli dell’Islam coprisse il sacrario di Haghia Sophia. E qui sovviene il vecchio detto popolare che vuole Dio propenso ad aiutare soltanto chi è disposto a metterci anche del suo.
Infine non manca chi, saltando a piè pari i dati di fatto, l’etica e la Sacra Scrittura, si appunta senza riserve sulla necessità di una adesione piena, cieca e appassionata al corso papale, quale che sia la sua direzione e le sue finalità. Qui lo strumentario dell’obbedienza viene utilizzato per cancellare ogni problema, ogni dubbio e ogni preoccupazione, perché l’unico orizzonte da abbracciare è quello della missione della Chiesa. Missione nella quale insieme a tante belle cose certamente non entra la conservazione dei principi etici fondamentali, ovvero la nostra sopravvivenza nella giungla hic et nunc.
Dunque alla fine, come si diceva all’inizio, la dotta discussione aperta sulla Bussola dalla famosa lettera di Palmaro pare aver imboccato una strada tutta sua, quella di una difesa di ufficio generica e immotivata di un nuovo corso della Chiesa di cui si stenta a vedere il luminoso esito finale. Insomma a cadere nel vuoto è stata proprio la proposta di Palmaro di giocare quell’ultima carta in una partita che sta per essere perduta rovinosamente. A riprova del fatto ormai evidente che alla latitanza della Chiesa istituzionale si accompagna da tempo quella del popolo. Di un intero popolo che, di fronte al nemico che avanza a marce forzate, non si dà troppa pena, non vuole vedere né sapere. E mentre qualcuno nega anche il pericolo quando l’esercito è già entrato in città, altri vedono la minaccia mortale e i soldati che sciamano indisturbati, ma vuole illudersi di avere una guida forte, capace di metterli in fuga… se non oggi, di certo domani o anche dopodomani, appena sbrigate altre faccende più urgenti. E non dubita neppure che, magari, con quel nemico sia già stata firmata una resa senza condizioni. Così ogni possibilità di difesa viene dissolta paradossalmente proprio in nome di una speranza senza oggetto.
Si sa che un pericolo concreto e già in atto possa essere sottovalutato o addirittura ignorato. La storia stessa ce ne offre esempi illustri, dalla caduta di Costantinopoli ai tanti ebrei che non hanno avvertito come plausibile il pericolo di una imminente deportazione. A quanti come noi non hanno creduto possibile che in paesi sedicenti civili Terri Schiavo o Eluana Englaro avrebbero potuto essere messe a morte, per arbitrio del potere, senza che nessuno fosse in grado di fermare le mani assassine.
Meno comprensibile è come sia possibile che chi pur dice di vedere e capire il pericolo, si spogli alla fine di ogni capacità critica e confidi in quanti il pericolo hanno contribuito a crearlo per inerzia e hanno in programma di non porvi alcun rimedio.
Così caro Mario, non ci resta che arrangiarci.. Magari costruire un riparo di fortuna per figli e nipoti, in attesa di essere raccolti da un ufo di passaggio, interessato a questi strani animali e alle loro curiose ideuzze. Da un qualche essere altrettanto strano, non ancora contaminato dalla civiltà del mondo che fu cristiano, quando i Maradiaga erano ancora di là da venire.
Da molto tempo Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno cercato di richiamare l’attenzione sullo scollamento di tanta parte della Chiesa, sempre più ansiosa di confondersi col mondo, dalla propria storia e dalla propria missione. Una Chiesa che non sembra più in grado di fornire alla società dei solidi canoni etici.
E’ vero che tale latitanza è risultata bilanciata almeno in parte dalla fermezza dottrinale dei pontefici. Soprattutto dall’intervento penetrante, inequivoco, costante, di Benedetto XVI che, impegnato per una intera vita a fornire agli uomini anche le ragioni della fede, ha continuato ad indicare a tutti con chiarezza come certi valori, una volta intaccati, avrebbero portato la rovina collettiva insieme alla perdizione individuale.
Tuttavia, ora che l’irrefragabilità dei principi etici è uscita dall’insegnamento papale ed è diventata una formula obsoleta, la Chiesa si occupa d’altro, quasi incurante del male in cui si consuma la società occidentale.
Mario Palmaro si è assunto ancora una volta il compito di denunciare questa micidiale latitanza, fattasi ora manifesta, con la famosa lettera a Cascioli sulla Bussola.
I passaggi del discorso sono semplici: c’è il pericolo imminente di annientamento di una società che ha perduto i fondamenti che le venivano dall’etica cristiana; maestra di vita cristiana è sempre stata la Chiesa, che però si è sottratta da tempo al proprio compito, fino a spogliarsene ora completamente. Gli unni sono alle porte, ma questa volta il Papa è altrove.
Palmaro ha lanciato un allarme ma ha anche avanzato una proposta. Siamo stati scaricati sull’isola e gli elicotteri sono ripartiti. Come organizzare la sopravvivenza dei miei figli e di quelli degli altri? Forse è possibile giocare un’ultima carta, l’unica perché gli elicotteri possano tornare e salvare questa generazione: non ci resta che richiamare con forza la Chiesa ad un compito che è parte integrante della sua missione evangelizzatrice, ad un dovere che essa ora tradisce, abbandonando i propri figli. Bisogna che tutti gli abitanti, anche quelli delle isole vicine, prendano coscienza del pericolo e finalmente si scuotano per protestare il proprio sgomento e la propria indignazione. E’ questa l’occasione per riorganizzare una lotta e per svegliare tante coscienze sopite, per tornare a sperare.
Dunque una chiamata alle armi, un appello all’onore della identità veramente cattolica, e all’orgoglio di chi intende combattere per la verità. Come spesso avviene nei momenti fatali della storia. Una chiamata alle armi per la salvezza di una società in procinto di essere annientata dalle forze del male, e per la quale la saldezza dottrinale della Chiesa, la proclamazione della legge fondamentale di Dio creatore, sono mezzo al fine. Un mezzo irrinunciabile e dovuto.
Il direttore si è mostrato sensibile alle preoccupazioni dell’autore ed ha aperto una discussione sotto il titolo emblematico “Il fumo di Satana”.
Molti hanno raccolto l’invito ad intervenire. Quasi tutti hanno ammesso di condividere quelle preoccupazioni, anche perchè è difficile non vedere, non sapere, non sentire che la terra già da tempo trema sotto i nostri piedi. Alcuni hanno riconosciuto la lontananza della Chiesa rispetto alla deriva etica della società, la sua fuga dalla realtà più minacciosa. Ma ai più è sembrato improprio vedere in questo delle responsabilità, altri le hanno riconosciute ma si sono rifiutati di trarne le conseguenze, altri ancora non hanno neppure affrontato il problema né colto il senso della proposta, e hanno parlato d’altro.
Ma conviene considerare in che modo le due questioni poste sul tappeto, quella della responsabilità della Chiesa nella crisi etica attuale e della necessità di insorgere richiamando la Chiesa alla propria missione, siano state sostanzialmente eluse fino ad essere neutralizzate.
Anzitutto è stata messa in sordina la gravità della situazione generale, come se questa, invece di essere il punto di partenza, sia un dato secondario e quasi scontato non meritevole di soverchia attenzione. Qualcuno l’ha ignorata del tutto e ha preferito dedicarsi ai massimi sistemi. Una volta scansato il problema della catastrofe che ci minaccia, anche quello della responsabilità della Chiesa, della sua omissione colpevole, diventa meno evidente. Se accantoniamo la causa del rimprovero, è facile dire che il rimprovero è fuori luogo, o comunque troppo severo. Perché se è pur vero che la Chiesa a volte ci sconcerta, ci delude, essa è guidata da Cristo e il Papa è infallibile. Stiamo in una botte di ferro. Se la giungla è scomoda è affare nostro, alla fine occorre spirito di adattamento e non c’è di che indignarsi.
Se il problema primo messo in campo è stato via via eluso fino a sparire, in generale il discorso si è andato concentrando sulla possibilità giuridica e teologica di una critica aperta, di una opposizione contro la Chiesa, oggi come in ogni tempo.
Alcuni hanno tagliato la testa al toro affermando categoricamente che l’etica non fa parte della evangelizzazione. Ci sono ragioni di competenza, scritturali e persino storiche. Ed è evidente che, se uccidiamo il toro, non c’è neppure motivo per fare la corrida. Non c’è nulla di cui la Chiesa possa essere rimproverata perché alla fine non c’è un dovere a cui è venuta meno. Chi sta nella giungla aspetti tempi migliori.
Di certo Palmaro, quando ha protestato contro l’inerzia della Chiesa, non ha pensato che la difesa di suo figlio dalla corruzione morale non rientrasse nel mansionario dei gesuiti, e tanto meno nella evangelizzazione. Lo ha dato per scontato perché ha letto il libro della Genesi, i dieci comandamenti, S. Paolo e i padri della Chiesa, che pure ora qualcuno vorrebbe ignorare. Ma soprattutto ha letto quella parte del Vangelo in cui si è scritto che chi scandalizza i piccoli deve legarsi una pietra al collo e gettarsi in mare. Senza sconti di misericordia pare di capire. Ma forse Palmaro non conosce la teologia sudamericana di Maradiaga, e non è al passo coi tempi.
Altri hanno a modo loro aggirato l’ostacolo della critica alla Chiesa e della protesta ricorrendo al principio indefettibile dell’obbedienza. Lo scudo dell’infallibilità era a portata di mano ed è stato imbracciato spavaldamente nonostante la fin troppo facile obiezione che l’infallibilità copre verità di fede che preesistono agli enunciati papali, e che con esse hanno a che fare di certo sia l’osservanza dei comandamenti sia la conseguente pratica pastorale volta a condurre il gregge sulla via tracciata da Dio creatore.
All’obbedienza ha fatto pure appello, paradossalmente, anche chi è consapevole di una realtà degenerata, riconosce le manchevolezze della Chiesa, riesce anche ad intravedere il collegamento causale tra le seconde e la prima, ma rifiuta categoricamente la possibilità di far valere il diritto di ribellarsi. Quasi che l’obbedienza non sia stata istituita a difesa della verità, ma sia un contenitore capace di adattarsi a qualunque contenuto. E con la contraddizione di sapere che una cosa è ingiusta, e decidere tranquillamente che debba essere avallata. Con buona pace di quanti continuano a pensare che l’obbedienza non deve giustificare l’esecuzione dell’ordine che si sa ingiusto.
Della possibilità di aspettare tempi migliori, senza darsi troppa pena, perché la speranza è comunque l’ultima a morire, è convinto chi, pur consapevole del pericolo imminente, delle responsabilità della Chiesa e del tradimento della dottrina, nutre la confortante certezza che la Provvidenza provvederà. Proprio come pensavano gli abitanti di Costantinopoli prima che le mura cadessero e lo sterco dei cavalli dell’Islam coprisse il sacrario di Haghia Sophia. E qui sovviene il vecchio detto popolare che vuole Dio propenso ad aiutare soltanto chi è disposto a metterci anche del suo.
Infine non manca chi, saltando a piè pari i dati di fatto, l’etica e la Sacra Scrittura, si appunta senza riserve sulla necessità di una adesione piena, cieca e appassionata al corso papale, quale che sia la sua direzione e le sue finalità. Qui lo strumentario dell’obbedienza viene utilizzato per cancellare ogni problema, ogni dubbio e ogni preoccupazione, perché l’unico orizzonte da abbracciare è quello della missione della Chiesa. Missione nella quale insieme a tante belle cose certamente non entra la conservazione dei principi etici fondamentali, ovvero la nostra sopravvivenza nella giungla hic et nunc.
Dunque alla fine, come si diceva all’inizio, la dotta discussione aperta sulla Bussola dalla famosa lettera di Palmaro pare aver imboccato una strada tutta sua, quella di una difesa di ufficio generica e immotivata di un nuovo corso della Chiesa di cui si stenta a vedere il luminoso esito finale. Insomma a cadere nel vuoto è stata proprio la proposta di Palmaro di giocare quell’ultima carta in una partita che sta per essere perduta rovinosamente. A riprova del fatto ormai evidente che alla latitanza della Chiesa istituzionale si accompagna da tempo quella del popolo. Di un intero popolo che, di fronte al nemico che avanza a marce forzate, non si dà troppa pena, non vuole vedere né sapere. E mentre qualcuno nega anche il pericolo quando l’esercito è già entrato in città, altri vedono la minaccia mortale e i soldati che sciamano indisturbati, ma vuole illudersi di avere una guida forte, capace di metterli in fuga… se non oggi, di certo domani o anche dopodomani, appena sbrigate altre faccende più urgenti. E non dubita neppure che, magari, con quel nemico sia già stata firmata una resa senza condizioni. Così ogni possibilità di difesa viene dissolta paradossalmente proprio in nome di una speranza senza oggetto.
Si sa che un pericolo concreto e già in atto possa essere sottovalutato o addirittura ignorato. La storia stessa ce ne offre esempi illustri, dalla caduta di Costantinopoli ai tanti ebrei che non hanno avvertito come plausibile il pericolo di una imminente deportazione. A quanti come noi non hanno creduto possibile che in paesi sedicenti civili Terri Schiavo o Eluana Englaro avrebbero potuto essere messe a morte, per arbitrio del potere, senza che nessuno fosse in grado di fermare le mani assassine.
Meno comprensibile è come sia possibile che chi pur dice di vedere e capire il pericolo, si spogli alla fine di ogni capacità critica e confidi in quanti il pericolo hanno contribuito a crearlo per inerzia e hanno in programma di non porvi alcun rimedio.
Così caro Mario, non ci resta che arrangiarci.. Magari costruire un riparo di fortuna per figli e nipoti, in attesa di essere raccolti da un ufo di passaggio, interessato a questi strani animali e alle loro curiose ideuzze. Da un qualche essere altrettanto strano, non ancora contaminato dalla civiltà del mondo che fu cristiano, quando i Maradiaga erano ancora di là da venire.
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