la libertà non è liberal
First freedom (in America), i sacramenti non si toccano, dice O’Malley
“Non vedo alcuna giustificazione teologica per cambiare l’atteggiamento della chiesa sulla riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti”. Il cardinale Sean O’Malley, frate cappuccino, arcivescovo di Boston e unico statunitense a far parte della consulta papale chiamata a rifondare la curia romana, frena gli episcopati pronti a fare del Sinodo una sorta di Vaticano III in cui ribaltare la morale sessuale cattolica e, considerata l’occasione propizia, consegnare per sempre agli archivi pure l’Humanae Vitae di Paolo VI. Qualcuno, come il vescovo di Treviri, Stephen Ackermann, aspirante capo dei vescovi tedeschi, l’ha già fatto intendere. Il tutto motivato dalla necessità di adeguarsi allo spirito del tempo. Ragione che fa sobbalzare il cardinale O’Malley, intervistato dal vaticanista John Allen per il Boston Globe: “La chiesa non può cambiare le sue posizioni a seconda dei tempi”. Ecco perché è meglio togliersi dalla testa l’idea che Francesco compia svolte storiche su contraccezione, omosessualità e aborto.
Il porporato col saio è uomo prudente, lontano dalla linea dei “conservatori aperti al mondo” che ha nel cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, il suo rappresentante principale. Soprattutto, O’Malley è molto vicino a Francesco. Si conoscono da tempo, “è l’unico che lo conosceva bene ancor prima dell’elezione”, nota Allen. Il cappuccino parla spagnolo, ha iniziato a fare il missionario nelle isole Vergini. Un aspetto, questo, tutt’altro che marginale, spiega al Foglio Massimo Faggioli, storico del cristianesimo “di scuola Vaticano II” alla University of St. Thomas di Minneapolis: “O’Malley agisce come vescovo di una chiesa fatta in gran parte da latinos, i quali sfuggono al paradigma classico conservatori-liberal. E’ un cattolico sociale come Francesco, basta guardare il suo atteggiamento su giustizia sociale ed economia”. Le sue parole al Boston Globe danno sfogo a un malcontento verso il Papa preso quasi alla fine del mondo che non accenna a diminuire con i mesi che passano dall’insediamento sul Soglio di Pietro. Tutto è cominciato con l’invito rivolto da Francesco a non ossessionare i fedeli con una moltitudine di dottrine disarticolate e a non parlare sempre di aborto, contraccezione e nozze gay, dal momento che su questi temi “la posizione della chiesa è già nota”. Istruzioni che preludevano a un cambio di rotta: meno baionette issate sui pulpiti e più prediche su povertà e miseria; meno marce contro il governo federale e più uscite in periferia. Sostanzialmente, si sarebbe trattato di archiviare una lunga stagione che ha visto l’episcopato d’America assai sensibile alle battaglie in difesa dei princìpi non negoziabili e impegnato in una dialettica continua (a tratti aspra) con le istituzioni politiche. Da qui l’origine del malumore nei confronti del Pontefice argentino, sovente espresso pubblicamente anche da qualche presule di rango come l’arcivescovo di Filadelfia, mons. Charles Chaput.
“O’Malley – spiega Faggioli – è uomo raffinato, non condivide il diffuso malcontento che c’è verso Francesco, ma sa che il problema della chiesa non è quello della riforma della disciplina dei sacramenti, né pensa che ogni problema si possa risolvere dicendo sì alle posizioni tipiche della cultura liberal”. O’Malley è consapevole, però, che “Francesco ha un problema americano”, aggiunge il nostro interlocutore: in riferimento alla complessa realtà degli Stati Uniti, “non si sa come la pensi, quanto ne sappia, quanto la controlli”. Qualcosa in più, secondo Faggioli – autore di “Papa Francesco e la chiesa-mondo” (Armando), si capirà dalla scelta che entro l’anno il Papa compierà per la cattedra episcopale di Chicago, appuntamento che non a caso anche il Wall Street Journal di venerdì scorso segnalava come di assoluto rilievo: “Decisione di assoluta importanza. Quella città è diventata il simbolo della lotta tra due culture. Da una parte quella che ha avuto come protagonista il cardinale Joseph Bernardin, dall’altra quella impersonata dal cardinale Francis George. Il primo diventato l’icona di un certo cattolicesimo conciliare non necessariamente liberal, il secondo che è stato l’artefice della svolta a destra della conferenza episcopale americana”. Ecco perché “il nome del successore di George dirà molto sul tipo di chiesa che ha in mente Francesco e soprattutto farà capire il grado di controllo che ha sulla chiesa americana. Finora l’unico provvedimento adottato in relazione agli Stati Uniti è l’esclusione del cardinale tradizionalista Raymond Burke dalla congregazione per i Vescovi”. I rapporti di Bergoglio con il mondo anglosassone – continua Faggioli – “sono molto limitati. E’ un problema culturale, ha avuto pochissimi rapporti con quella realtà. E poi è un latinoamericano, il che comporta una certa quantità di anti americanismo. Negli Stati Uniti questo si sa bene, solo che non si può accusare esplicitamente il Pontefice di essere anti yankee. E’ una questione latente”. Sono tanti i campi sui quali Francesco è distante da quel mondo, “basti pensare alla considerazione che ha dell’eccezionalismo americano”.
Un punto di contatto tra Francesco e conferenza episcopale americana sembrava essere stato trovato lo scorso novembre, quando a capo dei vescovi fu eletto mons.Joseph Kurtz, vescovo di Louisville. Moderato e dal profilo adatto alla mediazione molto più del “muscolare” Dolan, si diceva. Un presule flessibile e capace di adattare la linea dell’episcopato alla nuova agenda di Bergoglio e, allo stesso tempo, di imbastire un proficuo dialogo con la Casa Bianca obamiana. Ma alla prima prova pratica, a fine dicembre, Kurtz ha inviato una dura lettera al presidente circa l’entrata in vigore della riforma sanitaria. Tra le benedizioni di rito, il capo dei vescovi d’America imputava a Obama di violare il diritto alla libertà religiosa dei suoi cittadini, “First freedom”. Non proprio un esordio conciliante.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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