Questo
post è legato a quello immediatamente precedente. Abbiamo visto
l'anemia crescente del Cristianesimo occidentale, anemia che si
manifesta inevitabilmente nella sua liturgia in cui si riflette sempre
meno la divinità di Cristo, il dogma della Trinità, tutto quello che ha
sapore di trascendenza. Oramai è prevalentemente un discorso umano, con
speranze umane e logiche umane. Il tutto è coperto dal zucchero a velo
del sentimentalismo religioso.
Le
rare volte in cui mi capita di entrare in una chiesa cattolica in cui
si celebra con la messa riformata vengo sempre assalito da una triste
sensazione, come se tutto quello che sento non si distanziasse che ben
poco da un livello di chiacchiere da osteria. A differenza dell'osteria
in chiesa, magari, si fanno discorsi un poco più seri ma la logica di
fondo non cambia. È tutto così sconfortatamente "troppo umano" da
lasciare la bocca asciutta e inaridire il cuore. Mi chiedo come mai i
cristiani non se ne accorgono ma, forse, tutto questo è analogo alla
differenza tra il surrogato e il caffé: per accorgersi della differenza
tra i due bisogna prima aver conosciuto cosa sia un buon caffé. Chi non
ha mai sentito il buon caffé si accontenterà anche del prodotto più
scadente che gli viene fatto passare per caffé...
Qualche
anno fa', quando andai al funerale di una mia zia, ebbi modo di sentire
nella messa dei testi che, in parte, riflettevano espressioni
tradizionali ma, in parte, avevano concezioni troppo umanistiche, così
umanistiche da creare una sorta di chiusura della terra in se stessa:
non era possibile avere sensazione di cielo. E sono certo di non
esagerare!
Questo è il livello miserevole al quale la maggioranza dei chierici ha steso la Cristianità, forse spinti da cause esterne (qualcuno non cristiano con molti soldi e potere li deve avere spinti a farlo). Poi coprono il tutto con le migliori intenzioni e propositi. Riempiono la testa di dolci parole ma lasciano il cuore a digiuno! Ed è il cuore a smascherare questa falsità.
Ebbene,
questo processo continua e, in un certo senso, si sta radicalizzando:
abbiamo recentemente visto il relativismo papale che spinge ognuno a
cercare la sua spiritualità, il cristiano nella Bibbia, il mussulmano
nel Corano, l'ebreo nell'interpretazione rabbinica della Scrittura.
Abbiamo visto che pure l'ateo è lasciato alla sua "buona coscienza"
poiché l'unico vero peccato, oramai, pare essere solo l'ingiustizia
sociale.
Non si vede che, o prima o poi, questo relativismo porterà alla morte del Cristianesimo stesso. Non lo si vede e pare non esistere alcuna preoccupazione: il cuore di questi chierici è altrove!
Non si vede che, o prima o poi, questo relativismo porterà alla morte del Cristianesimo stesso. Non lo si vede e pare non esistere alcuna preoccupazione: il cuore di questi chierici è altrove!
Ebbene, nonostante ciò, succedono fatti in perfetta controtendenza.
Uno
di questi è la strana storia di Gulshan Esther, una mussulmana
convertita al Cristianesimo in seguito a fatti assai singolari. È vero
che la forma di Cristianesimo a cui questa islamica pakistana si
convertì è quella di tipo protestante. Ma è altrettanto vero che il
contesto in cui avvenne (una società interamente mussulmana), la
modalità in cui avvenne (una specie di "rivelazione" divina personale) e
i particolari di tutta la sua storia, sono cose da non sottovalutare.
Lei stessa ad un certo punto dice che con l'Islam non si va in Paradiso,
cose che oggi pure un papa si vergogna di affermare.
Includo
questa storia per dire che, nonostante i profondi tradimenti del clero,
i pasticci assurdi dei cristiani, l'imbastardimento del Cristianesimo
attuale, Gesù Cristo è e rimane sempre il Signore dei signori e, quando e
come vuole, è in grado di capovolgere le cose.
Quanto
segue è il primo capitolo del libro della vita di Gulshan Esther tratta
dal libro "Il velo strappato". Alla fine del capitolo c'è un video nel
quale parla della sua vicenda (con traduzione in francese).
_____________
VERSO LA MECCA
Non avrei dovuto recarmi in Inghilterra in quella estate del 1966 secondo l’ordinario corso degli eventi.
Io,
Gulshan Fatima, la figlia minore di una famiglia Sayed, musulmana
discendente diretta del profeta Maometto attraverso l’altra Fatima, sua
figlia, avevo sempre vissuto una tranquilla vita costretta nella mia
casa, quasi reclusa, nella regione del Punjab, Pakistan. E ciò non solo
perché ero stata educata secondo la purdah sin dall’età di sette anni
nel pieno rispetto dei più rigidi dettami del codice islamico ortodosso
sciita, ma anche perché paralizzata e quindi incapace di lasciare la mia
stanza senza l’aiuto di qualcuno.
Il
mio volto era velato agli occhi degli uomini, fatta rara eccezione per i
parenti più prossimi come mio padre, i due fratelli maggiori e mio zio.
Per i primi quattordici anni della mia debole esistenza i muri
delimitanti il perimetro di un grande giardino a Jhang, a circa 250
miglia da Lahore, costituirono per me i confini del mondo.
Fu
mio padre a portarmi in Inghilterra – proprio lui che aveva sempre
guardato con sospetto quegli inglesi che adoravano tre dei invece di un
solo Dio. Non mi permetteva neppure di studiare la lingua degli infedeli
durante le mie lezioni con Razia, la mia insegnante, per paura che
potessi in qualche modo essere contaminata da quell’errore ed essere
così allontanata dalla nostra fede. Eppure decise di portarmi fin là
dopo aver speso una quantità enorme di denaro in patria nel tentativo di
trovare una cura che giovasse alla mia condizione o il miglior
consiglio medico. Fece tutto questo per amore, preoccupandosi della mia
felicità futura; ma quanto poco sapevamo dei problemi e del dolore che
attendevano, nascosti dietro l’angolo, la mia famiglia quando atterrammo
all’aeroporto di Heathrow quel giorno all’inizio di aprile. Strano che
io, la figlia paralitica, la più debole dei cinque figli, mi sarei
rivelata alla fine la più forte di tutti e sarei diventata una roccia
per dare rifugio a tutto ciò che egli aveva di più caro.
Ancora
oggi, nella mia maturità, mi basta chiudere gli occhi per vedere subito
con la mia mente un’ immagine a me cara: quella di mio padre, il dolce
Aba-Jan; così alto e magro, sempre ben vestito nel suo perfetto abito
nero dal collo alto fermato con bottoni d’oro, pantaloni ampi e un
turbante bianco avvolto sul capo con della seta blu. Lo vedo così,
quando da bambina, come suo solito, entrava nella mia stanza per
insegnarmi la mia religione.
Lo
vedo in piedi accanto al mio letto, davanti all’immagine della casa di
Dio, La Mecca, il luogo più sacro per l’Islam, la Ka’aba, voluta secondo
la tradizione da Abramo e restaurata da Maometto. Papà sfila il Santo
Corano dallo scaffale, il luogo più alto in quella stanza, perché niente
deve trovarsi al di sopra del Corano.
Bacia
innanzitutto la copertina di seta verde e recita il Bismillah
i-Rahman-ir-Raheem (io inizio nel nome di Dio, il Misericordioso e
Compassionevole), aprendone quindi la copertina di seta verde, dopo aver
precedentemente, con molta cura, eseguito il Wudu, le abluzioni rituali
necessarie prima di poter toccare o aprire il libro sacro. Ripete il
Bismillah e poi mette il Sacro Corano su di un rail, uno speciale leggìo
a forma di X, toccando il libro solo con la punta delle dita. Si siede
così che anch’io, adagiata comodamente su di una sedia, possa leggere.
Anch’io ho eseguito a mia volta il Wudu aiutata dalle mie serve.
Papà
fa scorrere le dita sullo scritto arabo finemente decorato mentre io
ansiosa di compiacerlo ripeto dopo di lui la Fatiha, l’Inizio, cioè
quelle parole che legano insieme tutti i musulmani in qualunque parte si
trovino:
“Lode sia ad Allah Signore della Creazione,
pieno di Compassione, Misericordioso,
Re nel giorno del giudizio!
noi adoriamo solo te e a te solo chiediamo aiuto,
guidaci sul giusto cammino,
il cammino di coloro sui quali hai mostrato il tuo favore,
non di coloro sui quali hai riversato lo sdegno o coloro
che si sono allontanati da te e sono persi”.
Dal Sura oggi noi leggeremo gli Imrans:
Allah!
non c’è altro Dio al di fuori di lui, il vivente, l’Eterno. Egli ha
rivelato a te il libro con la verità confermando le scritture che lo
hanno preceduto: poiché egli ha già rivelato la Torah ed il Vangelo come
guida degli uomini e la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato.
Faccio
ciò che ogni bambino musulmano di famiglia ortodossa impara a fare sin
dai primi anni della sua infanzia, leggere cioè il Sacro Corano in
arabo. Si può comprendere solo in arabo, la lingua in cui fu scritto.
Noi musulmani sappiamo che non può essere tradotto senza correre il
rischio di perdere qualcosa del suo significato. Si tratta di un libro
sacro e non un libro qualsiasi.
Quando
si termina la lettura completa del sacro testo per la prima volta – io
avevo circa sette anni e questa età viene considerata l’età della
discrezione – si dà una festa. La chiamiamo “ameen del Santo Corano” in
cui tutti i membri della famiglia, gli amici ed i vicini sono invitati.
Nel luogo centrale del bungalow dove gli uomini siedono separati dalle
donne da un divisorio, il mullah recita delle preghiere che segnano
l’ingresso in questa importante e nuova fase della vita mentre le donne
che sono sedute nell’area del cortile ad esse destinata, smettono di
parlare per ascoltare.
Siamo
giunti alla fine del Sura. Ora inizia il mio catechismo. Papà mi guarda
accennando un sorriso, dice “Ben fatto piccola Beiti (figlia)”. Ora
rispondi a queste domande: “Dove è Allah?”
Vergognandomi ripeto la lezione che conosco così bene: “Allah è dappertutto”.
“Allah vede tutte le azioni che fai sulla terra?”.
“Sì, Allah vede tutte le azioni che faccio sulla terra, sia buone che cattive e conosce anche i miei pensieri nascosti”.
“Che cosa ha fatto Allah per te?”
“Allah
mi ha creato e ha creato non solo me ma tutto il mondo. Lui mi ama e ha
cura di me. Mi ricompenserà con il cielo per le mie buone azioni e mi
punirà con l’inferno, per tutte le opere cattive”.
“Come puoi guadagnare l’amore di Allah?”
“Posso
guadagnarmi l’amore di Allah tramite una sottomissione completa alla
sua volontà e mediante un’obbedienza totale ai suoi comandamenti”. “Come
puoi conoscere la volontà ed i comandamenti di Allah?”
“Io
posso solo conoscere la volontà e i comandamenti di Allah mediante il
Santo Corano e le Tradizioni del nostro Profeta Maometto (possano la
pace e la benedizione di Allah essere su di lui)”.
“Molto bene” dice mio padre, “ora c’è qualcosa che vuoi sapere? Hai delle domande?”
“Sì
padre, ti prego, spiegami perché l’ Islam sia migliore delle altre
religioni?”, chiedo ciò non perché io conosca tutto sulle altre
religioni ma perché mi piace ascoltarlo parlare della nostra.
La
risposta di mio padre è chiara e definita. “Gulshan, io voglio che ti
ricordi sempre questo: la nostra religione è più grande di qualsiasi
altra perché Maometto è innanzitutto la gloria di Dio. Ci sono stati
molti altri profeti, ma Maometto ha portato il messaggio finale di Dio
all’umanità e non c’è nessun bisogno di un altro profeta dopo di lui. In
secondo luogo Maometto è amico di Dio; egli distrusse tutti gli idoli e
convertì all’Islam il popolo che li aveva adorati. In terzo luogo Dio
dette il Corano, il libro più sacro di tutti a Maometto. È l’ultima
parola di Dio e noi dobbiamo obbedire a questa parola; tutte le altre
scritture sono incomplete”.
Io ascolto. Le sue parole s’incidono,
s’intagliano sulle tavole della mia mente e del mio cuore. Se abbiamo
tempo, gli chiederò di illustrarmi ancora una volta l’immagine appesa
nella mia stanza.
“Che
cosa significa andare in pellegrinaggio alla città santa della Mecca,
quel magnete verso cui ogni musulmano si volta cinque volte al giorno
per pregare? E anche noi ci voltiamo in direzione della Mecca nella
nostra città quando il muezzin richiama all’azzan dal minareto della
moschea. Quel suono riecheggia lungo le stradine, tra il rumore del
traffico e dei commerci ed entra nelle nostre finestre chiuse all’alba, a
mezzogiorno, nel pomeriggio e di sera chiamando il fedele alla
preghiera con la prima dichiarazione dell’Islam:
“La ilaha ill Allah,
Muhammad rasoolullah!
Non c’è Dio al di fuori di Allah:
e Maometto è il suo profeta”.
Papà mi spiega tutto. È stato due volte in pellegrinaggio - una volta da solo e una volta con sua moglie, che è mia madre.
Ogni
musulmano deve recarvisi almeno una volta nella vita e più volte se è
una persona ricca; andare in pellegrinaggio è il quinto dei cinque
pilastri dell’Islam che uniscono milioni di musulmani in molti paesi
differenti ed assicurano la continuazione della nostra fede.
“Papà
anch’io andrò alla Mecca?” gli chiedo. Lui sorride e si abbassa per
baciarmi la fronte: “Certo che ci andrai piccola Gulshan. Quando sarai
più grande e forse…” Non finisce la frase ma io so che cosa vuole dire:
“quando le nostre preghiere per te troveranno risposta”.
Questi momenti m’insegnano
la devozione verso Dio, l’attaccamento alla mia religione e alle sue
tradizioni, un fiero orgoglio della mia discendenza dal profeta Maometto
mediante suo genero Alì ed una comprensione della dignità di mio padre
che non è solo il capo della nostra famiglia ma anche un discendente del
Profeta, un Sayed e anche uno Shah. È anche un Pir, cioè un leader
religioso con grandi possedimenti in tutto il paese ed un enorme
bungalow pieno di ogni comodità circondato da giardini nella nostra
città.
Ora
inizio a comprendere per quale motivo siamo così rispettati come
famiglia anche dal mullah o maulvi che viene a rivolgere le sue domande a
mio padre, domande religiose a cui egli stesso non riesce a trovare
risposta. Guardando indietro posso scorgere lo scopo di quegli anni di
schiavitù quando la mente e lo spirito si schiudevano come i boccioli di
rosa nel nostro giardino ridente, così tenuto con amorevole cura dai
giardinieri.
Il
mio nome Gulshan nella lingua Urdu significa “luogo dei fiori,
giardino”. Io, una pianticella malata con un nome simile, ero veramente
tenuta come quei fiori da mio padre.
Lui
ci amava tutti - i suoi due figli Safdar Shah e Alim Shah; le tre
figlie Anis Bibi, Samina ed io. Sebbene l’avessi deluso una prima volta
poiché ero nata donna e poi a sei mesi perché resa paralitica dal tifo,
mio padre mi amava ugualmente o forse anche più degli altri.
Non
era forse stata mia madre stessa a lasciargli questo sacro compito di
prendersi cura di me sul letto di morte? “Ti prego Shah-ji non sposarti
di nuovo per amore della piccola Gulschan”. Queste furono le sue ultime
parole prima di morire. Desiderava proteggermi da una matrigna e dai
suoi figli e la mia dote dalla spoliazione in quanto figlia della prima
moglie e dall’esser trattata in modo scortese perché ero malata e
nubile.
Mio
padre aveva promesso di far ciò molto tempo prima e rimase fedele alla
parola data in un paese in cui, secondo il Corano, un uomo può avere
fino a cinque mogli se è abbastanza ricco da poter garantire a tutte la
stessa qualità di vita.
La
mia vita procedette indisturbata secondo questo schema fino a quella
visita in Inghilterra all’età di quattordici anni. Il terzo giorno tutto
iniziò a cambiare in modo subdolo innescando una catena di conseguenze
sorprendenti. E non potevo prevedere nulla mentre attendevo nella stanza
d’albergo a Londra insieme a Samina e Sema.
Eravamo
in attesa del verdetto dello specialista inglese del quale mio padre
aveva tanto sentito parlare in Pakistan mentre continuava la sua ricerca
di un trattamento medico migliore. Questo dottore si sarebbe
pronunciato una volta per tutte su quello che sarebbe stato il mio
futuro.
Se
fossi guarita da questa malattia che aveva paralizzato tutta la parte
sinistra del mio corpo poco dopo la nascita, allora avrei potuto sposare
mio cugino al quale ero stata promessa in moglie già dall’età di tre
mesi e che ora in casa a Multan, nel Punjab, attendeva notizie sullo
stato della mia salute. Qualora non fossi guarita, la promessa di
matrimonio poteva essere sciolta, ma avrei provato una vergogna maggiore
che essere prima sposata e poi abbandonata da mio marito.
Avvertimmo
il rumore dei passi. Samina e Sema subito si alzarono, aggiustandosi i
loro lunghi dupatta con nervosismo. Samina aggiustò il mio sul volto
mentre ero sdraiata sul mio letto. Tremavo, certamente non per il
freddo. Cercavo di serrare i denti per fermarli ed impedire che
battessero tra loro. La porta si aprì; mio padre entrò insieme al
dottore. “Buongiorno”, disse una voce molto gentile e piacevole. Io non
riuscivo a vedere la faccia del dottor David, ma c’era un’atmosfera di
autorità e di conoscenza intorno a lui.
Mani
ferme tirarono su la lunga manica del mio abito e cominciarono a
palpare il braccio sinistro molle. Passarono poi alla gamba sinistra,
anch’essa immobile. Passò un minuto e poi lo specialista si pronunciò.
“Per
questo caso non c’è cura, solo la preghiera” disse il dottor David a
mio padre. Non c’era nulla che equivocasse la quieta finalità della sua
voce.
Giacevo
sul mio letto ed ascoltavo il nome di Dio usato da quello strano
dottore inglese. Ero molto confusa. Che cosa poteva mai sapere di Dio?
I
suoi modi gentili e partecipi rivelavano ciò che stava accadendo: ogni
speranza di guarigione era svanita per sempre. Egli però aveva indicato
la via della preghiera.
Mio padre lo accompagnò alla porta e quando tornò indietro disse: “È stato bello che un inglese ci abbia detto di pregare”.
Samina
mi tolse il dupatta (velo) dal volto e mi aiutò a sedere. “Papà, non
può fare nulla perché io stia meglio?” La mia voce tremava. I miei occhi
erano pieni di lacrime. Mio padre strinse la mia mano senza vita e
disse sollecitamente “C’è un solo modo. Bussare alla porta celeste.
Andremo alla Mecca come volevamo fare. Dio ascolterà le nostre preghiere
e torneremo a casa pieni di ringraziamento”. Mi sorrise ed io cercai di
sorridergli in risposta. Il mio dolore era il suo, ma egli non era
nella disperazione. C’era una speranza rinnovata nella sua voce.
Sicuramente alla Casa di Dio o alla fonte miracolosa di Zamzam avremmo
trovato risposta al desiderio del nostro cuore.
Rimanemmo
in quell’albergo qualche altro giorno finché papà riuscisse a trovare
posto sul volo di ritorno che passava per Jeddah, l’aeroporto in cui
atterrano tutti quelli che si recano alla Mecca; non l’aveva fatto prima
perché aveva voluto attendere quello che il medico avrebbe detto e le
cure a cui avrei dovuto sottopormi. Aveva già previsto questa visita
prima del mese in cui quell’anno cadeva il pellegrinaggio alla Mecca
come ringraziamento per le cure mediche.
Durante
quei giorni che precedettero il ritorno, papà andò a visitare alcuni
amici della comunità pakistana ed alcuni vennero da lui. Normalmente le
donne di quelle famiglie mi avrebbero fatto visita, ma per la vergogna
della mia condizione e non sentendomi a mio agio nell’accogliere degli
sconosciuti in casa, poche di loro bussarono alla nostra porta.
Chi
avrebbe mai desiderato vedere quegli arti inariditi, privi di vigore e
di vitalità che al tatto apparivano come una molle gelatina?
Mentre
le mie coetanee iniziavano a sognare il giorno in cui avrebbero
indossato l’ abito nuziale rosso ricamato d’ oro e piene di gioielli
sarebbero andate a vivere nella casa dei loro mariti portandosi dietro
la dote, io dovevo fare i conti con un futuro fatto di solitudine.
Tagliata fuori dai miei simili, una non-persona. Non sarei mai stata
completamente una donna e perciò dovevo nascondermi dietro ad un velo di
vergogna.
Alloggiavamo
in una stanza confortevole al secondo piano dell’albergo accanto a
quella di mio padre. C’erano tappeti spessi e un bagno nella nostra
camera. Samina e Sema dormivano nella mia stanza su un letto pieghevole
alzandosi a turno per aiutarmi. Oltre a prendersi cura di me e lavare a
mano la biancheria intima nella nostra stanza da bagno, non avevano
altro da fare.
Il
tempo tuttavia trascorse abbastanza velocemente impegnata con i libri, i
cinque momenti di preghiera ed i riti ordinari di lavarsi, vestirsi e
mangiare che richiedono molto più tempo quando riguardano una persona
disabile.
Ascoltavo
i pettegolezzi di Samina e Sema che di tanto in tanto facevano qualche
veloce visita ai negozi in strada, ma avevano sempre paura di girare da
sole. Normalmente si contentavano di osservare il mondo esterno
attraverso la finestra descrivendomi quello che vedevano.
Le
loro reazioni erano quelle tipiche delle ragazze di campagna del
Pakistan e talvolta mi facevano ridere. “Oh che bella città”, diceva
Samina, “Quanta gente che cammina su e giù per la strada e quante auto!”
Poi un grido da parte di Sema: “Guarda, le donne hanno delle gambe nude
qua, ma non se ne vergognano? Uomini e donne camminano insieme
tenendosi per mano. Si stanno baciando. Andranno direttamente all’
inferno!”.
Eravamo
cresciute nell’osservanza di regole ferree riguardanti l’abbigliamento e
il comportamento sin dalla nostra infanzia. Eravamo coperte con
modestia dal collo fino alle caviglie dallo shalwar kameeze del Punjab -
una tunica lunga e molto ampia sotto la quale indossavamo dei pantaloni
che arrivavano appunto alla caviglia.
Il
collo era avvolto da una lunga e ampia sciarpa, detta dupatta, che
serviva a coprire il capo e quando era necessario poteva essere tirata
giù per coprire il volto. Quando faceva freddo ci avvolgevamo con uno
scialle; se uscivamo, indossavamo il burka, un velo impenetrabile e
lungo che ci copriva dalla testa fino ai piedi. Partiva dalla testa e
all’altezza del volto aveva un’apertura con una fitta rete che ci
permetteva di guardare all’esterno del burka stesso.
Rendeva
impossibile la benché minima conversazione per strada e limitava la
capacità di vedere e di ascoltare di chi lo indossava.
A
quei tempi non mettevamo in discussione le regole che governavano la
nostra vita; eravamo terrorizzate anche solo a pensarlo. Avrebbe
significato rinnegare le nostre convinzioni; il velo infatti era una
protezione: potevamo guardare fuori, verso il mondo, ma il mondo non
poteva guardarci.
Osservando
il modo in cui erano vestite le donne a Londra, con quelle minigonne
ben al di sopra del ginocchio, era ovvio che tutte e tre ci trovassimo
d’accordo nel ritenere che fosse la città più perversa del mondo.
Parlare
ad un uomo che non fosse un membro della famiglia o a un servo o a un
cameriere di sesso maschile bastava a rovinare per sempre la reputazione
di una donna nel nostro paese e ancora di più nella nostra città.
Scopo
ultimo del purdah era naturalmente proteggere l’onore della famiglia.
L’ombra o il più piccolo cenno di sospetto non dovevano intaccare le
figlie di una famiglia musulmana. Le pene per l’indiscrezione potevano
essere terribili.
Tre
volte al giorno il cibo ci veniva portato con un carrello da un
cameriere che però rimaneva sulla porta e Salima e Sema lo portavano
all’interno. Talvolta era una cameriera inglese a fare questo servizio
ed allora chiudevo gli occhi per non vedere le sue gambe.
Mi
stavo stancando del cibo dell’albergo, così papà iniziò ad ordinare
pollo ogni giorno considerato halal, cioè puro e preparato secondo i
canoni prestabiliti. La carne di maiale invece era haram, cioè impura.
Anche solo pronunciare il termine “maiale” rendeva impura la bocca di
chi lo diceva a tal punto che ancora oggi uso la parola barla, che
significa “outsider”, quando mi riferisco al maiale. Tale è la forza di
quell’ educazione ricevuta sin dall’infanzia. Qualunque altro tipo di
carne era sospetto poiché poteva essere stato cucinato con del lardo di
maiale. Insieme al pollo ci venivano servite verdure e riso; per dolce
mangiavamo gelato e bevevamo Coca Cola. Ne avevamo una bella scorta
nella stanza.
A
dire il vero avevo un grande desiderio di curry e kebab. Mi mancavano
le pesche e i frutti di mango che crescevano sugli alberi da frutto in
casa.
Papà
faceva del suo meglio per tenermi su. Mi portò fuori per delle piccole
escursioni due o tre volte. Una volta mi fece vedere l’area intorno all’
albergo mentre in un’altra occasione insieme alle serve ci portò in
taxi a fare un giro nelle vicinanze. Mi spiegò anche perché gli Ingrez
non fossero come noi.
“Siamo
in un paese cristiano” diceva; “credono in Gesù Cristo come Figlio di
Dio. Naturalmente sono nell’ errore perché Dio non si è mai sposato e
quindi non ha potuto avere un Figlio. Tuttavia anch’essi sono il popolo
di un Libro come lo siamo noi. Musulmani e Cristiani hanno lo stesso
Libro”.
Questo mi rendeva molto perplessa. Come potevano condividere lo stesso nostro Libro eppure essere così diversi da noi?
“Hanno
libertà di fare molte cose che noi non possiamo fare”, disse. Possono
mangiare carne di maiale e bere alcolici. Per loro non c’è nessuna
distanza tra l’ uomo e la donna. Spesso vivono insieme senza essere
sposati e quando i bambini crescono normalmente non rispettano i loro
genitori. Tuttavia è brava gente e molto puntuale. Hanno anche dei sani
principi. Quando fanno una promessa, la mantengono, non come gli
asiatici.
Papà
era un’ autorità su questa materia. Lui aveva continui rapporti con
stranieri poiché si occupava dell’esportazione del cotone pakistano
delle sue piantagioni.
“Differiamo
da loro per la religione. Ma si tratta di brava gente in grado di fare
tutto il possibile per aiutarti. Sono umani”, concluse.
Io
ponderai le contraddizioni degli Ingrez - un popolo cortese che vive in
un paese gentile e pieno di verde dove cade abbondantemente la pioggia,
il cui Libro li aveva portati ad un tale stato di libertà. Eppure il
nostro libro era in qualche modo simile al loro. Quale era dunque la
chiave di questa differenza tra noi? Chiedevo troppo ad una ragazza di
quattordici anni. Così cacciai questa domanda dalla mia mente
dedicandomi completamente all’anticipazione del pellegrinaggio che ci
attendeva.
Tutto
ciò avveniva alcuni anni prima di ricevere ulteriore luce. Ma quando
questa luce arrivò, non sarei stata capace di mandarla via con tanta
facilità.
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