SANTA CASA: quando gli Angeli la posarono sul suolo lauretano anche gli alberi si inchinarono…
… dalla cronaca di don Antonio Gaudenti del 1790…
Cust.: È così certa la prodigiosa traslazione di questa Santa Casa, accaduta il 10 dicembre 1294, circa il tempo della rinuncia del Papa San Celestino V, che l’illustre storico lauretano non dubitò di esprimerla con queste parole: “Nec vetera magis quam nova quotidie illustrant miracula, ut de tam testata, explorataque re addubitare non possit nisi aut qui de divina vi, aut Providentia dubitare velit, aut eximere ex hominum genere humanam fidem”.
Per volontà imperscrutabile dell’Altissimo restarono di un tal dono prive con la Dalmazia le vicine Provincie dell’Illirico con infinito dolore di quei Popoli, e ne fu per misericordia del Cielo arricchita l’Italia troppo bisognosa di superno aiuto, poiché allora più che mai ardeva di guerre, e di odi intestini per le sanguinolenti fazioni de’ ghibellini, e guelfi, che tutta riempivano l’Italia di rivolte e di stragi. Questa Santa Casa, dunque, passato l’Adriatico mare pel tragitto di cento, e più miglia fu d’improvviso collocata in una Selva lontana un solo miglio dal mare, e quattro miglia distante da Recanati, antica, e nobile Città del Piceno, e nel di 10 dicembre del suddetto anno 1294, giorno felice, e ben meritevole di essere con perpetua memoria consacrato. Detta Selva apparteneva ad una gentildonna recanatese, non meno pia che facoltosa, chiamata Laureta, dal cui nome avvenne, che la Santa Casa si chiamasse di Santa Maria Lauretana. Orazio Tursellino, di cui le parole stesse vi farò in appresso sovente ascoltare fedelmente in volgare linguaggio trasportate, scrive così: “È fama, ne vana è la credenza, che all’arrivo della Casa di Maria, gli alberi in lunga fila fossero curvati al suo passaggio, ed in tal guisa stesser così piegati infino, che a terra caddero, o per vecchiezza, o per la forza de’ venti, o perché in appresso tagliati fossero; e questi in lungo ordine schierati, e chini solevansi mostrare a Pellegrini come testimoni di un tanto miracolo. Ancora fresca n’è la memoria, ed io, prosegue lo stesso autore, ed io posso assicurare, che un uomo ben degno di fede mi accertava, ch’Egli non più di venti anni sono avea spesso veduto molti di questi alberi starsene così curvi, e piegati con tutto il tronco verso il mare, e che i medesimi Alberi vi erano così appositamente lasciati per religioso riguardo nel tagliarli il rimanente della selva, e questi, come si disse, non più da venti anni in qua furono dalla sciocchezza, ed imperizia de’ contadini gettati affatto a terra, acciò non servissero d’impedimento all’aratro”. Ma giacché per appagarvi pienamente prefisso mi sono in questi nostri brevi Ragionamenti di prevenire le vostre ricerche, coll’informarvi appieno quanto avvenne per fatto cotanto inaudito, questo buon giovanetto, che meco vedete, divoto di Maria Santissima, e desideroso anch’egli di apprendere interamente la Storia della Santa Casa Lauretana, vi leggerà quanto io potrei assai meno acconciamente descrivervi, di quello fatto lo abbia lo storico lauretano (Orazio Tursellino n.d.c.).
Pell.: Con tutta l’attenzione starò ascoltando.
Cust.: Ecco qui pertanto la traduzione di Orazio Tursellino. Leggete voi dunque o buon giovane a questo illustre pellegrino qualche parte di questa istoria, e date principio dal luogo, che qui vi segno. (Turs. L. 1 Cap. VI).
Pell.: Si leggete di grazia, che io ne riceverò tutto il piacere.
Lettore: Erano gli uomini da profondo sonno presi, quando la Casa dell’Immacolata Vergine occupò un vuoto spazio, ch’era nella Selva. Allora appunto i poveri Pastori, partito fra se, com’è loro costume, il tempo della notte per la custodia, guardavano nel vicino bosco di Recanati la greggia, ed ecco subitamente lo splendore d’ogni intorno della sempre benedetta Casa sparso colà immantinente rivolse, e rapì gli occhi di tali Persone, che vegliavano. Pareva loro stupenda cosa il mirare in quella solitudine una nuova Stanza, e certo più lucida della luce stessa essere in un istante apparita, e v’ebbe alcun fra loro, il quale affermò di averla veduta, quando essa in alto elevata, era portata sopra il mare. Destati dunque i compagni, acciocché di tale spettacolo colla vista godettero, prima, com’è costume di chiunque si meraviglia, dovettero farsi l’un l’altro mille interrogazioni. Poi con scambievoli inviti si accesero ad investigare quel, che la cosa si folle, e tutti insieme cominciarono a congetturare fra loro ciocchè era in effetto, che quivi qualche cosa di Divino si ritrovava. Avvicinansi, e pongon piè alla Casa. Si sentirono prima di timore, poi di una dolcezza non mai più provata riempire, ond’eglino con gran riverenza passarono in preghiere il rimanente della notte, con particolare attenzione considerando quanto era nella Stanza. Quindi come nel nuovo sole spuntò un raggio, alcuni di loro s’incamminarono verso Recanati distante da quel luogo poco meno di quattro miglia, ed ai Padroni loro raccontarono quanto veduto avevano. Fu da principio per la semplicità de’ relatori, con i relatori medesimi dispregiato il fatto, avvisandoli, che quelli raccontassero menzogne, o per avventura qualche visione loro presentata in sogno. Poscia con ogni affermazione maggiore assicurando i Contadini, che gli occhi stessi sarebbero quelli, che della verità farebbero fede, purché a trasferirli colà li disponessero, i Padroni dimostrarono in conclusione di volere anzi credere, che ardire tant’oltre. All’ultimo, acciocché da una parte non paresse, ch’eglino avessero inconsideratamente creduto così insolito miracolo al solo testimonio di uomini di Contardo, e dall’altra, che non avessero per negligenza loro come vano curato quello che poteva esser vero, si misero in compagnia di loro per chiarirsi di quello che finalmente fosse. Così tosto come giunsero al mostrato luogo della Selva, e la fede de’ Pastori apparve, ove si appoggiava, ed appena ognuno di loro a’ propri occhi, ed a se medesimo bastevolmente credeva.
Certamente sapevano non avere in verun tempo per lo addietro ivi veduta quella Casa, nemmeno essere stata di fresco edificata, come bene la sua antichità dinotava, e però doversi sicuramente tenere, o che fosse di altronde stata portata, o dal Cielo discesa. Di così fatte cose fra loro pieni di ammirazione con sommesse voci discorrendo, alquanto più d’appresso si accostavano. Rimirano l’Abitazione non tanto per la nuova comparsa, quanto per l’antichità ragguardevole molto; meravigliansi che così vecchio edificio in piedi se ne stia sopra nessun fondamento, e senza pavimento, fermato sopra la nuda superficie del campo e da niuno aiuto sostentato. Da poi con gli animi ancora sospesi entrano nella stanza, ed incontanente supplichevoli adorano (venerano n.d.C.) la scratissima Vergine, ed il Bambino Gesù, ch’Ella in braccio tenea, della quale pietà loro bene ne ritrassero vantaggi, imperciocché furono subitamente da tanto spavento di letizia misto occupati, e sorpresi che affermarono di non aver in verun luogo più favorevolmente conosciuta in tutto il corso della loro vita l’assistenza di Dio. Immantinente adunque con veloce passo alla Città tornarono, con se stessi, e con la Patria del celeste Dono tacitamente congratulandosi. La principale allegrezza toccò alla pia gentildonna Laureta, cui apparteneva il terreno, dove si era quella divina Casa fermata. Non prima la novella di tanto miracolo penetrò nella Città, non altrimenti, che se a suono di trombe fosse stato intimato l’andare, radunossi nella Selva una grandissima, e meravigliosa moltitudine di persone di qualunque grado, e forte, bramose di appagare gli occhi con tanto inaudito spettacolo.
Non poterono i fanciulli, non le fanciulle, non i vecchi, non i deboli a casa trattenersi. Gli stessi infermi scappati da’ letti colà pian piano, si strascinarono per avidità di vedere, quale, come avviene, somministrava ad essi vigore, e forze. I più con impaziente ardore di animo qua, e là portandosi, e spingendosi a prova l’uno con l’altro frettolosamente volavansene innanzi agli altri, con disegno di essere i primi a godere dell’aspetto di tale meraviglia. Quanto più la speranza di giungere colà si avvicinava, tanto più la turba di quei, che correvano si aumentava, ed il desiderio di vedere cresceva. Ma poiché subito il Sacrosanto Albergo, la cui vista era dai rami degli Alberi offuscata, ed impedita, mostrossi agli entrati in più spaziosa, e meno densa parte del bosco, tutti ad un volgere d’occhio si diedero a cento e a mille a correre, e tal concorso da ogni lato fecesi in un momento dei diversi sentieri della Selva di tanti bramosi di andare, toccare, e baciare le benedette Mura, che fra loro angustiandosi, e premendosi gli uni sopra gli altri quasi si gettavano e si risospingevano. Nell’entrare della Santa Cella, mentre pieni di divozione riverentemente salutano la gran Vergine Maria, grande copia di lacrime versano, si sentono straordinariamente commossi e propongonsi di cambiare in meglio i costumi e la vita e non pare che possano da quel luogo staccarsi. […]
Tratto da: “Storia della Santa Casa di Loreto esposta in dieci brevi ragionamenti fra un sacerdote custode di S. Casa ed un divoto pellegrino” – opera del rev.mo Don Antonio Gaudenti, patrizio di Osimo e arcidiacono della Basilica Loretana – ed. seconda, Loreto 1790, pagg. 41-46.
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