Rinnovando il mio invito alla lettura di Questo papa piace troppo di Ferrara, Gnocchi e Palmaro (Piemme 2014), pubblico un passaggio tra i più affascinanti e più importanti a firma del duo tradizionalista. Difficilmente, almeno io nella mia pochezza, riuscirei a comunicare in modo migliore l’essenza profonda della nostra Fede, lontana sia dal sentimentalismo sia dalla banalizzazione dottrinaria. La lunghezza del testo – di cui assicuro la piacevolezza di lettura – è giustificata dai tanti temi fondamentali toccati, dalla reazione al soggettivismo relativistico all’importanza dell’insegnamento della Dottrina, dalla necessità di una sincera conversione alla quella della frequentazione della Chiesa e dei sacramenti, sempre con l’acutezza di saper mettere in guardia dalla pericolosità dei luoghi comuni.
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Per una creatura, non esiste momento più incantevole di quello in cui apparecchia la casa perché sta arrivando il Signore a offrire ancora una volta la sua morte e a portare in dono ancora una volta la sua vita. Tutto trepida d’attesa per quanto non vi è di più grande nell’universo, e profuma ancora una volta del nardo sparso sui piedi di Gesù nella casa di Simone il lebbroso la sera prima dell’ultima cena. Non c’è momento in cui torno davvero bambino come quando, con ingenuità poveretta, riesco a catturare una goccia dell’acqua santa che il sacerdote, alter Christus, distribuisce lungo la navata prima di salire all’altare di Dio, al Dio che allieta la mia giovinezza. È come essere accanto a quella donna che riesce a toccare il lembo del mantello di Gesù e sperare di trarne quanto ne ha tratto lei: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». E io, che ero in ginocchio, mi alzo e mi sento in pace perché Gesù mi ha guardato.
Ma non c’è nulla di sentimentale in tutto questo. Per guarire nel corpo e nell’anima, l’uomo, che è una creatura razionale e quindi liturgica, ha bisogno di ben altro che il sentimento. […] Quando riconosce la necessità di adorazione che si fa strada nel cuore dell’uomo, la ragione si umilia, si purifica, si ritrae e fa spazio all’orazione: non parla. La liturgia introduce a un mondo celeste in cui leggi, gesti e parole sono stati stabiliti una volta per sempre da Dio. Farli propri non significa chiudersi in case soffocanti, preda di qualche imbalsamatore, ma accedere a una vita più bella che viene uccisa da una vivacità solo umana. Quel bambino che ha ricomposto le mani giunte dopo che il papa gliele aveva disgiunte tutto questo lo ha già nel suo sangue cristiano, senza bisogno di “vacanzine”, di “scuole di comunità” e di nottate esegetiche su incomprensibili testi di don Giussani. Gli è bastato imparare a servire la messa da un maestro bravo e devoto.
[…] Ma la dottrina della comunione dei santi ci assicura che sono veramente vivi, oltre a questi contemporanei, tutti i membri della Chiesa di ogni tempo. A cominciare dai santi: Agostino e Benedetto, Ambrogio e Carlo Borromeo, Francesco e Domenico, Filippo Neri e Ignazio di Loyola, don Bosco e padre Pio. Sono tutti più vivi di noi, pregano per noi e ascoltano il nostro orare. Le guglie delle cattedrali gotiche pullulano di statue che rendono visibili migliaia di cristiani defunti che sono vivi nel mistero del paradiso.
Questi cristiani ci raccontano la storia di una fede che impone di cambiare vita e abbandonare l’uomo vecchio. Non chiede un’adesione intellettuale e filosofica, ma esige un cambiamento di vita. Il Nuovo Testamento mostra una predicazione che sul piano morale è letteralmente senza sconti. Paolo scrive ai dissoluti pagani del corrotto Impero romano e, tuttavia, non omette nessun insegnamento che sia necessario per una vita santa. È probabile che, a quei tempi, Tessalonicesi, Romani, Filippesi, Efesini non se la passassero così bene dal punto di vista del sesto e del nono comandamento. Ma la Chiesa primitiva, spesso citata per contrapporla a quella costantiniana e medievale, non si è inventata un cristianesimo riveduto e corretto a beneficio dei peccatori incalliti. La verità di Cristo, della sua Persona e della sua sequela deve essere insegnata tutta intera.
La gradualità si esprime nel perdono e nella pazienza del confessionale, non deformano la dottrina per emendarla dalle spigolosità che non piacciono all’indio Guaranì e, magari, neanche alla casalinga di Voghera, al giornalista milanese o al regista bolognese. Se nel confessionale la Chiesa lava il peccato e sconfigge il nemico, dal pulpito la stessa Chiesa comunica tutto l’orrore del peccato e denuncia tutta la pericolosità del tentatore.
Senza dottrina, senza distinzioni sottili, non si diventa bravi cristiani. Lo diceva Chesterton nel 1934: «Le discussioni teologiche sono sottili ma non magre. In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: “La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina”. Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina. L’uomo che si compiace dicendo “Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro”, sarebbe forse d’avviso di aggiungere “e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancor più sottili”. È un fatto che molti individui oggi sarebbero morti se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza: ed è altrettanto un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina».
Ma sarebbe non conoscere l’uomo, a cominciare da se stessi, se si pensasse che basta apprendere il bene per sceglierlo sempre. Lo credeva, sbagliandosi, Socrate, professando un intellettualismo che faceva coincidere conoscenza della verità morale con la coerenza di vita. Ma già Ovidio nelle Metamorfosi diceva: «Video meliora proboque, deteriora sequor», vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. «Veggio ‘l meglio ed al peggior m’appiglio» confessa Petrarca. E Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Però questa conoscenza dell’animo umano non deve produrre il testacoda logico secondo cui conoscere la verità morale non serve: possedere la dottrina non basta, però è necessario. Come direbbe Pascal, è il ben pensare che porta al ben agire, e Chesterton gli fa eco spiegando che la strada dell’inferno è lastricata di tutto, tranne che di buone intenzioni. La ragione indaga e insegue la verità e la volontà poi deve trovare la motivazione che la inclina al bene: l’amore per Cristo, la passione per gli altri nei quali vedo Gesù, l’incontro di veri testimoni del Vangelo.
L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, orecchi solo per ascoltare Gesù, bocca solo per lodare Gesù e baciare le sue piaghe, mani solo per carezzare Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.
Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti tremebondi e ambigui come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutte quelle pulsioni che lo spingono lontano da Gesù. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e beffando proprio quel Gesù che ammonisce: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama».
Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il paradiso.
(Ferrara – Gnocchi & Palmaro, Questo papa piace troppo, Ma senza dottrina non si è cristiani, pp. 121-127)
Ma non c’è nulla di sentimentale in tutto questo. Per guarire nel corpo e nell’anima, l’uomo, che è una creatura razionale e quindi liturgica, ha bisogno di ben altro che il sentimento. […] Quando riconosce la necessità di adorazione che si fa strada nel cuore dell’uomo, la ragione si umilia, si purifica, si ritrae e fa spazio all’orazione: non parla. La liturgia introduce a un mondo celeste in cui leggi, gesti e parole sono stati stabiliti una volta per sempre da Dio. Farli propri non significa chiudersi in case soffocanti, preda di qualche imbalsamatore, ma accedere a una vita più bella che viene uccisa da una vivacità solo umana. Quel bambino che ha ricomposto le mani giunte dopo che il papa gliele aveva disgiunte tutto questo lo ha già nel suo sangue cristiano, senza bisogno di “vacanzine”, di “scuole di comunità” e di nottate esegetiche su incomprensibili testi di don Giussani. Gli è bastato imparare a servire la messa da un maestro bravo e devoto.
[…] Ma la dottrina della comunione dei santi ci assicura che sono veramente vivi, oltre a questi contemporanei, tutti i membri della Chiesa di ogni tempo. A cominciare dai santi: Agostino e Benedetto, Ambrogio e Carlo Borromeo, Francesco e Domenico, Filippo Neri e Ignazio di Loyola, don Bosco e padre Pio. Sono tutti più vivi di noi, pregano per noi e ascoltano il nostro orare. Le guglie delle cattedrali gotiche pullulano di statue che rendono visibili migliaia di cristiani defunti che sono vivi nel mistero del paradiso.
Questi cristiani ci raccontano la storia di una fede che impone di cambiare vita e abbandonare l’uomo vecchio. Non chiede un’adesione intellettuale e filosofica, ma esige un cambiamento di vita. Il Nuovo Testamento mostra una predicazione che sul piano morale è letteralmente senza sconti. Paolo scrive ai dissoluti pagani del corrotto Impero romano e, tuttavia, non omette nessun insegnamento che sia necessario per una vita santa. È probabile che, a quei tempi, Tessalonicesi, Romani, Filippesi, Efesini non se la passassero così bene dal punto di vista del sesto e del nono comandamento. Ma la Chiesa primitiva, spesso citata per contrapporla a quella costantiniana e medievale, non si è inventata un cristianesimo riveduto e corretto a beneficio dei peccatori incalliti. La verità di Cristo, della sua Persona e della sua sequela deve essere insegnata tutta intera.
La gradualità si esprime nel perdono e nella pazienza del confessionale, non deformano la dottrina per emendarla dalle spigolosità che non piacciono all’indio Guaranì e, magari, neanche alla casalinga di Voghera, al giornalista milanese o al regista bolognese. Se nel confessionale la Chiesa lava il peccato e sconfigge il nemico, dal pulpito la stessa Chiesa comunica tutto l’orrore del peccato e denuncia tutta la pericolosità del tentatore.
Senza dottrina, senza distinzioni sottili, non si diventa bravi cristiani. Lo diceva Chesterton nel 1934: «Le discussioni teologiche sono sottili ma non magre. In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: “La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina”. Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina. L’uomo che si compiace dicendo “Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro”, sarebbe forse d’avviso di aggiungere “e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancor più sottili”. È un fatto che molti individui oggi sarebbero morti se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza: ed è altrettanto un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina».
Ma sarebbe non conoscere l’uomo, a cominciare da se stessi, se si pensasse che basta apprendere il bene per sceglierlo sempre. Lo credeva, sbagliandosi, Socrate, professando un intellettualismo che faceva coincidere conoscenza della verità morale con la coerenza di vita. Ma già Ovidio nelle Metamorfosi diceva: «Video meliora proboque, deteriora sequor», vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. «Veggio ‘l meglio ed al peggior m’appiglio» confessa Petrarca. E Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Però questa conoscenza dell’animo umano non deve produrre il testacoda logico secondo cui conoscere la verità morale non serve: possedere la dottrina non basta, però è necessario. Come direbbe Pascal, è il ben pensare che porta al ben agire, e Chesterton gli fa eco spiegando che la strada dell’inferno è lastricata di tutto, tranne che di buone intenzioni. La ragione indaga e insegue la verità e la volontà poi deve trovare la motivazione che la inclina al bene: l’amore per Cristo, la passione per gli altri nei quali vedo Gesù, l’incontro di veri testimoni del Vangelo.
L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, orecchi solo per ascoltare Gesù, bocca solo per lodare Gesù e baciare le sue piaghe, mani solo per carezzare Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.
Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti tremebondi e ambigui come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutte quelle pulsioni che lo spingono lontano da Gesù. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e beffando proprio quel Gesù che ammonisce: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama».
Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il paradiso.
(Ferrara – Gnocchi & Palmaro, Questo papa piace troppo, Ma senza dottrina non si è cristiani, pp. 121-127)
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