La vera missione? In America ed Europa sulla vita, dice il card. O’Malley
Se fino a qualche decennio fa il luogo più difficile da evangelizzare sarebbero stati gli altopiani di Papua Nuova Guinea, oggi “la missione più dura che ci sia al mondo è evangelizzare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, dove la società vive in ciò che si può definire un residuo di cultura cristiana”. Sono parole del cardinale Sean O’Malley, durante il suo intervento al decimo National Catholic Prayer Breakfast che si è tenuto a Washington nei giorni scorsi.
L’arcivescovo cappuccino di Boston – dopo aver auspicato un rapido via libera alla riforma dell’immigrazione in discussione al Congresso – ha ripreso le linee principali dell’agenda di Francesco, la missione come fulcro del servizio cui sono chiamati religiosi e laici, individuando però nell’occidente delle chiese trasformate in mercati ortofrutticoli e delle emorragie inarrestabili di fedeli (anche tra settori e comunità fino a qualche anno fa ritenuti immuni dal rischio di allontanarsi da Roma, come i latinos) la periferia da rievangelizzare. “A volte, periferia può voler dire anche Harvard”, ha aggiunto O’Malley riferendosi all’iniziativa – poi cancellata nell’imminenza dell’apertura del Prayer Breakfast di Washington – di promuovere la celebrazione di messe nere nel celebre campus del Massachusetts.Poco prima dell’intervento dell’unico membro statunitense della consulta degli otto porporati istituita da Francesco per riformare la curia, aveva preso la parola il professor Robert George, capo della commissione americana sulla Libertà religiosa, docente a Princeton, esperto di etica e filosofia politica. E’ lui che ha invitato a riflettere sul “prezzo da pagare oggi per essere cattolici” in un’America dove la chiesa, culturalmente parlando, è “piombata in una sorta di Venerdì santo in cui il messaggio di Cristo non viene più accolto, essendo perfino svanita la memoria dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme la Domenica delle palme”. Uno – ha aggiunto George – “può dirsi cattolico perché va a messa ogni domenica, ma ciò non basta a identificarlo come cattolico. Soprattutto se poi “non abbraccia la totalità degli insegnamenti della chiesa, compresi quelli sul matrimonio, la moralità sessuale e la sacralità della vita umana”. E se uno non crede in ciò che la chiesa insegna o se ci crede ma tace, diventa un cosiddetto ‘cattolico comodo’. E i cattolici comodi, oggi, sono accettati”. Ma così non va, ha detto il docente di Princeton, “bisogna prendersi e correre dei rischi”. Certo, “il discepolato può comportare dei costi personali, familiari, professionali; può causare la perdita di onori e riconoscimenti”. Ma tutto questo passa in secondo piano davanti “all’insegnamento della chiesa sulla dignità della vita umana e del matrimonio, insegnamenti che non sono verità evangeliche di quart’ordine, ma che devono essere proclamati” con forza, a maggior ragione in un’epoca come questa. E questo deve essere fatto nonostante la presenza di “potenti forze e correnti della nostra società che ci spingono a vergognarci del Vangelo. A vergognarci degli insegnamenti della nostra fede sulla sacralità della vita, sul matrimonio tradizionale”. Queste forze – ha detto ancora George – “insistono sul fatto che gli insegnamenti della chiesa non sono aggiornati; dicono che la chiesa è retrograda, insensibile, incapace di compassione, illiberale, bigotta. Sono correnti che esercitano pressioni su tutti noi, soprattutto sui giovani cattolici. Ci chiedono di cedere, di conformare il nostro pensiero alla loro ortodossia, o almeno di tacere”. Ma come si può tacere, se “la dottrina cattolica sull’aborto e sul matrimonio è una parte cruciale del Vangelo di Gesù Cristo?”, s’è domandato il relatore, concludendo che l’unico modo di essere testimoni della Verità, nella società contemporanea, è quello che porta a essere “esposti al disprezzo e al rimprovero, anche alla discriminazione”. E a quanti dicono che i cattolici sono dalla parte sbagliata della storia, Robert George risponde che “la storia non è Dio, la storia non è il nostro giudice”.
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