La chiesa di Francesco in America perde i latinos (e non solo)
Il cardinale cappuccino Sean O’Malley, ora arcivescovo di Boston ma per molti anni prete di frontiera e fondatore nel 1973 del Centro Católico Hispano (associazione dedita ad assistere gli immigrati dell’America latina), aveva più volte lanciato l’allarme: tra i latinos l’adesione al cattolicesimo non è più granitica. Il rischio è quello di assistere a una lenta ma inarrestabile emorragia. Da qui, l’esigenza di andare a Nogales (Arizona) a celebrare una messa lungo la palizzata che segna il confine tra Stati Uniti e Messico, come avvenuto lo scorso 3 aprile.
Obiettivo: far capire che la chiesa cattolica d’America non è insensibile alla causa dei latinos e che è su di loro che vuole investire per il futuro, considerati anche i trend demografici che li vedranno aumentare nei prossimi decenni. Qualche giorno fa, l’autorevole Pew Research ha rivelato che le preoccupazioni di O’Malley erano più che fondate: nell’ultimo triennio, il dodici per cento dei trentacinque milioni di ispanici statunitensi ha voltato le spalle a Roma. Se nel 2010 i cattolici erano il 67 per cento, oggi sono solo il 55. Un calo destinato a rafforzarsi, visto che la maggior parte delle uscite si registra tra i giovani, attratti dai movimenti carismatici che negli ultimi decenni hanno sfidato – in molti casi con successo, anche grazie a grandi disponibilità finanziarie – la chiesa cattolica in America del sud, soprattutto in Brasile. Solo il 45 per cento dei ventenni ispanici statunitensi oggi si dichiara cattolico (il 20 si dice protestante), a fronte del 57 per cento di quanti hanno tra i trenta e i quarant’anni e del 64 per cento tra gli ultracinquantenni. Molti di coloro che se ne vanno, spiegano che la ragione dell’addio a Roma è l’incapacità della chiesa cattolica di rispondere alle domande del mondo contemporaneo. E le chiese continuano a perdere fedeli domenica dopo domenica, senza alcuna inversione di marcia.A queste latitudini, si attende ancora l’onda lunga dell’effetto-Francesco, il Papa argentino che guarda alle periferie e punta tutto sulla missione evangelizzatrice. Ma l’America del nord si conferma terreno difficile per l’agenda di Bergoglio, che stenta ad attecchire, tra vescovi ancora legati alla linea di battaglia in difesa dei princìpi non negoziabili definiti tali da Benedetto XVI e il ribaltamento delle priorità pastorali attuato dal nuovo Pontefice. Ed è a lui che si è rivolto, sabato scorso sul New York Times, il columnist Frank Bruni, chiedendosi se il Pontefice firmerebbe il nuovo contratto sottoposto in Ohio ai docenti delle scuole cattoliche. Un contratto che, a giudizio dell’editorialista, contraddice ciò che Francesco disse un anno fa circa l’attenzione da prestare nel porre questioni sociali potenzialmente divisive. Addirittura, osserva, le pagine del documento sono aumentate, essendo passate da due a sei. In quel contratto, osserva Bruni, ci sono norme che nulla hanno a che vedere con quello che va predicando il Papa del “chi sono io per giudicare?”, al punto che parte dei duemila insegnanti dell’Ohio si è rifiutata di sottoscrivere le norme previste dall’arcidiocesi di Cincinnati, che mettono esplicitamente al bando “uno stile di vita omosessuale e il suo sostegno pubblico”. Docenti, nota ancora il columnist, “costretti ad accettare vaghe clausole morali che impediscono loro di contraddire la dottrina cattolica”. E’ messo nero su bianco anche il divieto di “vivere una relazione al di fuori del matrimonio”. E che negli Stati Uniti vi sia una reale difficoltà a mettersi in sintonia con il nuovo corso improntato alla misericordia attraverso la quale tutto si perdona e si cancella, lo dimostra il fatto che il contratto dell’Ohio non è affatto un unicum. Lo stesso Bruni ammette che anche nelle Hawaii e in California si è seguita la linea intransigente e ben poco propensa a seguire il suggerimento papale ad aprire a tutti le porte.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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