Vaticano
Francesco e il Consiglio degli Undici. Una svolta «missionaria» per la Chiesa
In questi giorni si riunisce ancora una volta il gruppo costituito dal Papa per dargli un ausilio nel governo della chiesa universale. Si tratta di 8+3 ecclesiastici: cioè 8 cardinali scelti da tutti i continenti (incluso quel «continente» che è il Vaticano), il cardinale Parolin ormai incorporato ufficialmente, il vescovo monsignor Semeraro come segretario e il vescovo di Roma che vi prende parte non come un principe occhiuto, ma come un fratello. Fino a oggi gli Undici non hanno prodotto atti di governo. Eppure hanno eccitato gli animi di un cattolicesimo zelota, convinto di poter ridimensionare l’autorevolezza di Francesco (auguri...).
Se ne sarà accorto chi ha letto le tesi di un canonista secondo il quale Benedetto ha trattenuto per sé il ministero petrino e che dunque Francesco semplicemente «esercita» un papato non suo. O chi sul web curiosa nei siti che, abituati a dar la linea ai vescovi, insinuano oggi che proprio l’embrione di collegialità attuata da Francesco sia il frutto di un capitolato elettorale di Conclave, vietato dalle norme vigenti.
Sono casi limite, ma dicono che il passo degli Undici inquieta chi ne capisce la ragione. Infatti in fondo la collegialità era il cardine del Vaticano II, il tema dell’enciclica Ut unum sint , la trama delle lezioni sulla riforma del papato di monsignor Quinn così care a Francesco; e a marzo del 2013 era il desiderio dei cardinali, sconcertati davanti al disordine sistemico imputato sbrigativamente agli «italiani». E allora perché questa acredine, ingigantita dalle voci sulla inefficacia delle soluzioni adottate sullo Ior e ai perenni rumorini su dimissioni, promozioni, ribaltoni?
La ragione c’è. Gli Undici, Papa in testa, non pensano a una riorganizzazione dell’ingegneria curiale, fatta di cose ovvie. È infatti evidente che i pontifici consigli non devono più essere un piedistallo di vanità e un pegno di carriera; che Propaganda Fidenon può più considerare terre di missione diocesi fiorentissime d’Africa e terra di cristianità desolate province europee; che per drenare la piaga dello Ior non basta la vigilanza; che per guarire la Chiesa italiana non basta lo stile tutto evangelico di un segretario come Galantino. L’obiettivo del processo avviato da Bergoglio, però, va oltre; è avviare una riforma della Chiesa e del papato, senza la quale ogni riforma della curia sarà effimera come tutte quelle tante che l’hanno preceduta: perché la mentalità cortigiana è destinata a ricomporsi fatalmente attorno a un pontefice privo di organi sinodali.
L’ecclesiologia della riforma di Francesco punta a una svolta «missionaria», dice Evangelii gaudium. Se la riforma wojtyliana della curia s’intitolava Pastor bonus — formula cristologica della custodia del gregge — quella bergogliana va nel senso dell’ Et invenietis — la promessa di Gesù ai discepoli che pescano per fede fuori orario. Gli Undici non sono ancora un organo sinodale (lo ha puntualizzato proprio Francesco nella recente intervista al Messaggero, con un virtuosismo teologico passato inosservato). Ma sono loro che devono preparare i passaggi che metteranno le Chiese in stato sinodale e daranno a Pietro quegli organi che non ne riducono il primato, ma lo rendono sempre più apostolico.
Quello che il Papa ripete spesso in queste ore dove la Bestia devasta la terra di Abramo — guerra chiama guerra, violenza chiama violenza — vale anche per la vita buona della Chiesa: comunione chiama comunione, sinodalità chiama sinodalità. Francesco è un Papa che non si imbarazza quando è ora di far sentire la sua disapprovazione, non lascerà che qualche malizia pilotata porti disordine nel suo disegno di una riforma sicura dei suoi tempi e dei suoi obiettivi.
Se ne sarà accorto chi ha letto le tesi di un canonista secondo il quale Benedetto ha trattenuto per sé il ministero petrino e che dunque Francesco semplicemente «esercita» un papato non suo. O chi sul web curiosa nei siti che, abituati a dar la linea ai vescovi, insinuano oggi che proprio l’embrione di collegialità attuata da Francesco sia il frutto di un capitolato elettorale di Conclave, vietato dalle norme vigenti.
Sono casi limite, ma dicono che il passo degli Undici inquieta chi ne capisce la ragione. Infatti in fondo la collegialità era il cardine del Vaticano II, il tema dell’enciclica Ut unum sint , la trama delle lezioni sulla riforma del papato di monsignor Quinn così care a Francesco; e a marzo del 2013 era il desiderio dei cardinali, sconcertati davanti al disordine sistemico imputato sbrigativamente agli «italiani». E allora perché questa acredine, ingigantita dalle voci sulla inefficacia delle soluzioni adottate sullo Ior e ai perenni rumorini su dimissioni, promozioni, ribaltoni?
La ragione c’è. Gli Undici, Papa in testa, non pensano a una riorganizzazione dell’ingegneria curiale, fatta di cose ovvie. È infatti evidente che i pontifici consigli non devono più essere un piedistallo di vanità e un pegno di carriera; che Propaganda Fidenon può più considerare terre di missione diocesi fiorentissime d’Africa e terra di cristianità desolate province europee; che per drenare la piaga dello Ior non basta la vigilanza; che per guarire la Chiesa italiana non basta lo stile tutto evangelico di un segretario come Galantino. L’obiettivo del processo avviato da Bergoglio, però, va oltre; è avviare una riforma della Chiesa e del papato, senza la quale ogni riforma della curia sarà effimera come tutte quelle tante che l’hanno preceduta: perché la mentalità cortigiana è destinata a ricomporsi fatalmente attorno a un pontefice privo di organi sinodali.
L’ecclesiologia della riforma di Francesco punta a una svolta «missionaria», dice Evangelii gaudium. Se la riforma wojtyliana della curia s’intitolava Pastor bonus — formula cristologica della custodia del gregge — quella bergogliana va nel senso dell’ Et invenietis — la promessa di Gesù ai discepoli che pescano per fede fuori orario. Gli Undici non sono ancora un organo sinodale (lo ha puntualizzato proprio Francesco nella recente intervista al Messaggero, con un virtuosismo teologico passato inosservato). Ma sono loro che devono preparare i passaggi che metteranno le Chiese in stato sinodale e daranno a Pietro quegli organi che non ne riducono il primato, ma lo rendono sempre più apostolico.
Quello che il Papa ripete spesso in queste ore dove la Bestia devasta la terra di Abramo — guerra chiama guerra, violenza chiama violenza — vale anche per la vita buona della Chiesa: comunione chiama comunione, sinodalità chiama sinodalità. Francesco è un Papa che non si imbarazza quando è ora di far sentire la sua disapprovazione, non lascerà che qualche malizia pilotata porti disordine nel suo disegno di una riforma sicura dei suoi tempi e dei suoi obiettivi.
Corriere della Sera
(Alberto Melloni)
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