ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 20 agosto 2014

Istinto di sopravvivenza?

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COME SOPRAVVIVE UN PAPA

Sull’ultimo numero Lo Straniero, che vi invitiamo a leggere, c’è questo interessante pezzo del vaticanista Iacopo Scaramuzzi sul pontificato di Bergoglio. Valutare il papa argentino sulla base dei nemici che è riuscito a farsi in neanche un anno e mezzo di pontificato, potrebbe essere un buon sistema per capire qualcosa (al di là dei pregiudizi) di ciò che sta accadendo in Vaticano. Ringraziamo “Lo Straniero” per averci consentito di riproporre il pezzo.

di Iacopo Scaramuzzi
Giovanni Paolo I ha regnato per soli 33 giorni ed è morto in circostanze mai del tutto chiarite. Giovanni Paolo II è stato papa per oltre 26 anni ma è scampato per un pelo alla morte a cui lo volevano condannare tre pallottole sparata da Ali Agca il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro. Anche Paolo VI aveva rischiato grosso, quando all’aeroporto di Manila, nel novembre del 1970, uno squilibrato tentò di accoltellarlo, subito bloccato dal monsignore che organizzava i viaggi papali, un robusto giovanottone statunitense di origine lituane che avrebbe fatto strada, Paul Casimir Marcinkus. Benedetto XVI si è dimesso. Fare il papa è un lavoro pericoloso. E Jorge Mario Bergoglio, serenamente, lo sa.
“Chi finora si è nutrito del potere e della ricchezza che derivano direttamente dalla Chiesa, è nervoso, agitato”, si è spinto a dire il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. “Papa Bergoglio sta smontando centri di potere economico in Vaticano. Se i boss potessero fargli uno sgambetto non esiterebbero”.
Chiamato dalla “fine del mondo” per riformare il Vaticano e rilanciare la Chiesa, papa Francesco cambia molte cose in un’istituzione refrattaria ai cambiamenti. “Pregate per me, non contro di me”, dice. Poi, en passant, spiega ai fedeli che il suo lavoro è “insalubre”. Abbatte, pezzo a pezzo, la corte pontificia. Sconvolge il protocollo, disordina le consuetudini, poco ieraticamente scherza. Invoca la tenerezza per il popolo di Dio ma usa il bastone contro il clericalismo. Entusiasma folle di fedeli, incuriosisce non credenti e grandi riviste internazionali che gli dedicano copertine neanche fosse una popstar, ravviva cattolici che nel corso degli anni si sono sentiti trascurati o fuori posto. Infastidisce molti altri. Lui, misericordiosamente, provoca. “Oggi possiamo chiedere allo Spirito Santo che ci dia la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa”, ha detto a una messa a Casa Santa Marta. In Argentina, alla fine del suo provincialato dei gesuiti, la Chiesa era divisa in bergogliani e antibergogliani. La sua personalità è prorompente, forte. Anche oggi le reazioni non mancano. Dissimulate dai felpati toni curiali, trattenute a stento dall’obbedienza che nella Chiesa i fedeli, soprattutto i più tradizionalisti, dovrebbero al romano Pontefice, frenate dalla popolarità del papa argentino, ma comunque dure, aspre, rancorose.
Ci sono i reazionari allarmati dal primo papa che non ha preso parte al Concilio vaticano II e, proprio per questo, lo dà per acquisito. C’è un pezzo di Chiesa, in Italia e nel resto del mondo, che ha costruito per un trentennio l’equazione tra fede e “valori non negoziabili”, tra essere cattolici ed essere pro life, ed è irritata da un papa che non nega l’insegnamento magisteriale passato ma lo cita molto meno di quanto menzioni i poveri e gli immigrati – e comunque non è ossessionato dai temi che incrociano la sessualità. C’è poi la fronda dei cardinali della vecchia guardia che aveva sperato di riportare il papato in Italia e lo ha visto allontanarsi dall’Europa, gliapparatchick della curia allergici alle riforme o, meno ideologicamente, timorosi per il posto di lavoro. Fanno propri gli argomenti utilizzati per decenni dai cattodemocratici e dai conciliaristi: essere cattolici, spiegano con immacolata indignazione, mica vuol dire coltivare la “papolatria”. Ci sono resistenze e ostilità fuori della Chiesa.
Negli Stati Uniti, i repubblicani e i tea party che lo accusano di marxismo per le sue critiche al capitalismo, l’“Economist” ha parlato addirittura di leninismo. In America latina, vescovi, preti e teologi che mal sopportavano Bergoglio già da arcivescovo di Buenos Aires. In Italia, pezzi di società e di politica orfani di una Chiesa magari estranea, ma gagliarda, identitaria, capace di condiscendenza. Settori imprenditoriali e ambienti istituzionali che con i conti allo Ior, gli immobili di Propaganda fide, le donazioni all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa) hanno fatto affari per decenni. Mafiosi che il papa argentino, per la prima volta nella storia, ha scomunicato. Devoti più o meno atei.
I nemici sono agguerriti. Antichi avversari, porporati italiani che si sono fatti per decenni la guerra – prima sotterraneamente, durante la lunga era Wojtyla segnata da una pax armata che si reggeva su una sorta di manuale Cencelli ecclesiale, poi in modo eclatante e sgraziato negli anni di Joseph Ratzinger e Tarcisio Bertone – ora stringono alleanze per far fronte al papa straniero. Le riforme, si sa, creano benefici nel lungo periodo e resistenze nel breve. L’opposizione si coagula attorno alla revisione dell’organigramma della curia ma anche, e sempre più col passare dei mesi, nel campo di battaglia del doppio sinodo voluto da Bergoglio a ottobre del 2014 e a ottobre del 2015 su un nodo, quello della famiglia, che tocca, quasi un Concilio vaticano III tematico, questioni divisive come la comunione ai divorziati risposati, l’omosessualità, la contraccezione. Jorge Mario Bergoglio tributa a piene mani riconoscimenti ai suoi predecessori, canonizza Roncalli e Wojtyla, beatifica Montini, coinvolge Ratzinger, ma intano procede alla perestrojka del papato.
L’opposizione, come al Cremlino, prende forme diverse. Rimane sottotraccia, esce in superficie tramite bloganonimi o fughe di notizie, assume il volto del boicottaggio passivo confidando nell’idea che il papa passa, ma la curia resta. Reazioni tipiche di una istituzione che, depositaria di verità immutabili nel tempo, continuamente si sforza di dimostrare che Ecclesia non facit saltus, che i cambiamenti non rappresentano fratture ma evoluzioni nella continuità, che i singoli papi sono sì personalità diverse l’una dall’altra, ma non troppo, che ogni papa in fondo è un po’ come i suoi predecessori, anche lui è papa, anche lui vive in Vaticano, anche lui ha due braccia e due gambe… Cercano di imbrigliare papa Francesco nel protocollo? Lui lo manda a rotoli, lascia vuota la sedia bianca a un concerto, si va a confessare in un confessionale di San Pietro sotto gli occhi attoniti del cerimoniere pontificio, sparisce nelle grotte vaticane per pregare. Cercano di controllare i suoi testi? Lui bypassa gli uffici di curia, aggiunge a braccio le frasi clou dei discorsi. Provano a normalizzare il suo linguaggio immaginifico e profetico, smussano, sui media ufficiali del Vaticano, i suoi spigoli lessicali, evitando di riportare una frase sullo Ior (“Tutti gli uffici sono necessari, ma fino a un certo punto…”), non traducendolo quando invita i ragazzi argentini della Giornata mondiale della gioventà di Rio de Janeiro a fare “casino”? Lui parla direttamente con amici, giornalisti, fedeli. Tentano di riportare la rivoluzione del primo papa della storia che ha scelto il nome di Francesco nell’alveo di un riformismo prudente? Lui crea disordine, avvia processi irreversibili, allunga discussioni, anticipa decisioni. Loro attaccano, lui contrattacca. È un corpo a corpo, e si nutre delle armi più velenose. Come quella delle voci sulla salute. Gli avversari che lo conoscevano bene provarono, nel conclave del 2005 e in quello del 2013, a diffondere la voce che, a causa di una malattia giovanile che portò i medici ad asportargli un pezzo di polmone, Bergoglio era troppo malandato per fare il papa. È dovuto intervenire il cardinale hondureño Oscar Rodriguez Maradiaga, amico e grande elettore, girando tra cardinali di tavolo in tavolo a marzo dell’anno scorso, per smentire questa malignità.
Ora ogni occasione è buona – e Jorge Mario Bergoglio, annullando all’improvviso appuntamenti pubblici per “improvvisa indisposizione”, senza troppo badare all’etichetta, ne offre l’occasione – per diffondere allarmi, alimentare premonizioni di malanni, ipotizzare segreti medici inconfessabili. Il papa argentino mangia la foglia e, dopo aver fatto capire che anche lui, come Benedetto XVI, probabilmente si dimetterà, ribalta il discorso e afferma che la fine di un papa è nella tomba. Una previsione che diventa una minaccia, per i ragionamenti più machiavellici. “Quello che mi preoccupa”, ha scritto sul suo blog padre Dwight Longenecker, un prete della South Carolina ipercritico di Bergoglio, “è che se papa Francesco improvvisamente collassa o muore, inizieranno immediatamente le stupide voci di un complotto e avremo una nuova ondata di accuse su come il papa è stato fatto fuori da quegli spregevoli conservatori”.
Il papa gesuita è alla mano, schietto, sa parlare semplice, ma non è ingenuo. Il suo stile di vita è un messaggio di sobrietà francescana e, al contempo, un metodo di gesuitica scaltrezza per evitare i tranelli della curia. Da arcivescovo di Buenos Aires, col passare degli anni, in Vaticano veniva sempre meno. Se ne teneva alla larga, rattristato dai suoi intrighi. Da pontefice ha subito scelto – nello sconcerto generale – di disertare il palazzo apostolico, teatro, nell’ultimo scorcio del pontificato di Joseph Ratzinger, della clamorosa fuga di documenti riservati veicolati dal maggiordomo Paolo Gabriele, in favore della Casa Santa Marta. Nel residence, peraltro bonificato dai gendarmi prima del Conclave, Jorge Mario Bergoglio non è mai solo, dice messa ogni mattina a una quarantina di persone, incontra gente per i corridoi e in ascensore. È più immerso tra la gente, più esposto agli sguardi, anche indiscreti, ma paradossalmente più libero, meno controllabile. Può incontrare facilmente chi vuole, fuori dalla tabella ufficiale pubblicata ogni mattina dalla sala stampa vaticana. A Casa Santa Marta abitano i cardinali consiglieri che lo aiutano a ridisegnare l’organigramma vaticano e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, da lì passano, senza essere troppo notati, politici, consiglieri, amici. Riecheggiando leggende lugubri sulla scomparsa di papa Albino Luciani qualcuno gli augura di evitare i caffè e continuare a bere il mate argentino. Di simili boutade lui probabilmente riderebbe. Mangia, a ogni modo, a mensa con gli altri ospiti di Santa Marta. Dicono che a volte si cucina da sé come soleva fare da rettore di seminario e arcivescovo porteño. Piglio tipicamente gesuitico, è geloso della sua autonomia. Raccontano che quando lo ha colto un improvviso mal di denti, si è incamminato a piedi dal dentista, dall’altra parte del piccolo Stato pontificio, voltandosi brusco verso il codazzo di inservienti e gendarmi che si erano messi in marcia con lui: “Non vi azzardate a seguirmi”. Non ha un solo segretario particolare, come i suoi predecessori che dai collaboratori finivano per dipendere, ma diversi segretari, fidati quanto invisibili. Si è fantasticato sul contenuto della sua borsa di pelle nera che si è portato personalmente in Brasile fin sulla scaletta dell’aereo. “C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere – ne ho portato uno su Santa Teresina di cui io sono devoto…”, si è schermito lui. “Io sono andato sempre con la borsa quando viaggio: è normale”.
Papa Francesco si gestisce da solo l’agenda, la rubrica, gli appuntamenti e le telefonate, oltre che molta corrispondenza e, ovviamente, i dossier delicati. Jorge Mario Bergoglio ha dalla sua l’esperienza sotto la dittatura argentina. Gli è stata rinfacciata dai suoi avversari al conclave del 2005 per le sue presunte ambiguità, in realtà lo ha rafforzato nell’evangelico dettame di essere puri come colombe, scaltri come serpenti. Era come lui Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli, il papa del quale, in un primo momento, avrebbe voluto prendere il nome, chiamandosi Giovanni XXIV. Lo chiamavano il papa buono, ma andò su tutte le furie quando ritrovò le parole esatte di alcune conversazioni riservate che aveva su una linea telefonica esclusiva con il suo segretario di Stato pubblicate sul settimanale “Il Borghese”. “Non chiamatelo papa buono, era il soprannome che gli davano i giornali di destra per depotenziare il suo pontificato”, ha rivelato di recente il suo segretario, l’ultranovantenne Loris Capovilla che Bergoglio, dopo quarant’anni, ha creato cardinale. Il papa di Sotto il Monte fuggiva dal Vaticano in auto con il suo aiutante di camera Guido Gusso spiegandogli come seminare i gendarmi. Rilasciò un’intervista a Indro Montanelli e rimase amareggiato quando questi successivamente lo accusò, su suggerimento di qualche velenoso monsignore di curia, di modernismo. Sapeva fidarsi degli uomini di buona volontà e diffidare dei profeti di sventura. Era un diplomatico dotato di senso dell’umorismo. Per dribblare i servizi segreti stranieri quando era delegato apostolico in Grecia e Turchia aveva escogitato il metodo più banale e geniale: scriveva in bergamasco a un interlocutore che parlava il suo stesso dialetto. Alcuni ecclesiastici a cui dare informazioni erano “chi sota ol tecc”, il cardinale Maglione era “ol tricotè”, un esponente ortodosso era “ol barbù”…
Quando padre Antonio Spadaro, il direttore di “Civiltà cattolica”, ha parlato a Bergoglio, in un ormai noto colloquio pubblicato dal quindicinale gesuita, delle analogie con papa Marcello II (1501-1555), lui ha commentato: “Il suo pontificato è durato appena un mese e poi è venuto il cardinal Carafa”. Cioè la restaurazione. Quello che lui, facendo “casino”, vuole evitare. Chiunque conosceva papa Francesco prima che fosse eletto al Conclave racconta che a Buenos Aires era meno sorridente, meno energico, meno sereno. Succedere all’apostolo Pietro, tanto più dopo lo sterminato pontificato luci e ombre di Wojtyla e quello di Ratzinger, che ha incubato e svelato la crisi della Chiesa, è un compito immane. Bergoglio lo svolge naturalmente. Per i credenti si chiama “stato di grazia”. Papa Francesco è un uomo radicato nella preghiera, “confidente in sé e in Dio” ha scritto il biografo Paul Valley. Recita ogni giorno la preghiera che gli insegnò la nonna italiana, un misto di pietà popolare e radicale affidamento a Dio. I cardinali elettori lo hanno chiamato “dalla fine del mondo” come si fa con i tagliatori di teste nelle grandi aziende. “Vi perdono per quello che avete fatto”, disse loro al brindisi serale dopo il Conclave. Ma la Chiesa non è una multinazionale. Profondamente romana, profondamente globale, sprofondata in una crisi epocale – il cardinale Prosper Grech, a cui fu affidata l’ultima meditazione in cappella Sistina prima che si aprissero le votazioni, parlò di pedofilia, tradimenti, scismi… – ha avuto un estremo istinto di sopravvivenza. E si è affidata all’uomo che può salvarla. Sconvolgendola.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/come-sopravvive-un-papa/



Iraq, il “problema americano” di papa Bergoglio

In questo momento Francesco non può fare a meno del potere americano, per salvare qualcosa del cristianesimo nell’area mediorientale

Questa conferenza stampa era attesa più di altre per il quadro internazionale in cui la visita in Corea si è svolta: la questione cinese e la divisione della Corea, la guerra permanente tra Israele e Hamas a Gaza, ma soprattutto la lettera datata 9 agosto al segretario generale dell’Onu circa la situazione delle minoranze religiose attaccate dall’Isis in Iraq.
La conferenza stampa si è concentrata sulle questioni internazionali, e la tentazione è di cercare nelle parole del papa una “dottrina Bergoglio” che non esiste.
Ma Francesco si trova di fronte a una situazione che spinge a riconsiderare sotto una nuova luce il dovere della comunità internazionale all’ingerenza umanitaria per proteggere le popolazioni a rischio di genocidio. Papa Benedetto XVI non dovette confrontarsi con una crisi internazionale di questo tipo.
E invocare (come si fa in alcuni circoli cattolici) il carattere profetico del discorso di Ratisbona sull’Islam è solo un modo per evitare di capire la congiuntura attuale.
Dall’intervista di papa Francesco è chiaro il linguaggio usato per esprimere la consapevolezza della Chiesa che interventi umanitari si sono talvolta tramutati in guerre di conquista, e il ribadire che l’interlocutore di riferimento sono le Nazioni Unite. L’Europa politica svolge un ruolo radicalmente marginale nel linguaggio bergogliano, e non è soltanto sfiducia verso Bruxelles. Non si tratta più del papato globale di Giovanni Paolo II post-Muro di Berlino, che si sgancia dal ruolo di garante morale e spirituale della Nato. Quello di Francesco è un papato globale de iure e de facto che non si sente più legato a quel progetto di Occidente post-1945 «concepito in Vaticano e partorito a Washington», come disse il teologo protestante tedesco Martin Niemoller.
Una delle espressioni più audaci usate da Francesco al ritorno dalla Corea per descrivere la situazione attuale è quella di una «terza guerra mondiale fatta a pezzetti». È una visione delle cose tipica di un non europeo, che non vede nella fine della Seconda guerra mondiale l’inizio di una pax europea estesa al resto del globo: quella pace è stata già rotta da tempo e i conflitti lambiscono i confini dell’Unione, non senza responsabilità europee e americane. Nel tardo secolo XX una visione di questo genere sarebbe stata accusata di terzomondismo, frutto di una politica “non allineata”. Ma papa Francesco è non soltanto il primo papa del post-Concilio in senso teologico, ma anche il primo papa del secolo XXI in senso geopolitico. Questo comporta un ridimensionamento della centralità europea sulla mappa della ecclesia globale e della centralità nordatlantica nel giudicare lo stato del mondo.
Francesco ha un evidente “problema americano”. Non è certo un lapsus quel passaggio in cui ricorda ai cattolici (statunitensi) l’insegnamento morale della Chiesa circa la tortura. Ma interessante è anche la volontà di papa Francesco di tenere in sospeso i cattolici americani circa l’ipotizzata visita del settembre 2015: in parte per rimproverare al vescovo di Philadelphia, Chaput, la volontà di accreditarsi in pubblico, qualche mese fa, come colui che aveva convinto il papa a venire in America; ma anche perché per Francesco la Chiesa americana rappresenta un’incognita e allo stesso tempo una Chiesa come le altre. Se c’è un papa che non crede nell’eccezionalismo americano, questo è proprio l’argentino Bergoglio.
Le parole della conferenza stampa di papa Francesco sono state divulgate solo un paio d’ore prima della conferenza stampa di Barack Obama sui fatti di Ferguson. È tutto dire che il presidente avrebbe voluto parlare più di Iraq che dei tumulti a sfondo razziale in Missouri: un altro segnale del declino della rilevanza dell’America nella geopolitica mondiale. Il papa sudamericano è cosciente di questo declino. Ma in questo momento Francesco non può fare a meno del potere americano, per salvare qualcosa di quel cristianesimo che nell’area mediorientale era vitale già secoli prima che i vescovi di Roma fossero chiamati papi.
http://www.europaquotidiano.it/2014/08/20/iraq-il-problema-americano-di-papa-bergoglio/

Papa Francesco come Leone Magno. Dopo 1500 anni un Pontefice si offre come "forza di interposizione" davanti alla barbarie

FRANCESCO


Il primo pontefice a fare storicamente, fisicamente, da forza di interposizione fu Leone Magno, nell’anno del Signore 452 sulla riva del Mincio, incontro alle orde di Attila che scendevano verso Roma, dopo avere devastato le pianure del Nord: come Abu Bakr alla volta di Bagdad.
A offrirgli copertura aerea, in luogo dei droni di Obama, le folgori degli apostoli Pietro e Paolo. E a immortalare la scena, rigorosamente in 3 D, la mano di Raffaello, maestro di prospettiva.
L’iniziativa fu assunta di concerto con l’autorità internazionale di allora, ossia i due imperi d’Oriente e d’Occidente. Una sorta di ONU in versione G 2. Ma il vero consulto, narra il cronista Prospero d’Aquitania, il Papa lo tenne nella sua coscienza: “Leone intraprese quella missione confidando nell’aiuto di Dio, sapendo che egli non viene mai meno nelle difficoltà dei suoi fedeli. La sua fede non fu smentita”.
L’immagine di un Papa che si frappone ai barbari, esponendosi alla possibilità concreta del martirio, non è inedita negli annali della Chiesa, benché ormai sembrasse archiviata per sempre. Ma proprio per questo costituisce un segno dei tempi. Marca una escalation del terrore, una implosione dell’ordine universale. Il tramonto delle istituzioni e la fine di un’epoca. Quella volta infatti l’Urbe la scampò, ma di lì a tre anni cedette alla furia dei Vandali e appena un quarto di secolo dopo, nel fatidico 476, assisté impotente alla deposizione dell’ultimo imperatore.
Il desiderio di andare in Iraq deve avere accompagnato il Papa in crescendo, durante il soggiorno in Oriente, insieme a una voglia tattica, irresistibile di “promulgarlo” e renderlo pubblico, nel “bombardamento aereo” della conferenza di ritorno, scompaginando il fronte dei contrari, che coalizza le intelligence di mezzo mondo, terrorizzate al pensiero di dovere - e non potere - garantire la sicurezza.
L’idea si è alimentata delle suggestioni possenti della beatificazione di massa e delle analogie logistiche, duecento anni dopo, con i cattolici di Corea, perseguitati e costretti anch’essi alla “fuga sulle montagne”, come coloro che oggi risalgono i contrafforti del Kurdistan. Fino ad abbattere il diaframma dei meridiani e facendo apparire il martirio come dimensione ordinaria e prossima, non solo originaria ed estrema, della vita della Chiesa. In una geopolitica del sangue che coagula e unifica le differenze tra culture e congiunture storiche.
Soprattutto, Francesco ha maturato la persuasione che pregare a distanza non basti più. “Apre una porta”, come ha ricordato in volo. Una soglia che nell’immaginario sacramentale del Papa deve però introdurre alla fase successiva della testimonianza concreta e incarnata in loco, per fermare l’aggressore con le armi “convenzionali” di cui la Chiesa dispone. Le stesse che usò Leone: alzando l’ostia come una bandiera bianca, emblema di un “habeas corpus” millenario e simbolo divino della sacralità del corpi, profanati e straziati, nella stagione dei kamikaze e delle torture, rimbalzate nel mondo dalle televisioni
Davanti alla barbarie che invade i media come arsenali e teatri di guerra, il Pontefice argentino avverte l’istinto primordiale e postmoderno, teologico e tecnologico dei Successori di Pietro, chiamati a sbarrare la strada del male con le insegne del bene, ingaggiando la battaglia dei gesti profetici e consegnandosi come Leone all’iconografia dei posteri.
Attraverso fusi orari e riflussi epocali, l’Asia di Francesco si estende per settemila chilometri da un martirio all’altro: dalla città delle “Mille e Una notte” alla “terra del calmo mattino”, come ha definito la Corea nelle prime parole del discorso di benvenuto alla Blue House e nelle ultime della omelia di commiato nella cattedrale di Myeong-dong.
Dopo la sconfitta subita in casa con il fallimento del tentativo di pace in Medio Oriente, fra Terra Santa e Mesopotamia, nei luoghi dove nacquero il cristianesimo e il monoteismo, Bergoglio ha ottenuto un insperato successo in trasferta nell’estremo Est, culla e incubatrice dell’umanità del futuro, tra il Mar della Cina e il Mar del Giappone, dove il millennio si plasma ed emerge con i cromosomi del genio asiatico. Ma dove una deflagrazione bellica, sull’onda di una crisi di nervi o di un incidente occasionale, a cento anni da Sarajevo, farebbe impallidire il nucleare degli ayatollah e le scimitarre del califfo, per l’alta concentrazione di tecnologia e ideologia, revisionismi e revanscismi.
In attesa di cogliere i frutti spirituali nel campo della evangelizzazione, la Chiesa è apparsa intanto protagonista sul piano geopolitico, in un’area del pianeta considerata epicentro della globalizzazione, ma finora impermeabile a qualsivoglia influenza dei Romani Pontefici.
Un filo di sangue ha collegato per una settimana le due sponde del continente: l’Oceano e il Mediterraneo, l’Ottocento e il XXI secolo, la storia la cronaca, Kim Jong-un e Abu Bakr Al-Baghdadi. Da un lato la proclamazione di 124 beati davanti a un milione di fedeli, durante la messa di sabato alla Porta di Gwanghwamun. Dall’altro la contabilità dei nuovi martiri, aggiornata quotidianamente sotto gli occhi del mondo, a colpi anch’essa di cento alla volta, nel genocidio perpetrato dallo Stato Islamico. Così la dimensione geopolitica del viaggio ha preso il sopravvento, inesorabilmente, su quella religiosa. Francesco, avevamo scritto alla vigilia, era venuto a operare un “pivot”, ossia un riposizionamento strategico e urgente, sul proscenio di un secolo in cui l’Asia si annuncia protagonista e nel quale la Chiesa, restando ai margini, finirebbe relegata in un ruolo di comprimario. “Svegliatevi. Non dormite”: il grido di Bergoglio è risuonato alla stregua del “Nessun dorma” di Puccini, nelle scenografie d’Oriente del Castello di Haemi e nell’orecchio di un popolo amante della lirica.
Ci eravamo domandati, a riguardo, fino a che punto il Papa gesuita si sarebbe spinto e spogliato dell’habitus mentale romano per indossare gli abiti di scena di Matteo Ricci, pioniere dell’inculturazione nell’Impero di Mezzo, mezzo millennio fa. Francesco invece, nel più importante dei suoi dieci discorsi in cinque giorni, ha pronunciato all’opposto l’allocuzione più ratzingeriana del suo pontificato, richiamando e ricalcando il celebre, vibrante appello “identitario” che il cardinale e “candidato” tedesco proferì sulla soglia della Sistina.
L’inganno del relativismo, che allora si materializzò nei “venti” e nelle “onde di dottrina”, in Bergoglio assume le sembianze di “sabbie mobili, sotto i nostri piedi”, trasmettendo però una medesima percezione di instabilità. In un continente di continenti, dove i cattolici rappresentano il pusillus grex, ossia un piccolo gregge del tre per cento su quattro miliardi e mezzo di anime, Francesco ha intravisto e inteso scongiurare, all’orizzonte, il rischio che l’identità si diluisca e smarrisca nella centrifuga delle metropoli globalizzate: “Dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza non si può dialogare…dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo…”.
Il Papa “rivoluzionario”, in tal modo, ha pure sfatato un mito che lo circonda, ripristinando la fama di moderato di cui godeva fino al 2013. Un DNA che agli occhi degli altri porporati lo aveva sempre distinto da Martini, rendendolo papabile in due conclavi e valendogli l’elezione nel secondo, da parte di un collegio ancora più conservatore del 2005.
Identità etica e dottrinale forte, dunque, unitamente alla neutralità politica, quale promessa e premessa del dialogo. Come il principe misterioso, protagonista del racconto, Bergoglio si è premurato di far sapere alla bella, ed ermetica, Turandot di non essere venuto a conquistare il suo impero, ma il suo cuore: "Ma questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi".
Esattamente quello che la nuova leadership cinese si aspetta dalle religioni, come fattore di coesione, in grado di generare virtù morali, antidoto all’individualismo e alle sperequazioni, che divaricano e disgregano la società. Un mix di dinamismo e conservatorismo funzionali al disegno di Xi Jinping, impegnato a ergere una diga contro la corruzione, in una campagna dall’esito incerto. Una resa dei conti drammatica, dove non tutto trapela e il presidente si gioca tutto.
Come il “gong” di Puccini, anche il viaggio a Seoul ha segnato l’inizio di un corteggiamento e avvicinamento a Pechino, in cui Bergoglio si è aggiudicato ai punti la prima prova e tuttavia il finale, notoriamente, resta incompiuto.
Saranno la provvidenza divina e le convenienze degli uomini, che in questo caso coincidono, a sviluppare la trama dell’ “empatia” tra Turandot, nella sua versione comunista-capitalista, e l’erede del Principe degli Apostoli, sulle note di una comune ispirazione.
Nel frattempo, la consegna è di procedere in maniera “irreprensibile”, con una capacità di cogliere la “comunicazione non detta”, ossia le parole che gli altri non pronunciano, ma cercano ugualmente di farci comprendere. “Qual è stato il primo comandamento di Dio Padre al nostro padre Abramo? Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile".
Una evocazione, quella del patriarca biblico, che buttata lì a vescovi e giornalisti, al termine del viaggio, è sembrata una citazione di repertorio, ma oggi suona come il presagio della prossima meta e molto presto potrebbe portare il Successore di Pietro a muovere, “irreprensibilmente”, verso la terra dove tutto ebbe inizio e in cui cristiani, ebrei e mussulmani costituivano un tempo una sola civiltà. Nel nome di Abramo.

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