“All’alba vincerò”. La Chiesa, ovvero i gesuiti, ci riprovano. Storicamente quello di Bergoglio rappresenta il terzo grande tentativo di sfondare a Oriente dopo i colleghi Francesco Saverio e Matteo Ricci. A cinque secoli di distanza e sul proscenio di un nuovo millennio, di cui l’Asia è già protagonista e in cui la Chiesa, senza l’Asia, verrebbe relegata in un ruolo di comprimaria. Per il Pontefice argentino cominciano due viaggi. Geopolitico ed estroflesso il primo, a esplorare ancora una volta la via delle Indie. Biografico e introspettivo il secondo, a indagare una volta per tutte il mistero del suo destino. Concludendo sul campo il percorso di autocoscienza iniziato nell’incubatrice della Sistina il 13 marzo 2013, al settantasettesimo voto del sesto scrutinio.
Sulla carta geografica Seoul, Pechino e Tokyo rispetto a Buenos Aires configurano gli antipodi, ossia i luoghi più lontani. Ma nella nostalgia di Francesco sono da sempre i più vicini, la prima scelta, dove avrebbe voluto spendere la sua esistenza se i superiori non glielo avessero negato: “Quando studiavo teologia ho scritto al generale, che era il padre Arrupe, perché mi mandasse in Giappone. Ma lui mi ha detto: “Lei ha avuto una malattia al polmone, quello non è tanto buono per un lavoro tanto forte. E sono rimasto a Buenos Aires”. Ora che è diventato il comandante in capo, il Papa ritorna dunque “al futuro” del suo primo amore incompiuto, dato per perso e finalmente riapparso, con cinquant’anni di ritardo e l’imperativo di non sbagliare.
Come il “principe ignoto” dell’opera di Puccini, anch’essa incompiuta, Bergoglio sa che per conquistare il regno, e il cuore, di Turandot è necessario sciogliere l’enigma e dare un nome al principio che, dal profondo, unisce il genere umano. L’Evangelizzazione dell’Asia, in definitiva, si può realizzare solo riconoscendo l’autonomia dei suoi modelli culturali e rinunciando alla supremazia dell’imprinting greco-romano, teorizzata invece da Ratzinger: è questo lo strappo che si appresta a compiere il meno occidentale tra i papi, anche se proveniente dall’estremo Ovest. Non solo esploratore ma pure sperimentatore, coerentemente con la sua doppia “professionalità” di gesuita e perito chimico. “Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano”, scrive in proposito in Evangelii Gaudium”, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto trans-culturale”.
In tale cornice si annuncia decisivo e suggestivo il discorso di sabato ai vescovi dell’Asia: in esso il Papa delineerà le sue strategie, spiegando fino a che grado di “autonomia culturale” intende spingersi per colmare il gap, nel continente che a metà del secolo produrrà la metà del PIL del pianeta, mentre il fatturato d’anime della Chiesa, nel terzo millennio dell’era cristiana, rimane fermo al tre per cento della popolazione. Volando a Seoul per la sesta Giornata della Gioventù Asiatica, inoltre, il Pontefice è consapevole di non attraversare soltanto un varco trans-culturale, ma trans-generazionale: una sorta di portale spazio - tempo. Francesco ammira infatti lo splendore, ma non ignora il lato oscuro delle culture con cui viene a misurarsi.
Per questo ha deciso di puntare sui giovani, saltando a piè pari l’attuale generazione di governanti, tecnologicamente progrediti ma psicologicamente revanscisti, ostaggio di rigurgiti che gettano l’ombra del passato sull’orizzonte radioso di questa sponda di mondo, baricentro della globalizzazione. Un’area dove l’oceano è “Pacifico” solo di nome, increspato dalle dispute “insulari” di sovranità su arcipelaghi e atolli, tornate a galla e alimentate in uguale misura da idrocarburi e rancori, che giacciono sul fondo del mare e della memoria: dalle isole Senkaku - Diaouyu, assurte a notorietà internazionale, fino alle Paracelso e Spratly, stazioni di servizio sparpagliate e scogli d’inciampo lungo un’autostrada del mare fra le più trafficate del pianeta, teatro di costanti accelerazioni economiche e improvvise retromarce politiche.
Anche il Vaticano, come la Casa Bianca, consolida dunque le sue “basi” in Estremo Oriente, a pochi mesi dal viaggio di Obama in quattro paesi dell’area (Corea, Filippine, Giappone, Malaysia) e in un frangente in cui le strade delle due superpotenze, morale e spirituale, sono tornate drammaticamente a convergere in direzione di Bagdad, dopo avere toccato un anno fa il massimo della divaricazione sulla via di Damasco, durante la crisi siriana.
Stati Uniti e Santa Sede conducono entrambi una politica di accerchiamento della Cina con finalità però opposte: l’America per contenerne l’espansione, il Papa per espandervi la Chiesa. Il pontificato di Francesco, a differenza di Benedetto e a somiglianza di Giovanni Paolo II, reca infatti un forte segno geopolitico, accomunato dall’attrazione magnetica, e vocazione ortopedica, verso muri e barriere, fossati e fili spinati. Se Wojtyla è stato il patriota liberatore che veniva da Est per riportare a Ovest una parte di Europa, Bergoglio ha il profilo dell'esploratore gesuita che viene da Occidente ma volge a Oriente, cominciando dalla nazione spezzata in due sul 38° parallelo.
Dall’altro lato del confine, convitato di pietra, sta un despota ereditario e sanguinario. Figura caricaturale ma reale. Improbabile e impossibile a pensarci bene, eppure in carne ed ossa. Quanto le carni e le ossa degli avversari politici, veri o supposti, che sottopone a tortura e manda a morte. “Nessun dorma”: su 24 viaggi apostolici dal 2005 al 2012 Benedetto XVI non ha mai visitato l’Asia, che nel frattempo si confermava più che mai come il motore del mondo. Agli storici basterà questa evidenza per avere contezza della sfida, politica e religiosa, che attende Francesco.
Il viaggio in Corea, seguito dalle Filippine a gennaio e dal Giappone, ancora senza data, segna l’inizio di una rimonta. Per recuperare il tempo e il terreno perduti. E cogliere il risveglio religioso del continente. L’equivalente vaticano del “Pivot to Asia”: espressione che denomina la dottrina Obama di ribilanciamento a Oriente delle priorità strategiche di Washington, dopo le divagazioni “teologiche” dell’era Bush. Pivot: che tradotto vuol dire “cardine”, o “incardinamento”. Parola non nuova nel lessico ecclesiale, dove si usa per definire l’appartenenza, e ancoraggio, di un prete al territorio d’elezione. Un territorio che Francesco, nemmeno negli auspici più audaci, avrebbe mai immaginato di raggiungere alla guida della barca di Pietro, gettando l’ancora e incardinando la Chiesa intera nel vortice della storia, dove il millennio si forgia ed emerge con il volto del “secolo asiatico”.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.