L’opera di demolizione dei limiti “di facciata” posti dalla legge 40 a se stessa, è stata poi solo completata dalla pronuncia che ha eliminato anche il divieto di utilizzare gameti estranei alla coppia. Ma anche quest’ultima raccapricciante variante della creazione di esseri umani su ordinazione e secondo gli umori dell’ordinante, incoraggiata da interessi di ogni risma, riconduce a quella causa prima, cioè a quella possibilità di produrre l’uomo in laboratorio che la legge 40 ha elevato a diritto individuale e ad interesse collettivo. A quell’oltraggioso superamento della soglia del giardino dove Dio, ”ad oriente, ha posto i cherubini con la spada folgorante per sbarrare l’accesso all’albero della vita”.
di Patrizia Fermani
Di solito quando parliamo del peccato dei progenitori andiamo subito col pensiero, giustamente, all’albero della conoscenza del bene e del male i cui frutti Dio vieta in modo esplicito all’uomo di mangiare, pena la perdizione. Conoscenza del bene e del male è la decisione di ciò che è bene e male, decisione che Dio ha riservato a sé poiché è sua la legge secondo cui ha dato ordine alla creazione e suo il giudizio. L’uomo deve conformarsi a questa legge e a questo giudizio che presuppongono la distinzione appunto tra ciò che è bene, perché conforme alla volontà e quindi anche alla Ragione di Dio, e male perché difforme da entrambe.
Ma in realtà gli alberi che Dio distingue da tutti gli altri nel giardino, sono due, perché, dice la Bibbia: “(Dio), fatti germogliare ogni sorta di alberi, pone nel mezzo l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male”(Gen,2,9). Pare dunque che al centro ci sia proprio l’albero della vita che ha accanto quello della conoscenza del bene e del male.
Dicono i commentatori che l’albero della vita appartiene ad una tradizione parallela a quella della conoscenza del bene e del male. Ma il confluire di entrambe in un unico racconto, che si ritrova identico nella versione greca dei Settanta, mi sembra che possa non essere casuale e che si possa vedere il legame simbolico e di complementarità, o meglio di specialità che le unisce. Se il quadro della creazione rappresentato dai racconti biblici è il paradigma di un ordine con le proprie leggi e i propri contenuti immutabili, ecco che rispettare l’albero della conoscenza del bene e del male non è altro che rispettare la creazione e non sovvertirne le regole secondo cui essa è stata plasmata da Dio. E se al centro della creazione c’è la vita simboleggiata dall’albero posto nel mezzo del giardino, si può vedere come la conoscenza del bene e del male abbia ad oggetto, in primo luogo, proprio la vita. Tanto che poi il racconto della trasgressione si conclude così: ”Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire l’accesso all’albero della vita”(Gen, 3,24).
Dunque questo ultimo passo sembra confermare la centralità data dal racconto all’albero della vita, già lumeggiata dal suo essere stato posto “in mezzo al giardino”( Gen 2,9). A partire da quest’ultimo passo mi sembra che il superamento del limite della conoscenza del bene e del male, oggi in particolare, abbia assunto la forma inedita e perversa che si esprime nella volontà dell’uomo di superare a tutti i costi la barriera posta sulla strada che porta all’albero della vita. Ma su chi travolge quella barriera si dovrà abbattere la “spada folgorante”.
“La minaccia alla vita da parte dell’uomo, ha conferito nuova urgenza al tema della creazione”. Con queste parole inizia la raccolta delle quattro prediche quaresimali che Joseph Ratzinger tenne nella cattedrale di Monaco nella primavera del 1981, ed esse mi sembrano oggi quanto mai significative. Ne ho preso spunto per le riflessioni svolte nell’articolo di giovedì scorso e per quelle qui esposte che vi erano sottese. Queste ultime, ovviamente, non hanno alcuna pretesa di fornire una particolare esegesi biblica per la quale non possiederei comunque gli strumenti tecnici minimi necessari. Ma tutto il discorso è volto, questo sì, a richiamare l’attenzione su una realtà che rischia sempre di più di essere inghiottita dalle sabbie mobili della politica e purtroppo, oggi più che mai, anche da quelle della politica ecclesiastica.
La apertura dell’ordinamento giuridico alla possibilità della fecondazione eterologa, aggrava enormemente la gravità delle conseguenze della fecondazione artificiale sugli equilibri psico fisici, sulla formazione morale e culturale degli individui che vengono fatti venire al mondo e sugli assetti della intera società. Come se l’uomo fosse una monade dispersa nel vuoto, o un meteorite che si può lanciare in ogni momento sulla terra. Figlio del caso, privato a priori della irrinunciabile necessità di fare parte di una catena che lo leghi al passato, cioè anche alla sua storia pregressa, e al futuro, al quale quella storia va consegnata. È stato tante volte osservato come il bambino abbandonato è l’adulto che andrà alla ricerca disperata dei propri genitori, di una famiglia di sangue che nessuna altra famiglia può sostituire come un tempo la patria (dico un tempo perché la cancellazione della patria è stata funzionale alla cancellazione del padre) non poteva essere sostituita in alcun modo dal luogo in cui ti trovavi a vivere, perché prima o poi ti avrebbe richiamato a sé attraverso una misteriosa e struggente nostalgia. Tutto questo legame di sangue e di storia viene ignorato dalla ottusa burocrazia giurisprudenziale e legislativa che rispecchiano la ottusità della politica. Una volta creati i figli di genitori sconosciuti, frutti inconsapevoli della follia manipolatoria della vita umana, ovviamente già si paventa la possibilità di future unioni incestuose tra consanguinei ignari dei propri effettivi rapporti di parentela, e tante altre amenità legate alla immissione sul mercato di anonimi e incontrollati “fattori di produzione” quali gameti maschili e femminili pronti all’uso nel supermercato dell’umano.
Ma alla base di questa dissennata ignoranza della realtà dell’uomo librata nel vuoto delle imposture giuridiche, e della noncuranza per le conseguenze di ogni tipo, rimane comunque l’insania di fabbricare l’uomo in laboratorio e la violazione del principio che dà forma alla nascita della vita. C’è la disumanizzazione della vita umana nascente alla quale viene tolto per legge il proprio sostrato spirituale perché la si estirpa dall’unione della carne e dello spirito. Da quella complessa e inscindibile compenetrazione appunto, di materia e spirito che è l’essenza dell’atto sessuale, e che riproduce la essenza stessa dell’uomo, così come la elementare funzionalità dell’accoppiamento animale rispecchia la struttura istintiva della vita biologica. In questo senso la produzione dell’uomo in laboratorio è anzitutto la sottrazione all’origine di una essenza, lo snaturamento di un fenomeno al quale viene rapinato il proprio contenuto spirituale, la amputazione di un patrimonio morale dal corpo di un individuo costretto a nascere con un irreparabile impoverimento.
E tutto ciò senza considerare la gravità del prezzo pagato dalla fecondazione artificiale di qualunque tipo, omologa o eterologa che sia, in termini di vite umane eliminate. Perché questo è invece, in ogni caso, l’aspetto più vistoso e provato di tutta l’operazione, quello per cui la realtà parla da sola.
Infatti in ogni caso di fecondazione artificiale, per ogni tentativo di indurre una gravidanza attraverso l’impianto di embrioni prodotti in laboratorio, da chiunque provengano i gameti utilizzati, moltissimi di questi embrioni vengono scartati perché inadatti o difettosi, altri avviati ad essere utilizzati per la ricerca, mentre altri ancora, “buoni” ma prodotti in esubero, vengono crioconservati. Il “cattolico” ospedale San Raffaele del fu altrettanto “cattolico” don Verzè, si vantava di essere all’avanguardia nelle pratiche di fecondazione artificiale già molti anni prima dell’avvento nel 2004 della legge 40.
Quest’ultima, nella sua stesura originale, ha preteso di dare dignità morale alla fecondazione artificiale, limitandola anzitutto alle coppie di coniugi o di conviventi stabili di sesso diverso. Sul presupposto che ciò bastasse a mantenere a tutta l’operazione il carattere mimetico dei processi naturali di procreazione i quali tendono ad assicurare al nascituro l’accoglimento in quella che è già in pectore la sua famiglia.
In secondo luogo, la legge ha inteso superare l’ostacolo morale legato alla selezione degli embrioni “buoni” per l’impianto e alla conseguente distruzione di quelli incapaci di superare la prova. Inoltre ha mostrato di voler restringere al minimo il ricorso alla crioconservazione degli embrioni non utilizzati. Infatti ai commi 2 e 3 dell’art.14 sono stati posti i limiti che avrebbero assicurato alla legge la reputazione di “buona legge”: non si dovevano produrre più di tre embrioni, bisognava impiantarli tutti, e soltanto nel caso in cui questo non fosse possibile perché troppo gravoso per la salute della donna, quelli non immediatamente utilizzati avrebbero potuto essere congelati in vista di un impiego futuro.
Ma una inaudita pressione mediatica e una giurisprudenza più sensibile ad essa che alle ragioni dell’etica, o alla ragione tout court, hanno portato allo svuotamento di quelle fragili limitazioni. Così la sentenza n.151 del 2009 della Corte Costituzionale ha fatto piazza pulita dei limiti relativi al numero degli embrioni prodotti e del divieto di crioconservazione.
L’opera di demolizione dei limiti “di facciata” posti dalla legge 40 a se stessa, è stata poi solo completata dalla pronuncia che ha eliminato anche il divieto di utilizzare gameti estranei alla coppia.
Ma anche quest’ultima raccapricciante variante della creazione di esseri umani su ordinazione e secondo gli umori dell’ordinante, incoraggiata da interessi di ogni risma, riconduce a quella causa prima, cioè a quella possibilità di produrre l’uomo in laboratorio che la legge 40 ha elevato a diritto individuale e ad interesse collettivo. A quell’oltraggioso superamento della soglia del giardino dove Dio, ”ad oriente, ha posto i cherubini con la spada folgorante per sbarrare l’accesso all’albero della vita”.
Di solito quando parliamo del peccato dei progenitori andiamo subito col pensiero, giustamente, all’albero della conoscenza del bene e del male i cui frutti Dio vieta in modo esplicito all’uomo di mangiare, pena la perdizione. Conoscenza del bene e del male è la decisione di ciò che è bene e male, decisione che Dio ha riservato a sé poiché è sua la legge secondo cui ha dato ordine alla creazione e suo il giudizio. L’uomo deve conformarsi a questa legge e a questo giudizio che presuppongono la distinzione appunto tra ciò che è bene, perché conforme alla volontà e quindi anche alla Ragione di Dio, e male perché difforme da entrambe.
Ma in realtà gli alberi che Dio distingue da tutti gli altri nel giardino, sono due, perché, dice la Bibbia: “(Dio), fatti germogliare ogni sorta di alberi, pone nel mezzo l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male”(Gen,2,9). Pare dunque che al centro ci sia proprio l’albero della vita che ha accanto quello della conoscenza del bene e del male.
Dicono i commentatori che l’albero della vita appartiene ad una tradizione parallela a quella della conoscenza del bene e del male. Ma il confluire di entrambe in un unico racconto, che si ritrova identico nella versione greca dei Settanta, mi sembra che possa non essere casuale e che si possa vedere il legame simbolico e di complementarità, o meglio di specialità che le unisce. Se il quadro della creazione rappresentato dai racconti biblici è il paradigma di un ordine con le proprie leggi e i propri contenuti immutabili, ecco che rispettare l’albero della conoscenza del bene e del male non è altro che rispettare la creazione e non sovvertirne le regole secondo cui essa è stata plasmata da Dio. E se al centro della creazione c’è la vita simboleggiata dall’albero posto nel mezzo del giardino, si può vedere come la conoscenza del bene e del male abbia ad oggetto, in primo luogo, proprio la vita. Tanto che poi il racconto della trasgressione si conclude così: ”Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire l’accesso all’albero della vita”(Gen, 3,24).
Dunque questo ultimo passo sembra confermare la centralità data dal racconto all’albero della vita, già lumeggiata dal suo essere stato posto “in mezzo al giardino”( Gen 2,9). A partire da quest’ultimo passo mi sembra che il superamento del limite della conoscenza del bene e del male, oggi in particolare, abbia assunto la forma inedita e perversa che si esprime nella volontà dell’uomo di superare a tutti i costi la barriera posta sulla strada che porta all’albero della vita. Ma su chi travolge quella barriera si dovrà abbattere la “spada folgorante”.
“La minaccia alla vita da parte dell’uomo, ha conferito nuova urgenza al tema della creazione”. Con queste parole inizia la raccolta delle quattro prediche quaresimali che Joseph Ratzinger tenne nella cattedrale di Monaco nella primavera del 1981, ed esse mi sembrano oggi quanto mai significative. Ne ho preso spunto per le riflessioni svolte nell’articolo di giovedì scorso e per quelle qui esposte che vi erano sottese. Queste ultime, ovviamente, non hanno alcuna pretesa di fornire una particolare esegesi biblica per la quale non possiederei comunque gli strumenti tecnici minimi necessari. Ma tutto il discorso è volto, questo sì, a richiamare l’attenzione su una realtà che rischia sempre di più di essere inghiottita dalle sabbie mobili della politica e purtroppo, oggi più che mai, anche da quelle della politica ecclesiastica.
La apertura dell’ordinamento giuridico alla possibilità della fecondazione eterologa, aggrava enormemente la gravità delle conseguenze della fecondazione artificiale sugli equilibri psico fisici, sulla formazione morale e culturale degli individui che vengono fatti venire al mondo e sugli assetti della intera società. Come se l’uomo fosse una monade dispersa nel vuoto, o un meteorite che si può lanciare in ogni momento sulla terra. Figlio del caso, privato a priori della irrinunciabile necessità di fare parte di una catena che lo leghi al passato, cioè anche alla sua storia pregressa, e al futuro, al quale quella storia va consegnata. È stato tante volte osservato come il bambino abbandonato è l’adulto che andrà alla ricerca disperata dei propri genitori, di una famiglia di sangue che nessuna altra famiglia può sostituire come un tempo la patria (dico un tempo perché la cancellazione della patria è stata funzionale alla cancellazione del padre) non poteva essere sostituita in alcun modo dal luogo in cui ti trovavi a vivere, perché prima o poi ti avrebbe richiamato a sé attraverso una misteriosa e struggente nostalgia. Tutto questo legame di sangue e di storia viene ignorato dalla ottusa burocrazia giurisprudenziale e legislativa che rispecchiano la ottusità della politica. Una volta creati i figli di genitori sconosciuti, frutti inconsapevoli della follia manipolatoria della vita umana, ovviamente già si paventa la possibilità di future unioni incestuose tra consanguinei ignari dei propri effettivi rapporti di parentela, e tante altre amenità legate alla immissione sul mercato di anonimi e incontrollati “fattori di produzione” quali gameti maschili e femminili pronti all’uso nel supermercato dell’umano.
Ma alla base di questa dissennata ignoranza della realtà dell’uomo librata nel vuoto delle imposture giuridiche, e della noncuranza per le conseguenze di ogni tipo, rimane comunque l’insania di fabbricare l’uomo in laboratorio e la violazione del principio che dà forma alla nascita della vita. C’è la disumanizzazione della vita umana nascente alla quale viene tolto per legge il proprio sostrato spirituale perché la si estirpa dall’unione della carne e dello spirito. Da quella complessa e inscindibile compenetrazione appunto, di materia e spirito che è l’essenza dell’atto sessuale, e che riproduce la essenza stessa dell’uomo, così come la elementare funzionalità dell’accoppiamento animale rispecchia la struttura istintiva della vita biologica. In questo senso la produzione dell’uomo in laboratorio è anzitutto la sottrazione all’origine di una essenza, lo snaturamento di un fenomeno al quale viene rapinato il proprio contenuto spirituale, la amputazione di un patrimonio morale dal corpo di un individuo costretto a nascere con un irreparabile impoverimento.
E tutto ciò senza considerare la gravità del prezzo pagato dalla fecondazione artificiale di qualunque tipo, omologa o eterologa che sia, in termini di vite umane eliminate. Perché questo è invece, in ogni caso, l’aspetto più vistoso e provato di tutta l’operazione, quello per cui la realtà parla da sola.
Infatti in ogni caso di fecondazione artificiale, per ogni tentativo di indurre una gravidanza attraverso l’impianto di embrioni prodotti in laboratorio, da chiunque provengano i gameti utilizzati, moltissimi di questi embrioni vengono scartati perché inadatti o difettosi, altri avviati ad essere utilizzati per la ricerca, mentre altri ancora, “buoni” ma prodotti in esubero, vengono crioconservati. Il “cattolico” ospedale San Raffaele del fu altrettanto “cattolico” don Verzè, si vantava di essere all’avanguardia nelle pratiche di fecondazione artificiale già molti anni prima dell’avvento nel 2004 della legge 40.
Quest’ultima, nella sua stesura originale, ha preteso di dare dignità morale alla fecondazione artificiale, limitandola anzitutto alle coppie di coniugi o di conviventi stabili di sesso diverso. Sul presupposto che ciò bastasse a mantenere a tutta l’operazione il carattere mimetico dei processi naturali di procreazione i quali tendono ad assicurare al nascituro l’accoglimento in quella che è già in pectore la sua famiglia.
In secondo luogo, la legge ha inteso superare l’ostacolo morale legato alla selezione degli embrioni “buoni” per l’impianto e alla conseguente distruzione di quelli incapaci di superare la prova. Inoltre ha mostrato di voler restringere al minimo il ricorso alla crioconservazione degli embrioni non utilizzati. Infatti ai commi 2 e 3 dell’art.14 sono stati posti i limiti che avrebbero assicurato alla legge la reputazione di “buona legge”: non si dovevano produrre più di tre embrioni, bisognava impiantarli tutti, e soltanto nel caso in cui questo non fosse possibile perché troppo gravoso per la salute della donna, quelli non immediatamente utilizzati avrebbero potuto essere congelati in vista di un impiego futuro.
Ma una inaudita pressione mediatica e una giurisprudenza più sensibile ad essa che alle ragioni dell’etica, o alla ragione tout court, hanno portato allo svuotamento di quelle fragili limitazioni. Così la sentenza n.151 del 2009 della Corte Costituzionale ha fatto piazza pulita dei limiti relativi al numero degli embrioni prodotti e del divieto di crioconservazione.
L’opera di demolizione dei limiti “di facciata” posti dalla legge 40 a se stessa, è stata poi solo completata dalla pronuncia che ha eliminato anche il divieto di utilizzare gameti estranei alla coppia.
Ma anche quest’ultima raccapricciante variante della creazione di esseri umani su ordinazione e secondo gli umori dell’ordinante, incoraggiata da interessi di ogni risma, riconduce a quella causa prima, cioè a quella possibilità di produrre l’uomo in laboratorio che la legge 40 ha elevato a diritto individuale e ad interesse collettivo. A quell’oltraggioso superamento della soglia del giardino dove Dio, ”ad oriente, ha posto i cherubini con la spada folgorante per sbarrare l’accesso all’albero della vita”.
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