ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 22 ottobre 2014

Beato evvài..!

Nota su beatificazioni e canonizzazioni




Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti
(Lc. 6, 26)
Nel contesto relativo agli sproloqui “sinodali” non poteva mancare, per i modernisti/postmodernisti. la ciliegina sulla torta: la beatificazione del Montini.
Papa quanto meno controverso!
Figura emblematica del modernismo cangiante; accusato dei peggiori crimini: dal tradimento di Pio XII alle pratiche omosessuali, dalle nomine di vescovi omosex e pedofili all’alleanza massonico-comunista.
Rinviamo a studi ben documentati in materia.

E cosa dice il Papa di lui? Parafrasiamo: è stato un Papa che seppe scrutare i segni dei tempi, che non tornò indietro! Ebbe il grande merito di essere in linea con “le novità di Dio”!
Cogliamo l’occasione per condividere alcune riflessioni in merito, traendo spunto da un articolo che è stato pubblicato nel luglio scorso su Vatican Insider (Canonizzazioni infallibili?), per cercare di approfondire una tematica di stretta attualità e forse anche di notevole interesse.
Parliamo di beatificazioni e canonizzazioni e del relativo esercizio dell’infallibilità pontificia, in esse.

In materia, su questo sito, troverete già interventi illustri (prof. De Mattei, mons. Gherardini, mons. Williamnson).

Premettiamo: dai documenti del Magistero, non s’è mai accennato all’estensione di tale potere anche alle dichiarazioni di santità delle persone defunte; tuttavia, molti teologi, sin dagli albori della proclamazione del dogma dell’infallibilità, hanno creduto di poterlo conseguentemente applicare alla fattispecie.

Vediamo cosa ci dice il vescovo Giuseppe Sciacca, noto canonista e segretario aggiunto del tribunale della Segnatura Apostolica; di seguito approfitteremo per aggiungere ulteriori riflessioni.

D. Il Papa è infallibile quando proclama un nuovo santo?
R. «Secondo la dottrina comune e prevalente, il Papa quando procede con una canonizzazione è infallibile. Com'è noto, la canonizzazione è la sentenza con la quale il Pontefice dichiara solennemente che un beato gode della gloria del cielo e ne estende il culto alla Chiesa universale, in maniera precettiva e definitiva. Non si discute dunque che la canonizzazione sia espressione del primato petrinoAl tempo stesso però non dovrebbe considerarsi infallibile secondo i criteri per l’infallibilità che troviamo definiti nella costituzione dogmatica “Pastor aeternus” del concilio Vaticano I».

DCiò significa secondo lei che il Papa può sbagliare quando proclama un santo?
R. «Non ho detto questo. Non intendo infatti negare che la sentenza emessa nelle cause di canonizzazione abbia un carattere definitivo, e dunque sarebbe temerario, anzi empio, affermare che il Papa possa errare. Dico però che la proclamazione della santità di una persona non è una verità di fede, perché non appartiene al novero delle definizioni dogmatiche e non ha come oggetto diretto o esplicito una verità di fede o di morale, contenuta nella rivelazione, ma solo un fatto indirettamente collegato. Non a caso, né il Codice di diritto canonico del 1917, né quello attualmente vigente, né il Catechismo della Chiesa cattolica espongono la dottrina della Chiesa sulle canonizzazioni».

Come precisato nel prosieguo dell’intervista, a non molto vale neppure il richiamo di San Tommaso d’Aquino, dal momento che la portata dell’infallibilità come definita dal grandissimo teologo, alla sua epoca, era non perfettamente coincidente con quanto poi sarà dichiarato dal concilio Vaticano I. Questo Concilio infatti sembra aver operato – ed in questo è evidente la mano Divina – teologicamente parlando, una vera e propria operazione chirurgica, un discernimento rigoroso, nel fissare le condizioni con le quali opera la suddetta assistenza infallibile dello Spirito Santo.
Interessantissima considerazione è inoltre riscontrabile di seguito.

D. Ci sono elementi storici che fondano la sua posizione?
R. «Mi sembra rivelatrice dell’autocoscienza quantomeno problematica che i Papi avevano dell’infallibilità nelle canonizzazioni la formula della cosiddetta “protestatio” in vigore fino al pontificato di Leone X. I Pontefici, immediatamente prima di procedere all’atto della canonizzazione, affermavano solennemente e pubblicamente di non voler fare qualcosa che fosse contro la fede, o la Chiesa cattolica o l’onore di Dio. Come pure si possono citare le brevi orazioni che monsignor Antonio Baccipoi cardinale, grande cultore dello “stylusCuriae” pronunciava a nome del Papa durante i riti di canonizzazione in San Pietro, dopo la perorazione dell’avvocato concistoriale, con espressioni che non militano certo per la tesi infallibilista, quali ad esempio “inerrans oraculum” (inerrante, non infallibile oracolo), “immutabile sententiam” (immutabile, non infallibile sentenza), “expectatissimam sententiam” (attesissima, non infallibile sentenza). Ancora, uno storico come Heinrich Hoffmann ammette che un’obiezione circa l’infallibilità potrebbe provenire – all’interno dell’allora rito di canonizzazione in vigore fino alla riforma di Paolo VI - dal fatto che immediatamente prima della solenne dichiarazione, i Pontefici manifestassero una qualche esitazione, “mentem vacillantem”, invocando “specialem Sancti Spiritus assistentiam (una speciale assistenza dello Spirito Santo».

Ebbene, questi elementi, opportunamente evidenziati, ci svelano la sottile titubanza dei pontefici nella dichiarazione solenne che porta a canonizzare un defunto. Tali esitazioni non venivano né vengono superate dall’utilizzo di formule di stile, quali «decretiamo e definiamo», all’apparenza vincolanti in virtù della forza della lettera, la quale però, nel casode quo, appare impropriamente e forzatamente estesa al di là delle intenzioni del legislatore della Pastor, in quanto proposta per la definizione di un fatto che in realtà non attiene in maniera specifica alle verità presenti nel deposito della Fede, che sono invece le sole ed uniche destinatarie (per volontà del menzionato concilio Vaticano I) dell’impiego di tali rigorose perifrasi.

Possiamo inoltre aggiungere che dal concilio Vaticano II in poi sembra essersi smarrito lo stesso concetto di “definizione dogmatica”. Avendo incentrato tutto sulla ormai nota ed inflazionata “pastorale”, i Pontefici difficilmente si ergono nella posizione cattedratica dell’insegnamento infallibile. Forse anche questo porta ad indebolire uno degli elementi essenziali per la sussistenza dell’infallibilità e cioè l’intenzione di definire ed “obbligare secondo il definito”.
Ma andiamo oltre. Perché riteniamo, al di là di quanto già scritto, che dirimente di tutto possa essere ravvisato in una ulteriore argomentazione.

Cosa preme sottolineare? Semplicemente questo: nel beatificare o, ancor di più, nel canonizzare una persona la Chiesa non fa altro che dichiarare l’accertamento di una corrispondenza: quella della vita della persona in questione con i principi evangelici.

La domanda a cui si vuole rispondere è infatti questa: ha vissuto tizio in conformità alla legge di Cristo, tanto da farsi santificare da Lui in vita, tanto da essere così esempio e modello per i cristiani della Chiesa militante?

La risposta affermativa della Chiesa, quella che segue le indagini ed il dibattito del processo canonico, porta appunto a dichiarare solennemente questa presa d’atto.
Può essere fallibile una tale affermazione?
Può il fedele vedersi privato della certezza della divina assistenza tipica dell’infallibilità su una materia del genere?

Per rispondere, cerchiamo di capire a cosa serva l’infallibilità.
Essa non è garantita per un qualche capriccio, ma è finalizzata e funzionale a salvare la mente, l’intelletto e quindi la Fede del credente, chiunque sia.

La Fede infatti, quale adesione dell’intelletto ad una verità rivelata, ha necessità di essere perfettamente argomentabile, senza lasciare (s’intende!) la propria componente metarazionale, quanto alla portata e qualità del creduto; questo comporta che la certezza dei contenuti della fede discenda sia dalla Logica divina, coerente e mai contraddittoria, sia dalla necessità di riscontro di essa da parte di chi crede. Dio garantisce in ordine alla verità di ciò che è vero e di ciò che è falso, di ciò che salva e di ciò che invece danna. L’amore di Dio non permette che chi cerca Lui possa essere ingannato su ciò che è essenziale alla salvezza (fede e morale e relativi contenuti); a questo fine dona l’infallibilità del Magistero (secondo i limiti indicati) e la inerranza della sacra Scrittura.

A questo punto, chiediamoci: a che pro l’infallibilità nel caso delle canonizzazioni?
Basta ragionare sul rischio!
Cosa si rischia?
Qual è l’inganno terribile al quale il fedele semplice è esposto nel credere Paolo VI in Cielo?
A parere di chi scrive. Nessuno!

Nessun rischio nel rivolgere le preghiere, rispetto alle quali, il santo, è solo mero intercessore! Dio concede le grazie, non i santi! E tutte le grazie passano comunque per la mediazione universale di Maria SS, dispensatrice di ogni grazia. Delle nostre preghiere Dio fa ciò che vuole, volgendole sempre al Bene.
Si contesterà: non è così! Il santo è comunque additato come esempio di vita e quindi, solo chi ha avuto una vita illibata e senza scandali può essere degno degli onori dell’altare!
Davvero è così? Per quale motivo?

Invitiamo i lettori a ragionare; la Chiesa è santa per la presenza dei santi oppure esistono i santi, perché la Chiesa è santa?
Sappiamo bene che la risposta corretta è appunto la seconda.

Il santo, o il “dichiarato tale” non potrà mai contraddire il Vangelo!
Tanti santi nella loro vita hanno commesso nefandezze, ma non è per esse che sono stati canonizzati! La vita dei santi non è di per se stessa garanzia di inerranza e di infallibilità!!! Va presa alla luce del Vangelo, alla luce di quella verità e di quella carità, aderendo alle quali, essi sono stati santificati.

Non esiste, per il semplice fedele che veda beatificato il Montini, un possibile inganno nella verità. Non c’è! Perché la vita di Paolo VI, orribile o beata che sia, resta un irrilevante orpello di fronte a ciò che la Chiesa da sempre indica come necessario alla salvezza ed alla santità.

In cosa potrebbe consistere quindi l’errore dei prelati in una canonizzazione (o beatificazione, che sia)?: nell’ “elemento di fatto”; l’accertamento delle verità storiche è stato eseguito male o in maniera parziale, o è stato addirittura artatamente adulterato; accertamento di cosa? Di quello che s’è detto prima: della verificata incarnazione del Vangelo nella persona rispetto alla quale l’indagine è stata svolta.

Insistiamo, prendendo spunto dal Prefazio dei santi pastori, così come scritto nel Novus Ordo: “con il suo esempio la rafforzi, con il suo insegnamento l’ammaestri, con la sua intercessione la proteggi”.
Questo il ruolo dei santi: dare l’esempio ed ammaestrare, quindi intercedere.
Su quest’ultimo punto, abbiamo chiarito. Dio usa e destina le preghiere da vero Dominus; Lui è l’unico che sa davvero muovere l’amore del Cielo, dei santi e degli angeli affinché possano ottenerci qualcosa. Lui è il fine della preghiera. Gesù lo dice chiaramente: il dono dello Spirito Santo e la summa dei benefici che possiamo ottenere (un Dono che si coniugherà diversamente in benedizioni e favori, grazie materiali e spirituali…ma si tratta di un Dono unico).
Quanto invece all’esempio ed all’insegnamento?
Ebbene, l’esempio concerne il comportamento; esso in tanto vale in quanto sia ispirato al Vangelo, come già precisato; lo stesso dicasi per l’insegnamento; se è vero che neppure tutto il Magistero ordinario sia in grado di vincolare la coscienza del fedele, qualora esso presenti difformità rispetto a ciò che è stato perennemente creduto dalla santa Chiesa (cosa di cui ampiamente si discute su questo sito, visti i tempi), a maggior ragione le cosiddette rivelazioni private (a volte meraviglioso dono del Cielo), non possono né debbono prendersi per “oro colato”.

Sappiamo infatti che la Rivelazione si è chiusa alla morte dell’ultimo Apostolo; e questa è una verità imprescindibile, da tenere sempre presente, perché ci può aiutare a comprendere e a vedere meglio cosa davvero si debba trattenere e cosa lasciare.

Spostiamo lo sguardo su Dio e smettiamo di avere un’idea antropocentrica; perché credere che la canonizzazione sia atto garantito da infallibilità – ci scusi il lettore! forse esageriamo – significa dare davvero troppa importanza a quello che possa fare un uomo, sia in questa vita sia nell’altra.

Dio è l’unico Signore della storia, del creato, dell’umanità, dell’esistente…fissato lo sguardo in Lui, la beatificazione del Montini…appare davvero piccola cosa.
Guardate a Lui e sarete raggianti…non saranno confusi i vostri volti”.



13 novembre 1964
Paolo VI depone la tiara sull'altare
Applausi!
Dopo 2000 anni si vorrebbe abolire il vicariato di Cristo!

di F. R.
S. Ecc. Mons. Marcel Lefebvre
Paolo VI, Papa liberale


  
Ripreso dal libro di Mons. Marcel Lefebvre,
Lo hanno detronizzato,
ed. Amicizia Cristiana, Chieti, 2009, cap. XXXI, pp. 231-237

I neretti sono nostri

Forse voi vi domanderete: come è stato possibile questo trionfo del liberalismo a opera dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI, e a opera di un concilio, il Vaticano II?
Questa catastrofe è conciliabile con le promesse fatte da Nostro Signore a Pietro e alla sua Chiesa: «Le porte dell’Inferno non prevarranno contro di Essa» (Mt 16,18); «lo sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt28,20)?

lo penso che non ci sia contraddizione. Infatti, nella misura in cui questi Papi e il Concilio hanno trascurato o rifiutato di porre in atto la loro infallibilità, di fare appello a quel carisma che è loro garantito dallo Spirito Santo a condizione che vogliano ben utilizzarlo, costoro hanno potuto commettere errori dottrinali o a più forte ragione consentire che il nemico penetrasse nella Chiesa col favore della loro negligenza o della loro complicità.
Fino a che punto furono complici?
Di quali mancanze furono colpevoli?
In quale misura la loro stessa funzione fu messa in dubbio?

È assolutamente evidente che un giorno la Chiesa giudicherà questo concilio, giudicherà questi Papi, dovrà pur farlo.
In particolare, come sarà giudicato papa Paolo VI?
Alcuni affermano che fu ereticoscismatico e apostata; altri credono di essere in grado di dimostrare che Paolo VI non poteva mirare al bene della Chiesa, e che di conseguenza non fu Papa: è la tesi della Sedes vacans.
Non dico che tali opinioni non abbiano qualche argomento a loro favore. Forse, potreste obiettarmi, fra trent’anni si scopriranno cose che erano nascoste, si scorgeranno meglio elementi che sarebbero dovuti balzare agli occhi dei contemporanei, affermazioni di questo Papa assolutamente contrarie alla tradizione della Chiesa, eccetera… Forse.
Ma non credo sia necessario ricorrere a questa spiegazione; penso addirittura che sia un errore seguire queste ipotesi.

Altri pensano, in maniera semplicista, che all’epoca ci furono due Papi: uno, quello vero, era imprigionato nei sotterranei del Vaticano, mentre l’altro, l’impostore, il sosia, sedeva sul trono di Pietro, per la disgrazia della Chiesa. Sono apparsi libri sui due Papi, fondati sulle rivelazioni di una persona posseduta dal demonio e su argomenti sedicenti scientifici, che assicurano, per esempio, che la voce del sosia non è quella del vero Paolo VI!
Altri infine pensano che Paolo VI non fu responsabile dei suoi atti, prigioniero com’era della sua cerchia, addirittura drogato, cosa che sembra risultare da parecchie testimonianze che mostrano un Papa fisicamente esausto, che bisogna sorreggere, eccetera… Soluzione anche troppo semplicea mio parere, perché in tal caso avremmo soltanto dovuto attendere un prossimo Papa. E noi abbiamo avuto (non parlo di Giovanni Paolo I che ha regnato solo un mese) un altro Papa, Giovanni Paolo II, che ha proseguito senza variazioni lungo la linea tracciata da Paolo VI.

La soluzione reale mi sembra un’altra, molto più complessa, penosa e dolorosa. Essa viene fornita da un amico di Paolo VI, il cardinale Daniélou. Nei suoi Mémoires, pubblicati da un membro della sua famiglia, il Cardinale dice esplicitamente: «È evidente che Paolo VI è un Papa liberale.»
Ed è la soluzione che sembra la più verosimile da un punto di vista storico: perché questo Papa è come un frutto del liberalismo, tutta la sua vita è stata impregnata dall’influenza degli uomini che lo circondavano o ch’egli ha preso per maestri e che erano dei liberali.
Egli non ha nascosto le sue simpatie liberali: al Concilio, i quattro uomini che nominò moderatori al posto dei presidenti designati da Giovanni XXIII furono, con il cardinale Agagianian, Cardinale di Curia senza personalità, i cardinali Lercara, Suenens e Dopfner, tutti e tre liberali e suoi amici. I presidenti furono relegati in secondo piano, al tavolo d’onore, e furono questi tre moderatori che diressero le discussioni del Concilio.
E allo stesso modo Paolo VI sostenne per tutto il Concilio la fazione liberale che si opponeva alla tradizione della Chiesa. Sono fatti noti.
Alla fine del Concilio Paolo VI ha ripetuto - ve le ho citate - le parole di Lamennais, testualmente: «la Chiesa non domanda che la libertà»; dottrina condannata da Gregorio XVI e da Pio IX!

Non si può negare che Paolo VI sia stato segnato profondamente dal liberalismo. Questo spiega l’evoluzione storica vissuta dalla Chiesa in questi ultimi decenni, e caratterizza molto bene il comportamento personale di Paolo VI.
Il liberale, ve l’ho detto, è un uomo che vive perpetuamente nella contraddizione: afferma i princìpi, ma fa il contrario, è perpetuamente nell’incoerenza.
Lasciatemi citare alcuni esempi di questi binomi tesi-antitesi che Paolo VI eccelleva nel porre come altrettanti problemi insolubili che riflettevano il suo spirito ansioso e paradossale: l’Enciclica Ecclesiam suam, del 6 agosto 1964, che è la carta del suo pontificato, ne costituisce un paradigma: 

«Se davvero la Chiesa, come Noi dicevamo, ha coscienza di quel che il Signore vuole che essa sia, sorgono in lei una singolare pienezza e un bisogno di espressione, con la chiara coscienza di una missione che la oltrepassa e di una novella da diffondere. È l’obbligo di evangelizzare. È il mandato missionario. È il dovere di apostolato [ ... ] Noi lo sappiamo bene: “andate dunque, insegnate a tutte le nazioni” è l’ultimo comandamento del Cristo ai suoi Apostoli. Costoro definiscono la loro irrecusabile missione col nome stesso di Apostoli.» 

Questa è la tesi, ed ecco l’antitesi, immediatamente: 

«A proposito di questo impulso interiore di carità che tende a tradursi in un dono esteriore, Noi utilizzeremo il nome, oggi divenuto consueto, didialogo
«La Chiesa deve entrare in dialogo col mondo nel quale essa vive. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa conversazione.» 

Infine viene il tentativo di sintesi, che non fa che consacrare l’antitesi: 

«[ ... ] Ben prima di convertire il mondo, anzi, per convertirlo, bisogna avvicinarlo e parlargli.» (1

Più gravi e più caratteristiche della psicologia liberale di Paolo VI sono le parole con le quali affermò, dopo il Concilio, la soppressione del latino nella liturgia; dopo aver ricordato tutti i vantaggi del latino, lingua sacra, lingua fissa, lingua universale, chiede, in nome dell’adattamento, il “sacrificio” del latino, pur ammettendo che questa sarà una grande perdita per la Chiesa!
Ecco le parole stesse di Paolo VI, riportate da Louis Salleron nella sua operaLa nouvelle messe (2): 

Il 7 marzo 1965, dichiarava ai fedeli raccolti in piazza San Pietro:
«È un sacrificio che la Chiesa compie, rinunciando al latino, lingua sacra, bella, espressiva, elegante. Essa ha sacrificato secoli di tradizione e di unità della lingua per un’aspirazione sempre più grande all’universalità.» 

E il 4 maggio 1967 questo “sacrificio” veniva consumato, con l’IstruzioneTres abhinc annos che stabiliva l’uso della lingua volgare per la recita, a voce alta, del Canone della messa.
Questo “sacrificio”, nello spirito di Paolo VI, sembra sia stato definitivo.
Lo spiegò nuovamente, il 26 novembre 1969, presentando il nuovo rito della messa: 

«Non è più il latino, ma la lingua corrente che sarà la lingua principale della messa. Per chiunque conosca la bellezza, la forza del latino, la sua capacità di esprimere le cose sacre, sarà certamente un grande sacrificio vederlo sostituito dalla lingua corrente. Noi perdiamo la lingua di secoli cristiani, diventiamo come degli intrusi e dei profani nell’ambito letterario dell’espressione sacra. Perdiamo dunque in gran parte questa mirabile e incomparabile ricchezza artistica e spirituale che è il canto gregoriano. Abbiamo certamente motivo di provarne rimpianto e quasi smarrimento.» 

Tutto doveva dunque dissuadere Paolo VI dal compiere questo "sacrificio" e indurlo a mantenere il latino.
Ma no; compiacendosi del suo “smarrimento” in un modo singolarmente masochista, agirà al contrario dei princìpi che ha appena enumerato, e decreterà il “sacrificio” in nome della “comprensione della preghiera”, argomento specioso che fu solo il pretesto dei modernisti.

Il latino non è stato mai un ostacolo alla conversione degli infedeli o alla loro educazione cristiana, anzi tutto il contrario: i popoli semplici dell’Africa e dell’Asia amano il canto gregoriano e questa lingua unica e sacra, segno della loro appartenenza alla cattolicità. E l’esperienza prova che proprio dove il latino non fu imposto dai missionari della Chiesa latina, vennero deposti germi di scismi futuri. Paolo VI pronunzia dunque la contraddittoria sentenza:

«La risposta sembra banale e prosaica - dice - ma è buona, perché umana e apostolica. La comprensione della preghiera è più preziosa dei vetusti indumenti di seta dei quali essa si è regalmente adornata. Più preziosa è la partecipazione del popolo, di questo popolo di oggi che vuole gli si parli chiaramente, in una maniera intelligibile ch’esso possa tradurre nel suo linguaggio profano. Se la nobile lingua latina ci taglia fuori dai bambini, dai giovani, dal mondo del lavoro e degli affari, se essa è uno schermo opaco invece che un cristallo trasparente, faremmo bene i calcoli, noi pescatori d’anime serbandole l’esclusiva nel linguaggio della preghiera e della religione?» 

Che confusione mentale, ahimè!
Chi m’impedisce di pregare nella mia lingua?
Ma la preghiera liturgica non è una preghiera privata, è la preghiera di tutta la Chiesa.
Per di più, altra deplorevole confusione, la liturgia non è un insegnamentorivolto al popolo, ma il culto rivolto dal popolo cristiano a Dio. Una cosa è il catechismo, un’altra la liturgia! Non si tratta, per il popolo raccolto in Chiesa, “che gli si parli chiaramente”, ma che questo popolo possa lodare Dio nel modo più bello, più sacro, più solenne che c’è!
«Pregare Dio al di sopra della bellezza», questa era la massima liturgica di san Pio X. Come aveva ragione!

Vedete, il liberale è uno spirito paradossale e confuso, ango¬sciato e contraddittorio. Appunto questo fu Paolo VI.
Louis Salleron lo spiega benissimo, quando descrive l’aspetto fisico di Paolo VI: dice che "ha due facce". Non parla di doppiezza, giacché questo termine esprime un’intenzione perversa di ingannare, che non era presente in Paolo VI.
No, è un personaggio doppio, il cui viso combattuto esprime la duplicità: ora tradizionale a parole, ora modernista nelle sue azioni; ora cattolico nelle sue premesse, nei suoi princìpi e ora progressista nelle sue conclusioni, non condannando quel che dovrebbe condannare e condannando quel che dovrebbe conservare!

Grazie a tale debolezza psicologica, questo Papa ha offerto un’occasione d’oro, una possibilità notevole ai nemici della Chiesa di servirsi di lui: pur mantenendo un volto (o mezzo volto, come si preferisce) cattolico, non ha esitato a contraddire la tradizione, si è mostrato favorevole al cambiamento, ha battezzato mutamento e progresso, e in tal modo è andato nel senso di tutti i nemici della Chiesa, che lo hanno incoraggiato.
Non si vide un giorno, nel 1976, la “Izvestia”, organo del partito comunista sovietico, esigere da Paolo VI, in nome del Vaticano II, la mia condanna e quella di Ecône?
Allo stesso modo, il giornale comunista italiano “L’Unità” espresse una richiesta dello stesso tenore, dedicandovi una pagina intera, all’epoca del sermone che io pronunciai a Lille il 29 agosto 1976, tanto era furioso per i miei attacchi contro il comunismo! «Prendete coscienza - vi si scriveva rivolgendosi a Paolo VI - prendete coscienza del pericolo che rappresenta Lefebvre, e proseguite nel magnifico movimento di avvicinamento iniziato con l’ecumenismo del Vaticano II.»
È un po’ imbarazzante avere amici come questi, non vi pare?
Triste applicazione di una regola che abbiamo già riscontrato: il liberalismo porta dal compromesso al tradimento.

La psicologia di un tal Papa liberale può essere concepita con relativa facilità, ma è ben difficile da sopportare!
Ci pone in effetti in una situazione molto delicata nei confronti di un capo del genere, si tratti di Paolo VI o di Giovanni Paolo II … In pratica il nostro atteggiamento deve fondarsi su un discernimento preliminare, reso necessario dalle straordinarie circostanze di un Papa guadagnato al liberalismo.
Ecco questo discernimento: quando il Papa dice qualcosa che è conforme alla tradizione, noi lo seguiamo; quando dice qualcosa che va contro la nostra fede, o che incoraggia, o che lascia fare qualcosa che nuoce alla nostra fede, allora noi non possiamo seguirlo! E questo per la ragione fondamentale che la Chiesa, il Papa, la gerarchia sono al servizio della fede. Non sono loro che fanno la fede, essi devo¬no servirla. La fede non si fa, essa è immutabile, si trasmette. 
Per questo motivo noi non possiamo seguire gli atti di questi Papi che si sono prefissi lo scopo di confermare un’azione che va contro la tradizione: se lo facessimo, noi collaboreremmo all’autodemolizione della Chiesa, alla distruzione della nostra fede! 

Ed è chiaro che quel che ci viene incessantemente richiesto, completa sottomissione al Papa, completa sottomissione al Concilio, accettazione di tutta la riforma liturgica, va in un senso contrario alla tradizione, nella misura in cui il Papa, il Concilio e le riforme ci trascinano lontano dalla tradizione, come i fatti dimostrano ogni anno di più. Dunque chiederci questo significa chiederci di collaborare alla sparizione della fede. Impossibile!

I martiri sono morti per difendere la fede; abbiamo l’esempio di cristiani gettati in carcere, torturati, mandati nei campi di concentramento per la loro fede! Un grano d’incenso offerto alla divinità e, oplà, avrebbero avuto salva la vita.

Una volta mi venne consigliato: «Firmate, firmate che accettate tutto, e poi continuate come prima!»
No! Non si gioca con la propria fede!


NOTE
1Documents pontificaux de Paul VI, cit., pp. 677-679.
2) L. Salleron, La nouvelle messe, Nouvelles éditiones latines, Paris, 1976, 2a edizione, p. 83.



http://www.unavox.it/Documenti/Doc0799_Lefebvre_Paolo_VI_liberale.html

1 commento:

  1. "è stato un Papa che seppe scrutare i segni dei tempi, che non tornò indietro! "...In realtà cercò di tornare indietro quando si accorse del "fumo di Satana" penetrato nel tempio. La parabola di Montini è divisa tra un'apertura trionfante al mondo e una corsa ai ripari postuma

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.