«MARTINI SAREBBE CONTENTO DEL CAMMINO AVVIATO DA BERGOGLIO»
26/10/2014 Presentato a Milano il libro "Chi salva una vita salva il mondo intero" del giornalista Stefano Stimamiglio in cui racconta la vita di padre Georg Sporschill, amico e confidente del cardinale Martini: «Oggi», ha detto il gesuita, «sarebbe contento per il cammino che, con capacità di sorpresa, la Chiesa ha avviato con papa Francesco»
L’ultima intervista di Carlo Maria Martini, nota come il suo “testamento” e pubblicata dal Corriere della Sera il giorno dopo la morte, è conosciuta per la frase: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote?”. “Anzi, disse “200 se non 300”», precisa padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che la raccolse e che lo intervistò anche nelle famose Conversazioni notturne a Gerusalemme. «Ricordo – dice padre Georg – la lucidità, ma anche il disappunto e il dolore, con cui pronunciò quelle parole. Oggi non so se le ripeterebbe, ma sicuramente sarebbe contento per il cammino che, con capacità di sorpresa, la Chiesa ha avviato. Francesco ha esaudito il desiderio di Martini sul letto di morte».
Il riferimento è al recente Sinodo straordinario sulla famiglia: «Il primo successo è il metodo e il coraggio di affrontare certi temi in modo trasparente. Il Papa ha detto che non serve il giudizio sulle famiglie in difficoltà, ma l’accompagnamento concreto. Ecco, questa era la forma dell’azione pastorale di Martini, uno stile che dà credibilità».
L’occasione per ricordare il cardinale è la presentazione nella parrocchia milanese di San Giovanni in Laterano del libro Chi salva una vitasalva il mondo intero di don Stefano Stimamiglio, giornalista paolino del settimanale Credere, che racconta la vita di Sporschill. Alla presentazione, il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli intervista questo religioso austriaco di cui Martini fu così amico.
Si conobbero nel 1982 a Vienna, ma si frequentarono soprattutto negli anni della permanenza del cardinale a Gerusalemme (2002-2008) e in successivi incontri a Gallarate. L’ultimo l’8 agosto 2012, quando venne raccolto il “testamento”, ventitré giorni prima della morte.
C’è un tratto che unisce i due amici anche a un altro gesuita, Bergoglio, ed è fondamentalmente un sogno: «Quello di una Chiesa povera e vicina ai poveri. Anzi, povera perché vicina ai poveri. E quello di una Chiesa coraggiosa, che non teme di entrare nelle tante miserie spirituali degli uomini di ogni tempo, le famose periferie esistenziali».
L’occasione per ricordare il cardinale è la presentazione nella parrocchia milanese di San Giovanni in Laterano del libro Chi salva una vitasalva il mondo intero di don Stefano Stimamiglio, giornalista paolino del settimanale Credere, che racconta la vita di Sporschill. Alla presentazione, il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli intervista questo religioso austriaco di cui Martini fu così amico.
Si conobbero nel 1982 a Vienna, ma si frequentarono soprattutto negli anni della permanenza del cardinale a Gerusalemme (2002-2008) e in successivi incontri a Gallarate. L’ultimo l’8 agosto 2012, quando venne raccolto il “testamento”, ventitré giorni prima della morte.
C’è un tratto che unisce i due amici anche a un altro gesuita, Bergoglio, ed è fondamentalmente un sogno: «Quello di una Chiesa povera e vicina ai poveri. Anzi, povera perché vicina ai poveri. E quello di una Chiesa coraggiosa, che non teme di entrare nelle tante miserie spirituali degli uomini di ogni tempo, le famose periferie esistenziali».
Quest’amicizia spirituale con chi soffre è stata vissuta dai tre confratelli in modi diversi, ma li ha profondamente uniti. Padre Sporschill, dal canto suo, l’ha vissuta nella Romania che usciva dal regime di Ceausescu nel 1991, «cercando di far qualcosa» con i 20mila ragazzi che abitavano nei tombini delle fogne di Bucarest e combattevano la fame sniffando vernice e colla. Ci era andato per sei mesi e si è fermato vent’anni. Ora invece è accanto agli 800mila rom stanziali della Transilvania, sempre in Romania, che vivono in condizioni di estrema povertà in catapecchie di legno.
«Martini – racconta Padre Georg – fece la scelta di una Chiesa povera, in tutta la sua azione. Quando avviò la Cattedra dei non credenti, qualcuno pensò che fosse un modo per convertirli. Lui invece voleva essere istruito della loro prospettiva, una sana povertà evangelica dal punto di vista intellettuale. È lo stesso atteggiamento scelto dal Papa per il Sinodo, in cui è prevalsa l’umiltà di capire, sedendosi accanto a coloro che soffrono».
Il gesuita austriaco, infatti, vede in Francesco l’unione tra discernimento e misericordia, tra la dimensione intellettuale e quella della preghiera, che caratterizzava proprio Martini. Lo racconta anche don Stefano Stimamiglio, è la predilezione per il metodo induttivo: prima guardare la realtà, amarla, capirla, porle le domande giuste; a partire da lì cercare, criticamente, di applicare le regole generali. Non il contrario, non ricette fatte e finite da applicare alle situazioni concrete, a costo di forzare queste ultime. «Era uno dei tratti di Martini – dice Padre Georg – che affascinava i giovani. Diceva che la Chiesa non deve insegnare, ma ascoltare, ascoltare, ascoltare. Aggiungeva che avrebbe dovuto scusarsi perché troppo spesso, specie verso i ragazzi, aveva dato risposte a domande che non le erano state formulate, ad esempio sul tema della sessualità».
«Martini – racconta Padre Georg – fece la scelta di una Chiesa povera, in tutta la sua azione. Quando avviò la Cattedra dei non credenti, qualcuno pensò che fosse un modo per convertirli. Lui invece voleva essere istruito della loro prospettiva, una sana povertà evangelica dal punto di vista intellettuale. È lo stesso atteggiamento scelto dal Papa per il Sinodo, in cui è prevalsa l’umiltà di capire, sedendosi accanto a coloro che soffrono».
Il gesuita austriaco, infatti, vede in Francesco l’unione tra discernimento e misericordia, tra la dimensione intellettuale e quella della preghiera, che caratterizzava proprio Martini. Lo racconta anche don Stefano Stimamiglio, è la predilezione per il metodo induttivo: prima guardare la realtà, amarla, capirla, porle le domande giuste; a partire da lì cercare, criticamente, di applicare le regole generali. Non il contrario, non ricette fatte e finite da applicare alle situazioni concrete, a costo di forzare queste ultime. «Era uno dei tratti di Martini – dice Padre Georg – che affascinava i giovani. Diceva che la Chiesa non deve insegnare, ma ascoltare, ascoltare, ascoltare. Aggiungeva che avrebbe dovuto scusarsi perché troppo spesso, specie verso i ragazzi, aveva dato risposte a domande che non le erano state formulate, ad esempio sul tema della sessualità».
Incalzato dalle domande del direttore del Corriere, Sporschill conferma di ritrovarsi nelle tesi che causarono a Martini anche taglienti giudizi. Molte di quelle idee furono espresse proprio inConversazioni notturne a Gerusalemme. Per esempio le critiche all’Humanae Vitae di Paolo VI, conosciuta anche come “enciclica della pillola”, o l’apertura ai preti sposati. «In Romania – dice Padre Georg – i preti uniati, che fanno parte della Chiesa cattolica, possono sposarsi. Anche io credo che il celibato debba essere una scelta e non imposto». Ma poi aggiunge: «Credo che oggi il vero problema dei sacerdoti sia piuttosto scegliere di stare in mezzo alla gente, nell’ospedale da campo di cui parla Francesco». E alla domanda su chi è un buon cristiano, risponde: «Quando questa sera sono entrato in questa chiesa, ho visto il parroco baciare sulla testa un giovane. Ecco, questo è l’atteggiamento del buon cristiano».
Metamorfosi dell’intimità
Morte del matrimonio eccelsiastico
Il teologo Grillo pensa che “indissolubilità” è parola obsoleta
di Marco Burini | 13 Maggio 2014
C’è qualcosa che può morire, in un matrimonio
cristiano, e la chiesa deve prenderne atto se vuol restare fedele alla
tradizione. Un paradosso necessario se si vuol stare nella storia da
credenti. Cosa può morire, a volte? Il vincolo, ciò che lega i due
coniugi dal momento in cui celebrano la loro unione. Cosa non muore,
mai? La grazia di Dio che resta indisponibile. Indisponibile, appunto,
non indissolubile. Il teologo Andrea Grillo entra nel dibattito
suscitato dalla relazione di Kasper al concistoro di febbraio, che ha
fatto discutere molto anche su questo giornale, con uno scritto tanto
breve quanto denso (“Indissolubile? Contributo al dibattito sui
divorziati risposati”, Cittadella Editrice) in cui raccoglie la proposta
del cardinale tedesco – il quale, non va dimenticato, è a sua volta un
teologo di prima grandezza – e va oltre, suggerendo un pieno
riconoscimento ecclesiale alle seconde nozze laddove Kasper si ferma a
una “via penitenziale”.
Oltre a essere competente, Grillo conosce le astuzie della comunicazione. Nel titolo c’è già tutto, dicono gli esperti. Ed ecco allora un “Indissolubile?” che evoca immediatamente il celebre “Infallibile?” di Küng. Anche se, precisa il nostro, l’intenzione di fondo è diversa: “Mentre in quel testo Küng contestava con forza il dogma dell’infallibilità, in questo caso l’interrogativo non riguarda la sostanza della dottrina dell’indissolubilità, ma la sua formulazione teorica e la sua traduzione disciplinare”. Perché fin dalle prime battute Grillo mette le cose in chiaro: è tutto merito del concilio e di chi lo ha voluto se oggi stiamo qui a parlare di seconde nozze riconosciute dalla chiesa – che non è fare del divorzio un sacramento ma dare compimento a un cammino che inizia con “Dignitatis humanae” e arriva alla “Evangelii gaudium” di Francesco passando per la “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II.
La differenza tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” e la “formulazione del suo rivestimento” è decisiva, ricorda Grillo, soprattutto in un ambito come quello familiare in cui la chiesa sembra ancora avere voce in capitolo. La “svolta pastorale” del Vaticano II ha dato alla chiesa l’opportunità di affinare la propria dottrina, di riscoprire insomma la vivacità del dogma; resiste però una “radice antimoderna che una parte della cultura ecclesiale continua ad alimentare ciecamente”. Ma “una dottrina matrimoniale angelicata, che conosca solo essere o non-essere” (validità o nullità), che non concepisca il divenire e la storia, non genera santi, ma ingiustizie (e sofferenze) maggiori”.
Secondo Grillo, la teoria classica dell’indissolubilità non è più proponibile perché ha solo due risposte: “O negando la prima unione (mediante accertamento della sua nullità del matrimonio) o influendo sulla seconda unione (o mediante la richiesta di ritorno alla prima unione oppure, in caso di irreversibilità, mediante la richiesta di vivere la seconda unione ‘come fratello e sorella’)”.
Soluzioni deludenti, irrealistiche: la nullità è diventata ormai una finzione giuridica, un accomodamento a tavolino per una realtà ingovernabile (“Ho parlato con il Papa su questo, e mi ha detto di credere che il cinquanta per cento dei matrimoni non siano validi”, ha detto Kasper pochi giorni fa alla rivista americana Commonweal); le seconde nozze in astinenza perpetua è una soluzione spudorata. Grillo suggerisce invece “una prospettiva più pudica, circa l’esistenza del vincolo, accettando che anch’esso, come i coniugi, possa morire” perché in più di un caso “non dipende direttamente da una decisione dei coniugi”. Certo, per riconoscerlo bisogna alzare le antenne, percepire – prima ancora che teorizzare – quello che sta succedendo oggi nel cuore delle persone, la “trasformazione dell’intimità, un fenomeno che ha profondamente modificato e sviluppato l’esperienza dei soggetti tardo-moderni e che non può essere liquidata, semplicemente, come un tema cui applicare le confutazioni pur necessarie, ma spesso autoreferenziali, di una teologia apologetica”.
Giocare in difesa, insomma, non basta più. Anzi, fa perdere di sicuro. Pertanto il teologo del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, uno degli allievi più brillanti del benedettino Elmar Salmann, fa la sua proposta (ispirata, come lui stesso sottolinea, al lavoro di un altro teologo, Basilio Petrà, che recupera la prassi ortodossa): “La chiesa potrebbe ammettere – in circostanze determinate e non come una legge generale – che il riconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla ‘inesistenza originaria’ della precedente unione, ma potrebbe constatare la ‘morte del vincolo’ e così dischiudere l’orizzonte di un ‘nuovo inizio’ possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale. Si tratterebbe, in sostanza, di unire ‘radicale’ e ‘pudico’. Di lasciare intatto il radicale slancio profetico all’unità, richiesto dal Vangelo, coniugandolo però con un sano e pudico realismo, dovuto alla storia e richiesto anche dal buon senso”.
Grillo è un polemista di razza, ha seguito il dibattito del Foglio sulla relazione Kasper e ha risposto prima sul suo blog e poi in questo saggio in cui mischia – e rischia – generi diversi, teologia e giornalismo, polemica spicciola e controversia alta. Contro Kasper che invoca “un cambiamento di paradigma” si sono scatenati in molti e in diversi modi. Grillo dà ampio spazio (pure troppo) alle obiezioni di Roberto de Mattei e di Juan José Pérez-Soba. Il primo – “che pure sarebbe uno storico” nota Grillo – si rifugia nell’iperuranio di una dottrina monolitica sconfessata dal Vaticano II, il concilio mai digerito dagli oltranzisti cattolici vicini a Lefebvre. De Mattei accusa Kasper di voler “aggirare” il magistero perenne in materia di famiglia e matrimonio? Grillo ribatte che “questo è, in effetti, il ‘luogo comune’ preferito dai tradizionalisti: come hanno bisogno di una ‘messa di sempre’, di un ‘prete di sempre’, di una ‘suora di sempre’, di una ‘chiesa di sempre’ e di un ‘Papa di sempre’, così anche invocano i diritti di una ‘famiglia di sempre’, per chiudere tutte queste statue in un museo diocesano e poterle ‘visitare’ e ‘contemplare’ a loro piacere, ma solo come cose morte!”. Ma di fronte a una pretesa simile, “le statue da museo inevitabilmente si ribellano, per quanto si cerchi di colpevolizzarle per la vita che conducono: le presunte statue non restano rigide e immobili negli schemini che proiettiamo su di loro”. E’ una pretesa senza storia ovvero anacronistica: “Come per i papi del primo Ottocento, la fede può essere salvata solo condannando la pretesa libertà dell’uomo, così per De Mattei il matrimonio si può salvare solo condannando il divorzio”. Tuttavia, prosegue Grillo, “questo stile ottocentesco era già in difficoltà rispetto alla società di due secoli fa. Pensare di applicarlo alla nostra cultura è veramente un’impresa disperata”. Disperato è, a ben guardare, anche il sofisma di Pérez-Soba: “Talvolta negare la misericordia è l’unico modo per difenderla dalle sue adulterazioni”, tipo quella di Kasper. L’errore fondamentale del teologo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, secondo il suo collega del Sant’Anselmo, è quello di voler “identificare indissolubilità e misericordia, monogamia e monoteismo” finendo per “perdere la parte invisibile della misericordia, ossia la profondità e la ricchezza trinitaria”; invece “il temperamento trinitario del monoteismo è l’orizzonte nel quale il male minore è la soluzione più conveniente, quando il bene massimo genera un male maggiore”.
Grillo difende efficacemente Kasper dai suoi numerosi detrattori (“Però sono molti di più i pastori che lo sostengono in silenzio, senza esporsi”, ci confida durante una chiacchierata in cui sfogliamo insieme il suo lavoro), ma non si accontenta della soluzione avanzata dal cardinale tedesco perché “la riconciliazione e la comunione, che il divorziato risposato potrebbe vedersi donare da questa forma di apertura della disciplina ecclesiale, avrebbe come soggetti interessati Dio, la chiesa, la comunità dei fratelli, ma non il nuovo partner. Al soggetto, che si dispone ad abbracciare questo itinerario penitenziale, sarebbe riconosciuta una nuova possibilità di comunione con Dio Padre, con Cristo suo figlio, con la chiesa, ma non con il secondo marito/seconda moglie!”. Manca insomma una presa di posizione pubblica della comunità nei confronti della nuova coppia, ciò che appunto chiede Grillo. D’altronde se anche il roccioso Wojtyla in “Familiaris consortio” ha dichiarato che i divorziati risposati non sono scomunicati, non hanno quindi perso la comunione ecclesiale, si deve trovare il modo più umano – e dunque cristiano – di rendere visibile questa inclusione.
Eppure, faccio notare a Grillo, quello dei divorziati risposati che chiedono la comunione è affare di pochi. Anche se magari è il fatidico granello che farà inceppare l’intera macchina ecclesiale… “Certo – risponde il teologo – si tratta e si tratterà di un fenomeno comunque marginale rispetto al grande fiume della vita familiare cristiana. Ma il modo di comprendere le famiglie felici dipende anche dallo stile con cui la chiesa si dispone ad accogliere le famiglie infelici. Il fatto stesso di non riconoscerle come famiglie o di parlare di esse con la categoria fondamentale di adulterio è oggi una forma di cattiva educazione ecclesiale. E scopriamo, forse anche con sorpresa, che ci sono alcuni teologi e alcuni cardinali piuttosto maleducati. Forse questo dipende, come ricorda giustamente Kasper, dal fatto che parlare da celibi di questioni che riguardano gli sposati somiglia, talvolta, a un intervento certo interessato ma del tutto privo di vera esperienza. Le parole che si usano per descrivere le cose non sono adeguate e fanno danni ulteriori. Talvolta rispettare il sacro silenzio sarebbe una prestazione ministeriale molto più saggia”.
Qualcuno potrebbe tirare fuori la teoria del piano inclinato: qui si parla di seconde nozze ma perché allora non le terze, le quarte…? “E’ il tipico atteggiamento di chi considera la legge solo come una pedagogia. Per costoro il piano inclinato inizia con la libertà di coscienza. Ma chi la nega sotto sotto non è cristiano, non si fida di Dio”. Già, però sta scritto: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito. “Con questa frase Gesù non vuole che l’uomo disponga della relazione. Ma nulla dice a proposito di un vincolo che finisce. Accettare la fine può essere molto più saggio che ostinarsi in un rapporto che è finito”, mi risponde Grillo. Insomma, si tratta di cogliere ciò che muore e ciò che non muore, superando un concezione metafisica di Dio stesso. “La frase è di Dante e dice il mistero del Dio trinitario: ‘Ciò che non muore e ciò che può morire, non è se non splendor di quella idea, che partorisce, amando, il nostro Sire’. Qui Dante sa che la contingenza delle cose, anche la morte del vincolo, è splendore di grazia. Più che la fine dello schema ontologico, di un Dio troppo uno e troppo poco trino, qui accade che siamo noi a comprenderlo meglio. Non è Dio che cambia, è la nostra comprensione che avanza, grazie alla storia che muta e ci fa comprendere che l’unità è comunione ed è più complessa e ricca di quanto credevamo. E non basta certo un’ontologia fissista a garantire la comunione”. Ma la morte del vincolo non è un po’ la morte della grazia stessa, nel senso di un Dio compromesso e dunque mortale? “La morte del vincolo è una delle esperienze di morte – dice Grillo – Di fronte alla morte, a qualunque morte, Dio è sempre messo in questione. Perché dovremmo stupirci del fatto che Dio si compromette anche con questa morte? Preferiremmo un Dio burocrate, che convalida o revoca dalla realtà semplicemente per un pronunciamento giudiziario?”.
A questo proposito, stante la crisi del diritto canonico, che di fatto non ha più forza cogente nella vita della chiesa, e la pesantezza dell’apparato ecclesiastico, crede sia davvero realizzabile la sua proposta? “Mi sembra un passaggio obbligato per la nostra tradizione latina – risponde Grillo – La soluzione esclusivamente penitenziale può avere senso in oriente. Da noi potrebbe essere facilmente fraintesa. Mentre un passaggio ufficiale avrebbe il valore di attestare una condizione mutata e di escludere la contemporanea validità di due diversi vincoli per la medesima persona”. Sempre in tema di tradizioni religiose diverse, qualche giorno fa il vaticanista Sandro Magister, commentando un’indagine internazionale del Pew Research Center di Washington su temi di morale come aborto, omosessualità, divorzio, contraccettivi, ecc., nota lo stacco netto “tra l’opinione maggioritaria di alcune aree europee e nordamericane, dove regnano l’indifferenza riguardo all’aborto, la dissoluzione del matrimonio e l’ideologia del gender, e l’opposta sensibilità di altre immense aree del mondo, specie in Africa e in Asia, dove pur sono presenti seri problemi d’altro tipo, dai matrimoni combinati alla poligamia”. Per concludere che “se, come predica instancabilmente Papa Francesco, la missione della chiesa è di non rinchiudersi nei suoi vecchi perimetri geografici e culturali ma di aprirsi alle periferie del mondo, è evidente che non può essere la cattolicità di Germania – come un po’ sta accadendo – il parametro universale del cambiamento della dottrina e della prassi della chiesa in materia di famiglia, di comunione ai divorziati risposati e di nozze tra persone dello stesso sesso”. Insomma, secondo Magister Bergoglio farebbe bene a non dare retta a Kasper perché è l’espressione un cristianesimo minoritario e annacquato. Grillo non è d’accordo: “Mi sembra una conclusione ingenua che sorprende in un giornalista spesso così attento. I problemi che Papa Francesco affronta sono diversi da quelli che Magister immagina. Bergoglio non vuole dichiarazioni sui valori non negoziabili, che è la logica della inchiesta citata, ma andare incontro alle sofferenze dei soggetti, ovunque si trovino. Se a un tedesco o a un brasiliano, che soffre nella situazione di divorziato risposato che non viene accolto, noi parlassimo dei valori degli africani, non faremmo un servizio alla periferia, ma alla nostra ipocrisia. Le risposte a una inchiesta non sono le priorità della misericordia ecclesiale”.
A conclusione del suo lavoro, Grillo cita la profezia del cardinale Martini nella sua ultima intervista, poco prima di morire, che suona molto simile agli interventi del suo compagno gesuita diventato Papa: “Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. E’ una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono […]. L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla chiesa della generazione dei figli […]. L’amore è grazia, l’amore è dono. La domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?”.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/105551/rubriche/morte-del-matrimonio-eccelsiastico.htm
Oltre a essere competente, Grillo conosce le astuzie della comunicazione. Nel titolo c’è già tutto, dicono gli esperti. Ed ecco allora un “Indissolubile?” che evoca immediatamente il celebre “Infallibile?” di Küng. Anche se, precisa il nostro, l’intenzione di fondo è diversa: “Mentre in quel testo Küng contestava con forza il dogma dell’infallibilità, in questo caso l’interrogativo non riguarda la sostanza della dottrina dell’indissolubilità, ma la sua formulazione teorica e la sua traduzione disciplinare”. Perché fin dalle prime battute Grillo mette le cose in chiaro: è tutto merito del concilio e di chi lo ha voluto se oggi stiamo qui a parlare di seconde nozze riconosciute dalla chiesa – che non è fare del divorzio un sacramento ma dare compimento a un cammino che inizia con “Dignitatis humanae” e arriva alla “Evangelii gaudium” di Francesco passando per la “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II.
La differenza tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” e la “formulazione del suo rivestimento” è decisiva, ricorda Grillo, soprattutto in un ambito come quello familiare in cui la chiesa sembra ancora avere voce in capitolo. La “svolta pastorale” del Vaticano II ha dato alla chiesa l’opportunità di affinare la propria dottrina, di riscoprire insomma la vivacità del dogma; resiste però una “radice antimoderna che una parte della cultura ecclesiale continua ad alimentare ciecamente”. Ma “una dottrina matrimoniale angelicata, che conosca solo essere o non-essere” (validità o nullità), che non concepisca il divenire e la storia, non genera santi, ma ingiustizie (e sofferenze) maggiori”.
Secondo Grillo, la teoria classica dell’indissolubilità non è più proponibile perché ha solo due risposte: “O negando la prima unione (mediante accertamento della sua nullità del matrimonio) o influendo sulla seconda unione (o mediante la richiesta di ritorno alla prima unione oppure, in caso di irreversibilità, mediante la richiesta di vivere la seconda unione ‘come fratello e sorella’)”.
Soluzioni deludenti, irrealistiche: la nullità è diventata ormai una finzione giuridica, un accomodamento a tavolino per una realtà ingovernabile (“Ho parlato con il Papa su questo, e mi ha detto di credere che il cinquanta per cento dei matrimoni non siano validi”, ha detto Kasper pochi giorni fa alla rivista americana Commonweal); le seconde nozze in astinenza perpetua è una soluzione spudorata. Grillo suggerisce invece “una prospettiva più pudica, circa l’esistenza del vincolo, accettando che anch’esso, come i coniugi, possa morire” perché in più di un caso “non dipende direttamente da una decisione dei coniugi”. Certo, per riconoscerlo bisogna alzare le antenne, percepire – prima ancora che teorizzare – quello che sta succedendo oggi nel cuore delle persone, la “trasformazione dell’intimità, un fenomeno che ha profondamente modificato e sviluppato l’esperienza dei soggetti tardo-moderni e che non può essere liquidata, semplicemente, come un tema cui applicare le confutazioni pur necessarie, ma spesso autoreferenziali, di una teologia apologetica”.
Giocare in difesa, insomma, non basta più. Anzi, fa perdere di sicuro. Pertanto il teologo del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, uno degli allievi più brillanti del benedettino Elmar Salmann, fa la sua proposta (ispirata, come lui stesso sottolinea, al lavoro di un altro teologo, Basilio Petrà, che recupera la prassi ortodossa): “La chiesa potrebbe ammettere – in circostanze determinate e non come una legge generale – che il riconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla ‘inesistenza originaria’ della precedente unione, ma potrebbe constatare la ‘morte del vincolo’ e così dischiudere l’orizzonte di un ‘nuovo inizio’ possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale. Si tratterebbe, in sostanza, di unire ‘radicale’ e ‘pudico’. Di lasciare intatto il radicale slancio profetico all’unità, richiesto dal Vangelo, coniugandolo però con un sano e pudico realismo, dovuto alla storia e richiesto anche dal buon senso”.
Grillo è un polemista di razza, ha seguito il dibattito del Foglio sulla relazione Kasper e ha risposto prima sul suo blog e poi in questo saggio in cui mischia – e rischia – generi diversi, teologia e giornalismo, polemica spicciola e controversia alta. Contro Kasper che invoca “un cambiamento di paradigma” si sono scatenati in molti e in diversi modi. Grillo dà ampio spazio (pure troppo) alle obiezioni di Roberto de Mattei e di Juan José Pérez-Soba. Il primo – “che pure sarebbe uno storico” nota Grillo – si rifugia nell’iperuranio di una dottrina monolitica sconfessata dal Vaticano II, il concilio mai digerito dagli oltranzisti cattolici vicini a Lefebvre. De Mattei accusa Kasper di voler “aggirare” il magistero perenne in materia di famiglia e matrimonio? Grillo ribatte che “questo è, in effetti, il ‘luogo comune’ preferito dai tradizionalisti: come hanno bisogno di una ‘messa di sempre’, di un ‘prete di sempre’, di una ‘suora di sempre’, di una ‘chiesa di sempre’ e di un ‘Papa di sempre’, così anche invocano i diritti di una ‘famiglia di sempre’, per chiudere tutte queste statue in un museo diocesano e poterle ‘visitare’ e ‘contemplare’ a loro piacere, ma solo come cose morte!”. Ma di fronte a una pretesa simile, “le statue da museo inevitabilmente si ribellano, per quanto si cerchi di colpevolizzarle per la vita che conducono: le presunte statue non restano rigide e immobili negli schemini che proiettiamo su di loro”. E’ una pretesa senza storia ovvero anacronistica: “Come per i papi del primo Ottocento, la fede può essere salvata solo condannando la pretesa libertà dell’uomo, così per De Mattei il matrimonio si può salvare solo condannando il divorzio”. Tuttavia, prosegue Grillo, “questo stile ottocentesco era già in difficoltà rispetto alla società di due secoli fa. Pensare di applicarlo alla nostra cultura è veramente un’impresa disperata”. Disperato è, a ben guardare, anche il sofisma di Pérez-Soba: “Talvolta negare la misericordia è l’unico modo per difenderla dalle sue adulterazioni”, tipo quella di Kasper. L’errore fondamentale del teologo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, secondo il suo collega del Sant’Anselmo, è quello di voler “identificare indissolubilità e misericordia, monogamia e monoteismo” finendo per “perdere la parte invisibile della misericordia, ossia la profondità e la ricchezza trinitaria”; invece “il temperamento trinitario del monoteismo è l’orizzonte nel quale il male minore è la soluzione più conveniente, quando il bene massimo genera un male maggiore”.
Grillo difende efficacemente Kasper dai suoi numerosi detrattori (“Però sono molti di più i pastori che lo sostengono in silenzio, senza esporsi”, ci confida durante una chiacchierata in cui sfogliamo insieme il suo lavoro), ma non si accontenta della soluzione avanzata dal cardinale tedesco perché “la riconciliazione e la comunione, che il divorziato risposato potrebbe vedersi donare da questa forma di apertura della disciplina ecclesiale, avrebbe come soggetti interessati Dio, la chiesa, la comunità dei fratelli, ma non il nuovo partner. Al soggetto, che si dispone ad abbracciare questo itinerario penitenziale, sarebbe riconosciuta una nuova possibilità di comunione con Dio Padre, con Cristo suo figlio, con la chiesa, ma non con il secondo marito/seconda moglie!”. Manca insomma una presa di posizione pubblica della comunità nei confronti della nuova coppia, ciò che appunto chiede Grillo. D’altronde se anche il roccioso Wojtyla in “Familiaris consortio” ha dichiarato che i divorziati risposati non sono scomunicati, non hanno quindi perso la comunione ecclesiale, si deve trovare il modo più umano – e dunque cristiano – di rendere visibile questa inclusione.
Eppure, faccio notare a Grillo, quello dei divorziati risposati che chiedono la comunione è affare di pochi. Anche se magari è il fatidico granello che farà inceppare l’intera macchina ecclesiale… “Certo – risponde il teologo – si tratta e si tratterà di un fenomeno comunque marginale rispetto al grande fiume della vita familiare cristiana. Ma il modo di comprendere le famiglie felici dipende anche dallo stile con cui la chiesa si dispone ad accogliere le famiglie infelici. Il fatto stesso di non riconoscerle come famiglie o di parlare di esse con la categoria fondamentale di adulterio è oggi una forma di cattiva educazione ecclesiale. E scopriamo, forse anche con sorpresa, che ci sono alcuni teologi e alcuni cardinali piuttosto maleducati. Forse questo dipende, come ricorda giustamente Kasper, dal fatto che parlare da celibi di questioni che riguardano gli sposati somiglia, talvolta, a un intervento certo interessato ma del tutto privo di vera esperienza. Le parole che si usano per descrivere le cose non sono adeguate e fanno danni ulteriori. Talvolta rispettare il sacro silenzio sarebbe una prestazione ministeriale molto più saggia”.
Qualcuno potrebbe tirare fuori la teoria del piano inclinato: qui si parla di seconde nozze ma perché allora non le terze, le quarte…? “E’ il tipico atteggiamento di chi considera la legge solo come una pedagogia. Per costoro il piano inclinato inizia con la libertà di coscienza. Ma chi la nega sotto sotto non è cristiano, non si fida di Dio”. Già, però sta scritto: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito. “Con questa frase Gesù non vuole che l’uomo disponga della relazione. Ma nulla dice a proposito di un vincolo che finisce. Accettare la fine può essere molto più saggio che ostinarsi in un rapporto che è finito”, mi risponde Grillo. Insomma, si tratta di cogliere ciò che muore e ciò che non muore, superando un concezione metafisica di Dio stesso. “La frase è di Dante e dice il mistero del Dio trinitario: ‘Ciò che non muore e ciò che può morire, non è se non splendor di quella idea, che partorisce, amando, il nostro Sire’. Qui Dante sa che la contingenza delle cose, anche la morte del vincolo, è splendore di grazia. Più che la fine dello schema ontologico, di un Dio troppo uno e troppo poco trino, qui accade che siamo noi a comprenderlo meglio. Non è Dio che cambia, è la nostra comprensione che avanza, grazie alla storia che muta e ci fa comprendere che l’unità è comunione ed è più complessa e ricca di quanto credevamo. E non basta certo un’ontologia fissista a garantire la comunione”. Ma la morte del vincolo non è un po’ la morte della grazia stessa, nel senso di un Dio compromesso e dunque mortale? “La morte del vincolo è una delle esperienze di morte – dice Grillo – Di fronte alla morte, a qualunque morte, Dio è sempre messo in questione. Perché dovremmo stupirci del fatto che Dio si compromette anche con questa morte? Preferiremmo un Dio burocrate, che convalida o revoca dalla realtà semplicemente per un pronunciamento giudiziario?”.
A questo proposito, stante la crisi del diritto canonico, che di fatto non ha più forza cogente nella vita della chiesa, e la pesantezza dell’apparato ecclesiastico, crede sia davvero realizzabile la sua proposta? “Mi sembra un passaggio obbligato per la nostra tradizione latina – risponde Grillo – La soluzione esclusivamente penitenziale può avere senso in oriente. Da noi potrebbe essere facilmente fraintesa. Mentre un passaggio ufficiale avrebbe il valore di attestare una condizione mutata e di escludere la contemporanea validità di due diversi vincoli per la medesima persona”. Sempre in tema di tradizioni religiose diverse, qualche giorno fa il vaticanista Sandro Magister, commentando un’indagine internazionale del Pew Research Center di Washington su temi di morale come aborto, omosessualità, divorzio, contraccettivi, ecc., nota lo stacco netto “tra l’opinione maggioritaria di alcune aree europee e nordamericane, dove regnano l’indifferenza riguardo all’aborto, la dissoluzione del matrimonio e l’ideologia del gender, e l’opposta sensibilità di altre immense aree del mondo, specie in Africa e in Asia, dove pur sono presenti seri problemi d’altro tipo, dai matrimoni combinati alla poligamia”. Per concludere che “se, come predica instancabilmente Papa Francesco, la missione della chiesa è di non rinchiudersi nei suoi vecchi perimetri geografici e culturali ma di aprirsi alle periferie del mondo, è evidente che non può essere la cattolicità di Germania – come un po’ sta accadendo – il parametro universale del cambiamento della dottrina e della prassi della chiesa in materia di famiglia, di comunione ai divorziati risposati e di nozze tra persone dello stesso sesso”. Insomma, secondo Magister Bergoglio farebbe bene a non dare retta a Kasper perché è l’espressione un cristianesimo minoritario e annacquato. Grillo non è d’accordo: “Mi sembra una conclusione ingenua che sorprende in un giornalista spesso così attento. I problemi che Papa Francesco affronta sono diversi da quelli che Magister immagina. Bergoglio non vuole dichiarazioni sui valori non negoziabili, che è la logica della inchiesta citata, ma andare incontro alle sofferenze dei soggetti, ovunque si trovino. Se a un tedesco o a un brasiliano, che soffre nella situazione di divorziato risposato che non viene accolto, noi parlassimo dei valori degli africani, non faremmo un servizio alla periferia, ma alla nostra ipocrisia. Le risposte a una inchiesta non sono le priorità della misericordia ecclesiale”.
A conclusione del suo lavoro, Grillo cita la profezia del cardinale Martini nella sua ultima intervista, poco prima di morire, che suona molto simile agli interventi del suo compagno gesuita diventato Papa: “Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. E’ una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono […]. L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla chiesa della generazione dei figli […]. L’amore è grazia, l’amore è dono. La domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?”.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/105551/rubriche/morte-del-matrimonio-eccelsiastico.htm
Martini sarebbe contento, i cattolici no.
RispondiEliminaNON PRAEVALEBUNT
Martini, grande massone, il cui degno allievo è proprio il Papa attuale...che dire ancora? Ah sì! Libera nos Domine!
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