I primi cristiani non si risposavano
Uno studioso gesuita sostiene che la storia, non l’apologetica, fonda la disciplina del matrimonio
“Tendere a mantenere una tesi considerata come trasmessa dalla tradizione o volere a ogni costo rispondere a bisogni contemporanei, non sono atteggiamenti sospetti?”
Se egli decide di formulare delle precisazioni, non può affatto sperare che arriveranno ad essere note a questo stesso pubblico, anzitutto perché le sue spiegazioni non piaceranno più di tanto e, soprattutto, in quanto esse non saranno lette, esigendo troppo sforzo da parte del lettore medio e anche degli autori in questione, che non ne tengono quasi in nessun conto. Proiettando sullo storico il desiderio di provare una tesi mediante la storia, corroborati in questo dalle moderne filosofie del “sospetto”, tali autori vedono in lui solo un apologista, non capendo che non si possa volere altro se non la dimostrazione di una tesi e che la ricerca storica esige lo sforzo di non partire dal proprio punto di vista e dalle proprie concezioni.
ARTICOLI CORRELATI Anche se tutti, noi no Il sesso squassa la vigna Il testo che crea l’incidente di percorso del Sinodo: note sull’estensore Il vangelo non è pansessualista La controffensiva degli ortodossiEssi sembrano ritenere, in effetti, che ogni studio che porti a risultati conformi all’ortodossia non può che essere apologetico. Questo aggettivo presuppone che lo storico non abbia fatto il proprio dovere, che era non di provare una tesi ma di rilevare il senso reale dei fatti storici. Sarebbero degli storici “oggettivi” solo coloro le cui conclusioni contraddicono l’ortodossia. Ma, se allora non sono degli apologisti, non potrebbero essere dei contro-apologisti, il che è lo stesso, supponendo anch’essi una tesi preconcetta? Tendere a mantenere una tesi considerata come trasmessa dalla tradizione o volere ad ogni costo rispondere a bisogni contemporanei, non sono, forse, agli occhi dello storico, due atteggiamenti ugualmente sospetti? Sembra esserci una certa contraddizione nell’affermare, da una parte, la sua soggettività e nel manifestare, dall’altra, l’intenzione di adattarsi all’attualità.
Inoltre, la storia si fa solo con documenti esistenti e che si spiegano il più possibile gli uni con gli altri, e non a partire da ipotesi non provate. Si può ben supporre che testimonianze in senso contrario siano scomparse o che pratiche opposte non abbiano lasciato tracce scritte. Ma tutto ciò non conta per lo storico, in quanto egli può studiare solo ciò che è conservato per evitare di cadere nell’immaginario e nell’arbitrario. Si può anche pensare che tutti i cristiani dell’epoca non siano stati dei santi nel loro comportamento matrimoniale, che alcuni si siano sposati dopo aver divorziato e anche che ciò sia stato accettato da alcuni vescovi: la testimonianza di Origene lo dimostra. Ma una cosa è supporlo o constatarlo, e altra cosa è determinare in quale misura la Chiesa, per bocca o per il calamo dei suoi Pastori, dei Padri o dei Concili i cui scritti o canoni non sono pervenuti, accettasse, tollerasse o riprovasse la loro condotta. Si tratta, per lo storico, di due questioni differenti che non vanno confuse.
In una prima parte esamineremo uno ad uno i principi di interpretazione diverse volte invocati, per trovare l’autorizzazione a seconde nozze dopo il divorzio in testi che non lo dicono esplicitamente. Una seconda parte indicherà diversi metodi che impediscono allo storico di considerare seriamente molti di questi lavori.
Il ruolo dello storico è quello di interpretare i passaggi che studia. Ma tale interpretazione deve scaturire dal testo stesso o da un confronto con altri testi dello stesso autore o dello stesso periodo. La sua interpretazione non deve essere proiettata dal di fuori, stabilita a priori a partire dalle sue idee o da quelle del suo tempo. A maggior ragione non deve essere in contraddizione con i dati storici. Ad esempio, è un grave errore contro la storia interrogare uno scrittore su una problematica a lui posteriore e chiedergli di risolvere problemi che egli non si è posto: in seguito a simili errori di metodo spesso è stato possibile accusare ingiustamente dei teologici antichi, e tra i più grandi, di aver professato eresie che erano a loro posteriori, poiché alcune formule da loro ingenuamente impiegate avevano ricevuto successivamente un senso eretico, mentre la loro opera, esaminata nel suo insieme, mostra che essi non erano affatto tentati da questa devia- zione dottrinale. Quanto diciamo della problematica deve intendersi anche dell’ermeneutica: come possiamo interpretare correttamente dei testi di Origene senza conoscere le regole fondamentali della sua esegesi allegorica e del suo comporta- mento di fronte alla Scrittura, così come risultano dalla sua pratica e dalla teoria che a più riprese ne ha fatto?
Si tratta pertanto di far uscire la teoria dai testi e non di piegarli ad una teoria imposta dal di fuori: i principi di interpretazione devono essere giudicati a partire dai testi, alla luce di criteri storici. Troppo spesso, in effetti, tali principi sono presentati come un’evidenza di buon senso: in altri termini, essi riproducono le concezioni di coloro che le impiegano e quest’ultime non concordano necessariamente con quelle dell’epoca alla quale sono state applicate. Oppure derivano da un’idea troppo sommaria del periodo di cui si tratta, e che ha il sapore di uno slogan. Evidentemente non c’è bisogno di provarle, sono dei principi indiscutibili! L’ermeneutica rischia allora di diventare l’arte di trarre da un testo il contrario di ciò che dice.
I cristiani non potevano fare ciò che il diritto civile non contemplava: si tratta del più importante di questi principi. Si presenta sotto forme diverse, alcune delle quali saranno studiate separatamente. Per essere più chiari: “I cristiani non potevano ammettere una separazione che non permettesse nuove nozze, in quanto una tale istituzione era sconosciuta al diritto romano”. Di conseguenza, ogni qualvolta i Padri parlano di separazione per adulterio senza menzionare la possibilità di seconde nozze, la sottintendono certamente. E la loro concezione dell’adulterio doveva essere quella che era per i Romani, differente per l’uomo e per la donna: ritorneremo più avanti su questo secondo punto.
Questo principio è in disaccordo con i dati storici? Dobbiamo sicuramente rispondere di no. Riguardo ai punti sui quali verte la nostra attenzione i Padri si oppongono molto spesso alle disposizioni del diritto romano: per quel che riguarda divorzio e nuove nozze, possiamo vedere proteste simili in Giustino, Atenagora, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Cromazio d’Aquileia, Agostino. Allo stesso modo Lattanzio, Gregorio di Nazianzo, Asterio di Amasea, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Cirro, Zeno di Verona, Ambrogio, Girolamo e Agostino rimproverano, spesso in termini piuttosto accesi, alla legislazione civile la disuguaglianza di atteggiamento nei confronti dell’uno e dell’altro sesso sulla questione dell’adulterio. Una tale constatazione doveva bastare a screditare il principio invocato.
Peraltro il testo che domina tutta la teologia del matrimonio per gli antichi Padri, come per il Gesù dei Vangeli, è Gen 2,22-24: è Dio che porta la sposa allo sposo, come Eva ad Adamo, e che ne suggella l’unione, ed è per questo che quest’ultima è indissolubile. Dio interviene nel matrimonio dei cristiani, che per questo non è più, per loro come per i Romani, un semplice contratto bilaterale la cui rottura per mutuo consenso non comportava alcuna difficoltà; in effetti soltanto il ripudio, che è unilaterale, necessitava per loro di una procedura. Tale concezione cristiana è già ben definita alla fine del II secolo con Tertulliano – Ad Uxorem II,VIII,6 – e rivoluziona tutta l’idea esistente del matrimonio: l’indissolubilità ne è la diretta conseguenza. Come sostenere dopo di ciò che i cristiani non potessero avere del ripudio una nozione diversa di quella del diritto romano?
Ma nel IV e nel V secolo l’Impero era popolato solo di cristiani e la legislazione imperiale, fino al compromesso che Giustiniano, nel VI secolo, impose tanto alla Chiesa d’Oriente quanto allo Stato, doveva disciplinare anche i pagani. Malgrado la loro convinzione che Gen 2,24, inserito nel racconto della Creazione, riguarda tutti gli uomini, anche i pagani, i Padri si sono in effetti occupati unicamente delle loro pecorelle: soltanto un Concilio africano chiese che l’indissolubilità fosse og- getto di una legge dell’Impero. Peraltro è difficile pronunciarsi sull’autenticità dello spirito cristiano di certi imperatori del IV e del V secolo. E’ stata anche obiettata la situazione della donna separata, alla quale sarebbe vietato un nuovo matrimonio. Si afferma che le sarebbe stato impossibile vivere sola, in quanto non avrebbe avuto nessuna possibilità di lavorare e guadagnarsi la vita.
Indipendentemente da questa affermazione, che sembra essere esagerata, questa era anche la condizione delle vedove, di cui la Chiesa non incoraggiava affatto un secondo matrimonio – questa affermazione in generale non è contestata, ma piuttosto eccessivamente sottolineata – era anche il caso delle vergini, la cui esistenza nella Chiesa del II e del III secolo, prima dell’inizio del monachesimo, è attestata da svariati documenti. Ma noi sappiamo che le vedove bisognose erano soccorse dalla comunità e che le donne ripudiate erano ugualmente assistite. In effetti la Didascalia, nella traduzione siriaca, ma anche nella rielaborazione greca delle Costituzioni Apostoliche, scrive, a proposito delle giovani vedove, che esse non possono essere accolte nell’ordine ecclesiastico delle vedove a causa della loro età, ma che vengono aiutate se sono nell’indigenza: “Se ce n’è una, giovane, che è stata poco tempo con il marito e, essendo il marito morto, o per un’altra causa, si trova nuovamente isolata e resta così sola…”. Ogni donna priva del sostegno di un marito e nel bisogno era pertanto a carico della comunità.
Più in generale il principio che qui discutiamo nega al cristianesimo il diritto di avere la benché minima originalità in rapporto alle istituzioni del tempo. Perché del resto fermarsi a questo e limitarsi al matrimonio? E’ plausibile che, unica nell’Impero, la Chiesa si sia opposta al culto imperiale e abbia manifestato una tale intransigenza nei confronti della religione ufficiale? Se essa aveva accettato gli usi romani in materia di matrimonio, non aveva, forse, più ragione di farlo quando il rifiuto di sacrificare comportava la tortura e la morte? Non bisognerebbe concludere che tutto ciò che è detto dei martiri non può essere altro che falso? Semmai il principio in questione toglie al messaggio cristiano ogni possibilità di originalità.
di Henri Crouzel S.I |
Henri Crouzel S.I. (1918-2003), è stato docente di Patristica all’Istituto cattolico di Tolosa e all’Università Gregoriana di Roma
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121948/rubriche/sinodoi-primi-cristiani-non-si-risposavano.htm
Vescovi divisi? Colpa della (cattiva) filosofia
1
Perché si possa fare buona
teologia è necessaria una filosofia vera e conforme alla fede, come
quella di san Tommaso. Molti vescovi invece sono cresciuti alla scuola
di Karl Rahner, per cui la dimensione della fede non è legata all’essere
ma all’esistenziale. Da qui discende una visione del matrimonio che si
può riformare.
di Stefano Fontana
Molti si saranno chiesti come sia
possibile che su questioni di tanta importanza per la dottrina e la fede
cattolica i vescovi e i cardinali la pensino in modo tanto diverso.
Questi giorni di Sinodo, infatti, lo hanno messo in evidenza in modo
perfino fin troppo plateale. I sacramenti, il peccato, la grazia, il
matrimonio… i fedeli rimangono colpiti nel constatare nei maestri e
nelle guide opinioni tanto diverse su queste cose di non marginale
importanza.
Vorrei qui cercare una spiegazione in un
elemento che non è finora emerso granché nel dibattito attorno al
Sinodo. Mi riferisco alle filosofie di riferimento, che cardinali e
vescovi adoperano per affrontare le questioni teologiche. La Fides et
ratio di San Giovanni Paolo II dice che non si fa teologia senza una
filosofia e che se non si assume una filosofia vera e conforme alla fede
si finisce per assumerne un’altra non vera e difforme dalla fede. In
ogni caso una filosofia la si assume.
Quale filosofia hanno assunto cardinali e
vescovi che ora intervengono su questi problemi nell’aula del Sinodo ed
anche fuori? Quale filosofia hanno studiato e fatta propria lungo i
loro studi e nelle loro letture? La filosofia è lo strumento di cui si
avvale la teologia. Uno strumento però non neutro, dato che condiziona
la stessa teologia, perché ne determina oggetto, metodo e linguaggio.
Non è lo stesso se Dio viene inteso come
l’ “Esse Ipsum” di San Tommaso d’Aquino o un “Trascendentale
esistenziale” come fa Karl Rahner. Non è lo stesso ammettere la
dimensione ontologica della fede (la dimensione che fa della fede una
questione relativa all’essere) oppure riconoscere in essa solo una
dimensione fenomenologica od esistenziale. Avendo alle spalle schemi
filosofici diversi, i vescovi e i cardinali affronteranno i problemi
teologici, compresi quelli del Sinodo, in modo diverso. Karl Rahner
diceva che il pluralismo filosofico e teologico, oltre ad essere
irreversibile era anche corretto e auspicabile. La Fides et ratio diceva
invece di no. Sono convinto che la maggior parte dei teologi ha
preferito Rahner alla Fides et ratio. La confusione delle lingue in
questi giorni del Sinodo sembra però dare ragione a quest’ultima.
La dimensione cattolica della fede
richiede, a mio avviso, ma mi sembra anche ad avviso della Fides et
Ratio, la dimensione ontologica. Se la “nuova creatura” che nasce dal
Battesimo non appartiene ad un nuovo piano dell’essere, allora è una
verniciatura esistenziale o sentimentale. Se, sposandosi, i due coniugi
non danno vita ad una nuova realtà, sul piano dell’essere, realtà che
non è la somma di 1 + 1 (ed infatti “saranno due in una carne sola”),
allora il matrimonio potrà essere esistenzialmente rivisto, rifatto,
ricelebrato, ricontrattato. Se c’è una realtà nuova – ripeto: sul piano
dell’essere – non si potrà più sciogliere. L’unica cosa che si potrà
fare sarà accertare se esiste o no, ma se esiste nessuno ci può più fare
nulla. Per accertare se esiste si dovrà fare una indagine veritativa e
non semplicemente pastorale o amministrativa. Se invece il matrimonio ha
solo carattere fenomenologico o esistenziale, allora non c’è nessuna
realtà da appurare e tutto può essere rivisto e rimanipolato.
A ben vedere, tutta la vita di fede, e
non solo il sacramento del matrimonio, ha un aspetto ontologico. La
situazione di peccato non è solo una questione esistenziale, ma è la
morte spirituale dell’essere della nostra anima. Chi vive volutamente in
peccato mortale è spiritualmente – ossia ontologicamente – morto. Se
vediamo le cose in questo modo come si potrà, in questo stato, accedere
alla comunione? Il sacramento della comunione ci immette realmente,
ontologicamente, nella vita divina. Esso non è una cerimonia di
socializzazione, un rito sentimental-esistenziale.
Il sacramento della confessione ha pure
natura ontologica, perché risana l’anima gravata dal peccato, la fa
rivivere. Non è una seduta psicoterapeutica. Le grazie che riceviamo nei
sacramenti sono vita reale, vita divina.
L’ingresso nella Chiesa, col Battesimo,
non è la partecipazione ad una associazione, ma l’accesso ad una nuova
dimensione dell’essere, in cui superiamo noi stessi e partecipiamo della
vita della Trinità. Quando San Paolo dice “non sono più io che vivo ma è
Cristo che vive in me” esprime questa novità ontologica della “nuova
creatura”.
Quello che alcuni vescovi hanno detto
dentro l’aula sinodale e ai microfoni dei giornalisti fuori dell’aula è
conseguenza di quello che viene insegnato da molto tempo in molti
seminari e studi teologici. Del resto, anche i vescovi non cadono dal
cielo, ma hanno avuto dei maestri e sono stati educati in un certo
contesto di cultura filosofica. Ora, se queste filosofie che si
insegnano non sono conformi a quanto indica la Fides et ratio, è logico e
conseguente che anche l’esame dei temi del matrimonio, del divorzio e
della comunione venga deviato dalle attese della Fides et ratio.
Per esempio: se Dio è un “trascendentale
esistenziale”, come afferma Karl Rahner, tutti ci siamo dentro, la
coppia sposata, quella di fatto ed anche quella omosessuale. Non
esistono gli atei, come non esistono i peccatori. Ci sarà solo un
cammino per passare dall’essere cristiani anonimi all’essere cristiani
nonimi; un cammino da fare insieme, senza escludere o condannare nessuna
situazione particolare di vita, perché tutte possono essere un buon
punto di partenza. Molti vescovi esprimono questa visione teologica che
però riflette una particolare filosofia di tipo esistenzialista. Karl
Rahner era allievo di Heidegger, non di San Tommaso. Quanti vescovi
sanno di Rahner e non di San Tommaso?
Il grande filosofo Cornelio Fabro poneva
la questione in termini di rapporto tra essenza ed esistenza. Sartre
diceva che l’esistenza precede l’essenza, Fabro diceva che l’essenza
precede l’esistenza. Anche in questo Sinodo il problema filosofico – e
quindi poi anche teologico – è questo. Se il matrimonio come sacramento
sia un dato ontologico che riguarda l’essenza o se sia solo un dato
esistenziale, reversibile a piacere.
© La Nuova Bussola Quotidiana (17/10/2014)