ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 28 ottobre 2014

Quid sunt gaudium et veritas?



La "Evangelii gaudium" del papa emerito Benedetto

Ratzinger ha rotto un'altra volta il silenzio. Per avvertire che un dialogo che rinunci alla verità "è letale" per la propagazione della fede cristiana. E quindi anche per la diffusione di quella "gioia del Vangelo" che è nel programma di papa Francesco

di Sandro Magister

ROMA, 28 ottobre 2014 – "Lui è discreto, umile, non vuole disturbare", ha detto papa Francesco del suo predecessore. "Lo sento come se avessi il nonno a casa, per la saggezza. Mi fa bene ascoltarlo. E anche mi incoraggia molto".

Talvolta il papa emerito Benedetto XVI – dalla sua dimora "di monaco in clausura", come ama dire – invia al papa regnante degli appunti scritti, per offrirgli e chiedergli un'opinione. È avvenuto così, ad esempio, dopo la pubblicazione dell'intervista di Francesco a "La Civiltà Cattolica" del settembre 2013. Non si sa che cosa Joseph Ratzinger abbia scritto in quelle sue quattro pagine di commento. Tra i due papi, il regnante e l'emerito, vige il segreto.

Alcune volte, però, Benedetto XVI rompe il silenzio e dice in pubblico ciò che pensa, con la chiarezza e la libertà che gli è propria, senza temere di muoversi controcorrente.
Lo ha fatto, ad esempio, lo scorso mese di marzo, in un libro a più voci su Giovanni Paolo II. Nel quale ha messo in evidenza ciò che di quel pontificato "è doveroso studiare a assimilare" anche oggi, in particolare l'enciclica "Veritatis splendor" del 1993 sui problemi morali e la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000 sugli "elementi irrinunciabili della fede cattolica", cioè i documenti chiave più trascurati e vituperati di quel pontificato:

> Il papa emerito prega, ma anche consiglia. Ecco come

Nei giorni scorsi, poi, Benedetto XVI è intervenuto ancora in tre occasioni, con altrettanti suoi scritti.

Due molto brevi e in forma di lettera. Il terzo più esteso e in forma di messaggio.

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Il primo, in data 10 ottobre, è una lettera al Comitato Internazionale "Summorum Pontificum", in procinto di tenere a Roma un incontro comprendente la celebrazione di messe in rito antico da parte dei cardinali Raymond L. Burke, Walter Brandmüller e George Pell:

> The Message...

In essa, Ratzinger si dice "felice" che il rito antico "vive adesso in una piena pace della Chiesa, anche presso i giovani, appoggiato e celebrato da grandi cardinali".

Definendo "grande", quindi, anche quel cardinale Burke al quale papa Francesco nega sia un ruolo in curia sia la guida di una diocesi.

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Il secondo testo, in data 4 agosto ma reso pubblico il 23 ottobre, è una lettera alla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, in occasione di un convegno da essa organizzato in Colombia, a Medellin, sul tema "Il rispetto per la vita, cammino per la pace":

> I saluti...

Nella lettera, il papa emerito indica come fondamento per la pace proprio "il rispetto incondizionato della vita dell'uomo, creato secondo l'immagine di Dio e così dotato con una dignità assoluta". Per cui "il tema della pace e il tema del rispetto per la vita umana sono legati alla fede nel Dio creatore come la vera garanzia della nostra dignità".

*

Il terzo intervento, infine, ha preso spunto dalla decisione della Pontificia Università Urbaniana di dedicare a Benedetto XVI l'aula magna.

La cerimonia si è svolta il 21 ottobre e in essa è stata data lettura del messaggio scritto da Ratzinger per l'occasione.

Curiosamente, però, sul sito web dell'Urbaniana il messaggio non è apparso e "L'Osservatore Romano" ne ha dato solo una sommaria notizia. A renderne pubblico il testo integrale in italiano è stata, il 23 ottobre, l'agenzia cattolica austriaca Kath.Net, col permesso dell'autore:

> La verità della religione e la vera religione

L'Urbaniana è l'università missionaria per eccellenza, legata alla congregazione per l'evangelizzazione dei popoli.

E il papa emerito prende spunto proprio da questo per reagire ai dubbi che oggi minacciano l'idea stessa della missione "ad gentes", alla quale molti vorrebbero sostituire un dialogo paritario tra le religioni, in vista di "una comune forza di pace".

Ma facendo ciò – scrive Ratzinger – si accantona "la verità che in origine mosse i cristiani" a predicare il Vangelo fino ai confini della terra:

"Si presuppone che l’autentica verità su Dio, in ultima analisi, sia irraggiungibile e che tutt’al più si possa rendere presente ciò che è ineffabile solo con una varietà di simboli. Questa rinuncia alla verità sembra realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo. E tuttavia essa è letale per la fede. Infatti, la fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà, se tutto si riduce a simboli in fondo interscambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino".

Il papa emerito non la cita esplicitamente, ma anche qui ricompare sullo sfondo il rimando alla "Dominus Iesus", la dichiarazione contro la quale si scatenarono critiche non solo da fuori della Chiesa cattolica ma anche da parte di alti esponenti della gerarchia come il cardinale Edward Cassidy, all'epoca presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, e il suo successore Walter Kasper, oggi divenuto il teologo di riferimento di papa Francesco.

Nel leggere questo testo di Benedetto XVI, è difficile non pensare a quella battuta di Bergoglio contro il proselitismo, da lui liquidato come "solenne sciocchezza", nel primo suo colloquio con l'ateo Eugenio Scalfari. Ma nel linguaggio di Francesco, si sa, il proselitismo è una falsificazione della missione cristiana autentica, quella "per attrazione", che invece è indubitabilmente nel cuore del suo pontificato, come anche del suo predecessore.

Anzi, se appena si voglia leggere con sguardo libero questo avvincente messaggio ratzingeriano, in esso si troverebbe non un'opposizione ma un'adesione – sia pure motivata in forme originali – al programma del pontificato di Francesco, alla sua visione di Chiesa "in uscita".

"Chi ha ricevuto una grande gioia non può tenerla semplicemente per sé, deve trasmetterla", scrive Ratzinger. E ancora:

"Annunciamo Gesù Cristo non per procurare alla nostra comunità quanti più membri possibile; e tanto meno per il potere. Parliamo di Lui perché sentiamo di dover trasmettere quella gioia che ci è stata donata".

È la "Evangelii gaudium" di papa Francesco chiosata dal suo predecossore. Dove la gioia fa tutt'uno con l'amore e in definitiva con la verità:

"'Abbiamo conosciuto e creduto l’amore' (1 Gv 4, 16): questa frase esprime l’autentica natura del cristianesimo. L’amore, che si realizza e si rispecchia in modo multiforme nei santi di tutti i tempi, è l’autentica prova della verità del cristianesimo".

Così termina il messaggio di Benedetto XVI, che qui è riprodotto integralmente.

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"LA RINUNCIA ALLA VERITÀ È LETALE PER LA FEDE"

di Benedetto XVI



Vorrei in primo luogo esprimere il mio più cordiale ringraziamento al Rettore Magnifico e alle autorità accademiche della Pontificia Università Urbaniana, agli Ufficiali Maggiori e ai Rappresentanti degli Studenti, per la loro proposta di intitolare al mio nome l’Aula Magna ristrutturata. Vorrei ringraziare in modo del tutto particolare il Gran Cancelliere dell’Università, il Cardinale Fernando Filoni, per avere accolto questa iniziativa. È motivo di grande gioia per me poter essere così sempre presente al lavoro della Pontificia Università Urbaniana.

Nel corso delle diverse visite che ho potuto fare come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono rimasto sempre colpito dall’atmosfera di universalità che si respira in questa Università, nella quale giovani provenienti praticamente da tutti i Paesi della Terra si preparano per il servizio al Vangelo nel mondo di oggi. Anche oggi, vedo interiormente di fronte a me, in quest’aula, una comunità formata da tanti giovani, che ci fanno percepire in modo vivo la stupenda realtà della Chiesa cattolica.

“Cattolica”: questa definizione della Chiesa, che appartiene alla professione di fede sin dai tempi più antichi, porta in sé qualcosa della Pentecoste. Ci ricorda che la Chiesa di Gesù Cristo non ha mai riguardato un solo popolo o una sola cultura, ma che sin dall’inizio era destinata all’umanità. Le ultime parole che Gesù disse ai suoi discepoli furono: “Fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19). E al momento della Pentecoste gli Apostoli parlarono in tutte le lingue, potendo così manifestare, per la forza dello Spirito Santo, tutta l’ampiezza della loro fede.

Da allora la Chiesa è realmente cresciuta in tutti i Continenti. La vostra presenza, care studentesse e cari studenti, rispecchia il volto universale della Chiesa. Il profeta Zaccaria aveva annunciato un regno messianico che sarebbe andato da mare a mare e sarebbe stato un regno di pace (Zc 9, 9s.). E infatti, dovunque viene celebrata l’Eucaristia e gli uomini, a partire dal Signore, diventano tra loro un solo corpo, è presente qualcosa di quella pace che Gesù Cristo aveva promesso di dare ai suoi discepoli. Voi, cari amici, siate cooperatori di questa pace che, in un mondo dilaniato e violento, diventa sempre più urgente edificare e custodire. Per questo è così importante il lavoro della vostra Università, nella quale volete imparare a conoscere più da vicino Gesù Cristo per poter diventare suoi testimoni.

Il Signore Risorto incaricò i suoi Apostoli, e tramite loro i discepoli di tutti i tempi, di portare la sua parola sino ai confini della terra e di fare suoi discepoli gli uomini. Il Concilio Vaticano II, riprendendo, nel decreto “Ad gentes”, una tradizione costante, ha messo in luce le profonde ragioni di questo compito missionario e lo ha così assegnato con forza rinnovata alla Chiesa di oggi.

Ma vale davvero ancora? si chiedono in molti, oggi, dentro e fuori la Chiesa. Davvero la missione è ancora attuale? Non sarebbe più appropriato incontrarsi nel dialogo tra le religioni e servire insieme la causa della pace nel mondo? La contro-domanda è: il dialogo può sostituire la missione? Oggi in molti, in effetti, sono dell’idea che le religioni dovrebbero rispettarsi a vicenda e, nel dialogo tra loro, divenire una comune forza di pace. In questo modo di pensare, il più delle volte si dà per presupposto che le diverse religioni siano varianti di un’unica e medesima realtà; che “religione” sia il genere comune, che assume forme differenti a secondo delle differenti culture, ma esprime comunque una medesima realtà. La questione della verità, quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto, qui viene messa tra parentesi. Si presuppone che l’autentica verità su Dio, in ultima analisi, sia irraggiungibile e che tutt’al più si possa rendere presente ciò che è ineffabile solo con una varietà di simboli. Questa rinuncia alla verità sembra realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo.

E tuttavia essa è letale per la fede. Infatti, la fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà, se tutto si riduce a simboli in fondo interscambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino.

Cari amici, vedete che la questione della missione ci pone non solo di fronte alle domande fondamentali della fede ma anche di fronte a quella di cosa sia l’uomo. Nell’ambito di un breve indirizzo di saluto, evidentemente non posso tentare di analizzare in modo esaustivo questa problematica che oggi riguarda profondamente tutti noi. Vorrei, comunque, almeno accennare alla direzione che dovrebbe imboccare il nostro pensiero. Lo faccio muovendo da due diversi punti di partenza.

I

1. L’opinione comune è che le religioni stiano per così dire una accanto all’altra, come i Continenti e i singoli Paesi sulla carta geografica. Tuttavia questo non è esatto. Le religioni sono in movimento a livello storico, così come sono in movimento i popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono di questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un incontro più grande che le porti alla pienezza.

Noi, come cristiani, siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose.

Oggi vediamo sempre più nitidamente anche un altro aspetto: mentre nei Paesi della sua grande storia il cristianesimo per tanti versi è divenuto stanco e alcuni rami del grande albero cresciuto dal granello di senape del Vangelo sono divenuti secchi e cadono a terra, dall’incontro con Cristo delle religioni in attesa scaturisce nuova vita. Dove prima c’era solo stanchezza, si manifestano e portano gioia nuove dimensioni della fede.

2. La religione in sé non è un fenomeno unitario. In essa vanno sempre distinte più dimensioni. Da un lato c’è la grandezza del protendersi, al di là del mondo, verso l’eterno Dio. Ma, dall’altro, si trovano in essa elementi scaturiti dalla storia degli uomini e dalla loro pratica della religione. In cui possono rivenirsi senz’altro cose belle e nobili, ma anche basse e distruttive, laddove l’egoismo dell’uomo si è impossessato della religione e, invece che in un’apertura, l’ha trasformata in una chiusura nel proprio spazio.

Per questo, la religione non è mai semplicemente un fenomeno solo positivo o solo negativo: in essa l’uno e l’altro aspetto sono mescolati. Ai suoi inizi, la missione cristiana percepì in modo molto forte soprattutto gli elementi negativi delle religioni pagane nelle quali s’imbatté. Per questa ragione, l’annuncio cristiano fu in un primo momento estremamente critico della religione. Solo superando le loro tradizioni che in parte considerava pure demoniache, la fede poté sviluppare la sua forza rinnovatrice. Sulla base di elementi di questo genere, il teologo evangelico Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta, a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo “senza religione”. Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. Chiaramente questo vale, sin dalle sue origini e in base alla sua natura, per la fede cristiana, che, da un lato, guarda con grande rispetto alla profonda attesa e alla profonda ricchezza delle religioni, ma, dall’altro, vede in modo critico anche ciò che è negativo. Va da sé che la fede cristiana deve sempre di nuovo sviluppare tale forza critica anche rispetto alla propria storia religiosa.

Per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione e la sua distorsione.

3. Nel nostro tempo diviene sempre più forte la voce di coloro che vogliono convincerci che la religione come tale è superata. Solo la ragione critica dovrebbe orientare l’agire dell’uomo. Dietro simili concezioni sta la convinzione che con il pensiero positivistico la ragione in tutta la sua purezza abbia definitivamente acquisito il dominio. In realtà, anche questo modo di pensare e di vivere è storicamente condizionato e legato a determinate culture storiche. Considerarlo come il solo valido sminuirebbe l’uomo, sottraendogli dimensioni essenziali della sua esistenza. L’uomo diventa più piccolo, non più grande, quando non c’è più spazio per un ethos che, in base alla sua autentica natura, rinvia oltre il pragmatismo, quando non c’è più spazio per lo sguardo rivolto a Dio. Il luogo proprio della ragione positivista è nei grandi campi d’azione della tecnica e dell’economia, e tuttavia essa non esaurisce tutto l’umano. Così, spetta a noi che crediamo spalancare sempre di nuovo le porte che, oltre la mera tecnica e il puro pragmatismo, conducono a tutta la grandezza della nostra esistenza, all’incontro con il Dio vivente.

II

1. Queste riflessioni, forse un po’ difficili, dovrebbero mostrare che anche oggi, in un mondo profondamente mutato, rimane ragionevole il compito di comunicare agli altri il Vangelo di Gesù Cristo.

E tuttavia c’è anche un secondo modo, più semplice, per giustificare oggi questo compito. La gioia esige di essere comunicata. L’amore esige di essere comunicato. La verità esige di essere comunicata. Chi ha ricevuto una grande gioia, non può tenerla semplicemente per sé, deve trasmetterla. Lo stesso vale per il dono dell’amore, per il dono del riconoscimento della verità che si manifesta.

Quando Andrea incontrò Cristo, non poté far altro che dire a suo fratello: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41). E Filippo, al quale era stato donato lo stesso incontro, non poté far altro che dire a Natanaele che aveva trovato colui del quale avevano scritto Mosè e i profeti (Gv 1, 45). Annunciamo Gesù Cristo non per procurare alla nostra comunità quanti più membri possibile; e tanto meno per il potere. Parliamo di Lui perché sentiamo di dover trasmettere quella gioia che ci è stata donata.

Saremo annunciatori credibili di Gesù Cristo quando l’avremo veramente incontrato nel profondo della nostra esistenza, quando, tramite l’incontro con Lui, ci sarà stata donata la grande esperienza della verità, dell’amore e della gioia.

2. Fa parte della natura della religione la profonda tensione fra l’offerta mistica a Dio, in cui ci si consegna totalmente a lui, e la responsabilità per il prossimo e per il mondo da lui creato. Marta e Maria sono sempre inscindibili, anche se, di volta in volta, l’accento può cadere sull’una o sull’altra. Il punto d’incontro tra i due poli è l’amore nel quale tocchiamo al contempo Dio e le sue creature. “Abbiamo conosciuto e creduto l’amore” (1 Gv 4, 16): questa frase esprime l’autentica natura del cristianesimo. L’amore, che si realizza e si rispecchia in modo multiforme nei santi di tutti i tempi, è l’autentica prova della verità del cristianesimo.

Benedetto XVI

21 ottobre 2014
L'elogio di Benedetto XVI fatto da Francesco il 27 ottobre 2014:

> "Un grande papa..."

Il punto sulle novità e sulle questioni irrisolte della convivenza tra un papa e il suo predecessore, con il link al testo integrale del saggio che più ha fatto discutere, di Stefano Violi sulla "Rivista Teologica di Lugano":

> Regnante ed "emerito". L'enigma dei due papi (15.9.2014)

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350914

Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio

Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco


Questo tema solleva com’è evidente una quantità di problemi che pongono in discussione "l’assoluto" e appunto la Verità che lo rappresenta. Si era mai sentito un pontefice che rappresenta il Vicario di Cristo in terra mettere in discussione la Verità assoluta? Il testo di Bauman descrive con molta chiarezza il gruppo di questioni che il suo articolo, ma soprattutto quello che ha detto papa Francesco, solleva. Cito la parte essenziale di quel testo: "La verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro con il suo contrario, con un antagonista. Verità è a suo agio in un lessico monoteistico e in ultima analisi in un monologo ed effettivamente usare 'verità' al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola. Con una mano sola si può soltanto dare un ceffone o una carezza, ma non applaudire. Papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo ma la pratica. Di un dialogo vero tra persone con punti di vista esplicitamente diversi che comunicano per comprendersi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica rappresentata con Eugenio Scalfari da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è dunque una questione di vita o di morte".

Ringrazio l’amico Bauman per la citazione che peraltro è pertinente al tema. È un tema infatti o meglio un gruppo di temi che domina o dovrebbe dominare il mondo intero ma purtroppo non è così perché una parte rilevante di popoli, pur essendo colti e notabili nella politica, nell’economia, nelle scienze sociali, nella medicina, è tuttavia indifferente a queste questioni. Indifferente nel senso che li rimuove perché richiamano l’inevitabile appuntamento con la morte e la morte è qualche cosa di comprensibilmente preoccupante. Alcuni pensano che sia la fine di tutto, altri sperano che sia l’inizio d’una nuova vita sia pure in forme assai diverse da quella precedente e ben conosciuta. Comunque è un pensiero inquietante, quale che sia il modo in cui si definisce e quindi viene rimosso, nascosto in qualche interiore caverna dalla quale comincia a sbucare soltanto quando l’età incalza e quell’appuntamento si avvicina. Non se ne conosce né il come né il quando ma si sa che avverrà e la rimozione diventa da un certo punto di vista ancor più necessaria ma da un altro punto di vista sempre meno possibile.

Papa Francesco è dunque, tra i numerosissimi vicari di Cristo che guidano la Chiesa da ormai duemila anni, uno dei pochissimi, secondo me addirittura l’unico, che affronta in questo modo il problema della Verità e quindi dell’assoluto. In una nostra recente conversazione gli chiesi che mi spiegasse che cosa è per lui la Chiesa missionaria, della quale parla in continuazione e ne incoraggia la crescita.

La risposta fu anzitutto una premessa: "Io sono religiosamente cresciuto nella compagnia di Gesù e sono tuttora interamente gesuita. Lei di recente l’ha scritto ma molti ne dubitano, se non altro perché pur potendo scegliere come nome pontificale quello di Ignazio, mai usato finora da nessun pontefice, ho scelto invece quello del Santo di Assisi. Anche quello non era mai stato scelto prima ma perché un gesuita che tale si sente dalla testa ai piedi non sceglie il nome di Ignazio ma quello di Francesco?"

Gli dissi che credevo di saperlo e cioè perché Francesco era un mistico e lui ama i mistici pur non essendolo affatto.

"È vero, questa è certamente una delle ragioni e forse la prima, ma non la sola. Francesco amava una confraternita itinerante di frati che avevano fatto rinuncia a tutti i piaceri della vita ma non alla gioia, non all’allegrezza, non all’amore. Alcuni di essi e lui soprattutto erano profondamente mistici in ogni atto, in ogni istante della loro vita, nel senso che si identificavano con nostro Signore, dimenticavano il loro io. Sentivano l’amore verso di lui e verso le creature che lui insieme al Padre aveva creato: le stelle, i tramonti, i fiori, gli animali, le donne, i bambini, i vecchi e insomma tutto ciò che ci circonda e al quale noi possiamo offrire soltanto l’amore in tutte le sue manifestazioni filiali, fraterne, paternali. Questo è stato il Santo di Assisi. La sua vicinanza a Santa Chiara è uno dei segnali più significativi, ma quello che lo identifica nel misticismo permanente sono le stimmate che a un certo punto comparvero su di lui com’erano comparse sulle mani del Signore. Ciò non significa che lui non si occupasse anche di questioni pratiche, concrete e vorrei dire politiche. Voleva che la sua confraternita avesse delle regole e passarono molti anni perché il papa gliele concedesse. Fu posta tuttavia una condizione: una parte dei frati francescani doveva predisporre e alloggiare in appositi conventi e soltanto un’altra parte sarebbe stata missionaria e itinerante. Francesco accettò. Quelli nei conventi riscoprirono San Benedetto, lo studio, il lavoro e la questua; ma la vera chiesa francescana missionaria fu quella itinerante".

Perché Santo Padre - gli chiesi - la Chiesa deve essere soprattutto itinerante e comunque missionaria? La risposta di Francesco fu immediata: "Noi dobbiamo parlare le lingue di tutto il mondo il che non significa soltanto e necessariamente i linguaggi veri e propri. Pensi che in Cina esistono almeno cinquantamila diversi linguaggi. La chiesa missionaria deve soprattutto capire le persone che incontra, il loro modo di pensare, la loro sintonia. Questa è la premessa che come vede è al tempo francescana e gesuitica perché la nostra Compagnia ha sempre fatto questo: capire gli altri, che siano miserabili socialmente, impreparati culturalmente, oppure colti, notabili nella vita sociale; e ancora meno rilevante per questa conoscenza degli altri sono le loro posizioni politiche, importanti per la vita pubblica dei popoli ma non per la religione. La religione aborre il politichese, non è e non dev’essere cosa nostra. Se per politica s’intende una visione del bene comune che per noi è quella contenuta nella nostra religione, allora sì, anche la politica diventa importante, le istituzioni diventano importanti per il bene di tutti, poveri e ricchi, colti o ignari, donne o uomini o bambini o vecchi. Il popolo si deve dedicare e realizzare queste istituzioni ma non innalzando il nome di un dio. Nessuno può appropriarsi del nome di un dio che è ecumenico e creatore".

E la Chiesa missionaria verso la quale lei ha così grande attenzione che cosa deve dunque fare? "La Chiesa deve entrare in sintonia con i linguaggi delle persone che incontra, capire come la pensano, quali sono le modalità dei loro rapporti con gli altri e con se stessi e una volta capito questo la Chiesa esorta le persone che ha incontrato verso il bene, fermo restando il libero arbitrio che il Creatore ha concesso a noi esseri umani".

Ricordo queste conversazioni con Sua Santità, cominciate circa otto mesi fa e più volte ripetutesi, l’ultima delle quali nello scorso settembre. Le riflessioni dell’amico Zygmunt Bauman mi hanno indotto a riprendere questi concetti che anche lui a quanto leggo dai suoi vari interventi e in particolare nell’ultimo su Repubblica segue con interesse e in gran parte, credo, condivide. Certo converrà con me su un aspetto peraltro essenziale: i papi hanno sempre riformato la Chiesa, all’interno ed anche all’esterno. Ma soprattutto all’interno, nelle regole che si danno ai vari ordini, nei modi con i quali i loro membri convivono tra loro e nei poteri che hanno nei confronti della Chiesa-Istituzione. All’esterno questi aggiornamenti sono stati molto più rari. Il cardinale Walter Kasper ha paragonato la Chiesa ad un castello con un ponte levatoio quasi sempre alzato. Papa Francesco ha ripreso questa frase e l’ha commentata dicendo che se il ponte levatoio non è abbassato e non consente quindi l’entrata e l’uscita, allora la Chiesa rischia di morire. Il Concilio Vaticano II avvenuto più di mezzo secolo fa, ha concluso, in totale dissenso con il Vaticano I, esortando la Chiesa a prendere contatto col mondo moderno. Se capisco bene, prendere il contatto significa capirlo, entrare, come dice il Papa, in sintonia con esso.

E la verità? Il Papa rifiuta la parola relativismo cioè un movimento vero e proprio con caratteristiche di politica religiosa; ma non rifiuta la parola "relativo". Il relativismo no ma che la verità sia relativa questo è un dato di fatto che il Papa riconosce e il titolo e la dissertazione con Bauman ne fanno piena fede. Naturalmente c’è la dottrina elaborata dai pensatori religiosi della patristica e da quelli che si succedettero nei secoli fino ad arrivare a Domenico e a Tommaso e perfino a Carlo Borromeo. Essi elaborarono, ciascuno a suo tempo e a suo modo, la dottrina la cui fonte principale però fu Paolo, apostolo per autodesignazione. La dottrina fu elaborata principalmente da lui e in parte dalla comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme guidata a suo tempo da Pietro e da Giacomo.

La dottrina che noi leggiamo, cristiani o non cristiani, è il racconto che gli evangelisti fecero della vita e della predicazione e più della predicazione che della vita della quale i punti culminanti furono il discorso della montagna, l’ultima cena, la meditazione solitaria del Getsemani e infine e soprattutto la crocifissione. Questi racconti, l’ho già ricordato più volte ma credo sia utile ripeterlo, furono scritti da persone che non conobbero e non videro mai Gesù di Nazareth; racconti di seconda mano se non addirittura di terza che non di meno hanno fornito nei secoli, sia pure con continui rimaneggiamenti, una struttura dottrinaria che ha dato sostegno alla religione. Allo stesso modo altre religioni monoteiste sono nate su racconti poiché dio non parla con la sua voce. Dio non ha voce così come non ha nome e non ha figura immaginabile. Il Figlio ce l’ha e forse proprio per questo i cristiani lo inventarono così come le altre religioni monoteistiche inventarono le loro figure rappresentabili e immaginabili, a cominciare da quella di Mosè e a chiudere con quella di Maometto e dei suoi successori.
A me piacerebbe molto che l’amico Zygmunt Bauman, se avrà tempo e voglia, esprimesse la sua opinione su questi ed altri pertinenti problemi.



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