ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 19 novembre 2014

Debolezze del culto

Il culto che la persona rende alla Divinità può essere privo di ogni esteriorità, svolgersi tutto nell’interiorità e, ivi, non aver bisogno neppure di parole: la persona può sentire che il suo culto, come dice San Paolo, è completo semplicemente con “gemiti inenarrabili”, che sono il sigillo della sua comunione con uno Spirito Divino.

Ma il culto comunitario e pubblico (anch’esso necessario per la natura sociale dell’uomo) ha bisogno di espressioni esteriori e di espressioni verbali, sia pure non prolisse.
L’aver ammesso la musica del culto pubblico implica l’immissione, in esso, dell’ispirazione interiore che muove al canto. Tale ispirazione per diventare sociale e pubblica deve essere incanalata nell’espressione verbale. Quest’ultima, infine, definisce -e quasi gli dà corpo- il consenso spirituale comunitario.
È evidente che una comunità affiatata può ritrovarsi facilmente nel canto ed esprimere in esso mediamente quel consenso spirituale.
Prima i monaci orientali, poi gli occidentali hanno sperimentato il canto liturgico sacro, vigilando sulla conservazione del consenso senza indulgere a sentimenti, emozioni e passioni troppo individuali e soggettive, che avrebbero potuto distrarre, deviare, inquinare il culto. Da questa compartecipata esperienza sono nate delle formule di canto monastico che per contingenze storiche sono diventate di dominio ecclesiale in assemblee liturgiche aperte al popolo sacro dei fedeli comuni, anche se il mondo interiore di questi fedeli laici era ben diverso da quello dei monaci (anche di quelli benedettini, restati in osmosi con i laici).
Ne è risultata una liturgia compassata e quasi ingessata in formule espressive, adatte più a silenziosi monaci che a laici, che portano all’altare le voci molteplici infiltranti le esperienza secolare.
E’ vero che l’interruzione delle letture bibliche può aprire la porta ai venti che soffiano esternamente ai muri sacri, ma quando si vuole esprimere la lettura in un tono piatto, uguale, non colorato dal senso della parola, della frase, del brano biblico, allora prevale la aura “gregoriana”, priva delle passioni,
L’omelia potrebbe portare nella liturgia il calore della virtù e della lotta che le è parente, ma quando si vuole leggere il testo dell’omelia preparata a tavolino, talvolta intessendola di citazioni, e pronunciarne il testo senza declamazione, senza lasciar spazio alla passione, allora il “gregoriano”dà forma a tutto lo spazio liturgico. Neppure le preghiere dei fedeli, non più grida dal profondo, ma scontate le richieste formulate da estranei con anticipi astratti, hanno un’eco viva.
Non restano che i canti popolari a liberare l’espressività dell’assemblea, purché siano autentici, davvero religiosi e in ritmi compatibili con l’azione liturgica sacra,
Ennio Innocenti
http://www.fraternitasaurigarum.it/wordpress/?p=460

La desacralizzazione dell'arte nella Chiesa

Ci si lamenta che dalle varie arti, un tempo eccellenti amiche delle varie attività liturgiche, non si riesca più ad esprimere il sacro, ossia il rapporto vivo tra l’uomo e Dio.
Questo fenomeno, però, non è improvviso. La rottura fu prima proclamata in ambiente luterano, poi con l’esaltazione del razionalismo contro i secoli cristiani, chiamati oscuri, infine con l’esplicito disprezzo di Dio, tra l’Ottocento e il Novecento.
Da questo fondo culturale escono i proclami dell’arte futurista, dell’arte data e del massonico tedesco Bauhaus, movimento dal quale uscì il falso spirituale del “Cavaliere Azzurro” e del “Cavaliere d’argento” (= Gropius) che dall’America imposero l’azzeramento della tradizione e le nuove stramberie in tutti i campi.
Morto Dio, uccisero l’uomo e tutte le arti (in nome della loro “purezza” ossia della loro indipendenza assoluta del totale arbitrio) fino al ripudio della bellezza come traguardo dell’opera d’arte.
Poiché questa moda della “purezza” ha ipotecato tutta l’arte (= l’arte per l’arte) è impossibile proporre agli artisti un finalismo cui subordinarsi e soprattutto proporre loro di onorare Dio e i misteri di santificazione umana che Dio ha rivelato.
Il peggio accade quando gli ecclesiastici si sottomettono agli artisti detti “celebri”, quelli di moda, strapagati dal mercato drogato.
Ennio Innocenti
L’innovazione nell’architettura delle nuove chiese non è stata di unanime consenso tra i fedeli (anzi, perfino Papa Giovanni Paolo II se ne lamentò pubblicamente).
Le ragioni possono essere varie, sia da parte dei fedeli sia da parte delle Autorità, che commissionano le opere, sia da parte degli operatori.
Da parte dei fedeli c’è una giusta aspettazione di rispettare la tradizione dell’edificio liturgico, per cui non possono apprezzare né il plurifunzionalismo architettonico né l’appiattimento simbolico. Però è anche vero che essi non possono pretendere che non si tenga conto del mutamento culturale, il quale esige razionalità anche nell’architettura.
Da parte dell’Autorità sarebbe desiderabile la conformità alle norme liturgiche e non alle mode, come anche alla gerarchia delle spese pastorali e non allo spreco.
Da parte degli architetti si dovrebbe esigere:
  1. la fede nei misteri celebrati nella Chiesa;
  2. la consapevolezza della liturgia e della partecipazione spirituale dei fedeli;
  3. il rispetto per la tradizione dei capolavori dei millenni cristiani trascorsi, che hanno reso l’architettura segno trasparente del sacro, hanno reso la geometria eloquente dei simboli, hanno reso la materia di costruzione parente dello spirito e, soprattutto, l’arredamento armonico con le forme e con fini dell’edificio, che serve lo spirito dei fedeli.
Ennio Innocenti

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