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venerdì 26 dicembre 2014

L’illusione del “bene comune”


L’illusione del “bene comune” nella dottrina sociale dei papi


drucker
La lettera del teologo ed economista anglofono che nel post precedente ha stroncato le posizioni di papa Jorge Mario Bergoglio in materia di economia ha suscitato vivaci reazioni, a giudicare dai commenti che ci sono pervenuti.
I commenti sono stati per lo più di consenso con il severo recensore. “Sono totalmente d’accordo con lui”, ha tagliato corto un economista e banchiere cattolico di primo piano.
Altri hanno espresso un consenso più circoscritto. Sì alle critiche a papa Francesco, no a quelle rivolte per le stesse ragioni ai due predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

“Papa Joseph Ratzinger, come formazione personale, era sicuramente inesperto sui temi economici “, ci scrive un lettore. “Ma l’enciclica ‘Caritas in veritate’ è stata redatta a più mani e con l’aiuto concreto di esperti come il professor Stefano Zamagni. Firmandola e approvandone le linee guida, papa Benedetto XVI comprendeva bene che cosa vi era scritto, ad esempio, nella parte riguardante la solidarietà e la sussidiarietà. Magari le nazioni guida del mondo seguissero quelle idee! Avremmo certamente un miglioramento della vita degli uomini, e non solo dal punto di vista economico”.
Anche il commento pubblicato qui di seguito ritiene “troppo radicale” la stroncatura dei due papi precedenti. Ma ravvisa dei punti deboli anche nel loro magistero in materia economica, in particolare sul concetto di “bene comune”.
L’autore del commento, Antonio Caragliu, triestino, esercita la professione di avvocato ed è iscritto all’Unione dei giuristi cattolici.
*
Caro Magister,
con riferimento all’interessante intervento del teologo anglofono studioso di materie economiche il quale rileva che la dottrina sociale della Chiesa è fondamentalmente ideologica e non empirica, vorrei svolgere alcune considerazioni.
Ritengo l’affermazione del teologo-economista troppo radicale per quanto riguarda il magistero dei due papi precedenti, essa tuttavia tocca un nervo scoperto.
Questo nervo scoperto io lo ravviso nella concezione di “bene comune”, elaborata in maniera canonica da Tommaso D’Aquino sulla base della filosofia aristotelica.
Ritengo che il concetto di “bene comune” non sia, di per sé, sbagliato o vuoto: dipende da come viene inteso nelle società moderne.
Da parte cattolica sovente – se non sempre – esso viene usato in maniera meramente retorica, concettualmente vuota, come la foglia di fico dei problemi socio-economici.
Bisogna considerare che al tempo di Tommaso d’Aquino e di Aristotele non esistevano le società ed i governi statali moderni.
Peter Drucker, economista e teorico sociale che ha avuto un grande impatto mondiale, sia teorico che strategico (purtroppo non nella nostra ideologizzata ed un po’ provinciale Italia), rileva:
“Essendo un’istituzione eminentemente protezionistica, il governo incontra sempre grosse difficoltà quando affronta problemi di innovazione e di rinnovamento. Non è una questione di miglior amministrazione: l’incapacità del governo ad affrontare le cose nuove deriva dalla sua legittima e necessaria funzione di protezione e tutela della società. […] Il governo, più di qualsiasi altra istituzione, è soggetto a non abbandonare il vecchio e l’usato: la tipica reazione del governo al fallimento di un’attività è di raddoppiare il bilancio e il personale” (”L’era del discontinuo”, trad. it., 1970, pp. 209-210).
E ancora:
“È discutibile la questione per stabilire se il governo è un governo di uomini o un governo di leggi; tutti sono d’accordo però nel definire ogni governo come governo di forme. Questa definizione mette in luce come primaria la funzione di controllo. Dire controllo significa automaticamente dover controllare tutto il controllabile e questo è tremendamente costoso, poiché il controllo dell’ultimo 10 per cento dei fenomeni è sempre più oneroso del primo 90 per cento. Tuttavia ciò è quanto ci si aspetta dal governo.
“Il governo di forme non è quindi motivato unicamente da pedanteria burocratica: la funzione di controllo (esercitata dalla burocrazia governativa) è motivata soprattutto dalla lotta contro la corruzione, che negli uffici e nelle anticamere dei ministeri ha facilità di movimento. Anche le piccole disonestà sono per il governo una malattia corrosiva: si diffondono rapidamente e come le mele marce possono contaminare l’intero corpo politico” (p. 212).
Quindi “il governo non sarà e non potrà mai essere il motore propulsore della società, il suo agente di spinta al progresso e allo sviluppo, né tantomeno un centro di attività, di attivazione e di produttività” (p. 215).
D’altra parte Drucker rileva che le organizzazioni industriali e commerciali “sono le uniche istituzioni che controllano e dirigono il progresso, le innovazioni e le trasformazioni della tecnologia. […] In particolare, le società industriali e commerciali hanno due grossi vantaggi, che per il governo sono invece due punti deboli. Primo, esse possono facilmente abbandonare un’attività, e sono spesso obbligate a farlo, quando operano in un mercato – e ancor più quando dipendono da un mercato per la domanda di capitale. […] Esse devono continuamente sostenere la prova della verità, il collaudo dell’efficienza delle loro prestazioni e della validità dei loro risultati” (pp. 219-220).
Trovo le considerazioni di Drucker dotate di grande spessore analitico. Non le trovo ideologiche.
Ora, se dall’analisi di Drucker torniamo al concetto di “bene comune” possiamo rilevare che, nelle società moderne, esso è il risultato della composizione di due funzioni che seguono due logiche distinte: la funzione in senso lato protettiva propria del governo politico e la funzione in senso lato di innovazione (tecnologica, organizzativa) del settore privato orientato alla soddisfazione dei bisogni in un regime di concorrenza (bisogni che, vale sottolinearlo, per l’uomo sono infiniti: proprio perché non schiavo dell’istinto, l’animale uomo è insaziabile).
In quale misura, allora, orientare le risorse per una funzione invece che per l’altra?
Qui subentrano le politiche, condizionate dalla cultura, dalle tradizioni dei popoli, dalle ideologie, dal know how delle rispettive società, dalle concezioni etico-religiose… Ma, qualunque siano le scelte politiche che vengono prese, quello che si dà a una funzione inevitabilmente si toglie all’altra.
Ci si potrebbe allora chiedere: quale delle due funzioni è più nobile? Quale è socialmente più buona, più meritevole di tutela, più utile per il bene delle persone?
Su un piano di principio questa è una domanda che non ha alcun senso, perché entrambe queste due funzioni producono beni socialmente rilevanti e preziosi.
Questo significa che sul piano economico sociale quello che noi chiamiamo “bene comune” è costituito dalla composizione di due logiche e di due funzioni che sono necessariamente in tensione tra loro.
È questa una tensione inevitabile, che nessun “bene comune” può risolvere. È una tensione non ideologica ma funzionale: tra due distinte funzioni, entrambe meritevoli, che si contendono le risorse nella società.
Insomma, ritengo che in ambito cattolico dovrebbe venir meno l’illusione che ci sia un “bene comune” capace di stabilire quell’armonia che possiamo trovare solo nello Spirito Santo, che, infatti, secondo l’edificante magistero di papa Francesco, “ipse harmonia est”.
Naturalmente il mio è un pensiero discutibilissimo, soprattutto considerando il fatto che non ho alcuna preparazione economica.
Sono solo un giurista a cui piace molto leggere.
Un caro saluto.
Antonio Caragliu

Settimo Cielo di Sandro Magister

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