Le parole del Natale: il bue e l’asinello
“Ma noi, cosa ci stiamo a fare qui?” chiese il Bue all’Asinello.
Sulla paglia del presepe appena inaugurato era venuta a posarsi quella inaspettata per non dire inopportuna domanda del Bue all’Asinello: “Ma noi, cosa ci stiamo a fare qui?” E la domanda non si riferiva alla bruttezza del luogo, che l’avrebbe ampiamente giustificata, ma alla specificità della situazione, vale a dire al fatto di essere accovacciati lì sulla paglia accanto al Bambinello, a Maria, a Giuseppe.
Il Bue aveva ragione perché da nessun documento risulta che la notte della nascita di Gesù nella povera capanna dove Maria trovò riparo con il suo sposo, fossero presenti un asino e un bue. Non ce ne parla san Matteo né san Luca, e sono gli unici due evangelisti che raccontino della nascita di Cristo. Perché allora il popolo cristiano ci tiene tanto a vedere, accanto a Gesù, i due simpatici animali? Di dove sono spuntati?
Il primo responsabile dell’intrusione dei due abusivi è il misterioso autore di un vangelo apocrifo molto tardo, il cosiddetto Pseudo Matteo, redatto dopo il sesto secolo d.C., che così narra: “Tre giorni dopo la nascita Maria col suo bambino uscì dalla grotta ed entrò in una stalla: mise il bambino nella mangiatoia e il bue e l’asino l’adorarono”.
Da allora l’Asino e il Bue (da scrivere con lettera maiuscola perché qui ricoprono il prestigioso ruolo di personaggi) divennero una delle coppie più amate dalla cultura religiosa popolare; e non soltanto dalla cultura popolare: li ritroviamo per esempio in un affresco di Giotto che riproduce il presepe di Greccio nel ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi. Ma perché proprio loro, un asino e un bue, e non, che so? Una capra e un dromedario?
Cominciando dal bue, è importante sapere che esso, oggi simbolo di pacifica mansuetudine, fu nei tempi pre cristianil’animale sacrificale per eccellenza. Il sacrificio del bue, o del toro, è legato ai riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno, dunque del nuovo ciclo vitale. Naturale quindi che un anonimo autore cristiano abbia affiancato alla nascita di Cristo, rinnovatore della storia, questo animale legato alla simbologia pagana del rinnovamento.
Quanto all’asino, che a noi dice pazienza e mitezza, non possiamo dimenticare che nell’antichità, anche presso gli Ebrei, esso fu considerato animale nobilissimo, legato ad un’idea di regalità sapienziale. Noi che dispensiamo l’epiteto di “asino” come offesa spregiativa, dovremmo a nostra volta sentirci “asini”: perché nei tempi antichi l’asino, anzi una famiglia particolare di asini, alti e dal manto bianco, era cavalcato dai re. “Voi che cavalcate asine bianche seduti su gualdrappe…” dice la profetessa Deborah rivolgendosi ai comandanti di Israele nel Libro dei Giudici. E tra parentesi, pare che di tale aristocratica razza fosse anche l’asino cavalcato da Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme: segno profetico della sua regalità.
Ecco dunque, per rispondere alla domanda iniziale fatta dal Bue, perché proprio lui e l’asino, e non altri animali presi a caso, furono collocati dalla fantasia di un autore apocrifo nella capanna dove il Verbo s’incarnò.
Del resto, per rimanere al valore simbolico delle presenze animali, Leonardo, quando volle introdurre nell’”Adorazione dei Magi” un segno della straordinarietà dell’Incarnazione, dipinse sullo sfondo un cavallo imbizzarrito.
Oggi siamo molto lontani da questi poetici tentativi di penetrare il Mistero. Gli antichi valori simbolici li abbiamo persi per strada. L’Asino e il Bue c’inteneriscono per la loro docilità, ci commuovono con la loro presenza rassicurante, ma sono soltanto un asino e un bue. I forti simboli spirituali della tradizione hanno lasciato il posto al trionfo dell’emotività.
Nel nostro Natale, ieri crapulone, oggi parco per via della crisi, ma pur sempre all’insegna di Coca Cola, Bauli eccetera, rimane difficile leggere i segni della Trascendenza. Dunque anche l’Asino e il Bue hanno cambiato di ruolo: abbandonata la sacra rappresentazione si sono adeguati alla commedia sentimentale.
Ma non disperiamo: quel Gesù di cui celebriamo la nascita, se si è incarnato per salvare chi si era perduto, deve pur essersi incarnato per gente come noi.
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