Raffaello, Sogno di Giacobbe, stanza di Eliodoro, Vaticano
Amico, mi sono messo in ascolto del tuo cuore e della tua irresistibile voglia di felicità.
Ti parlerò di questa tua cima impervia da scalare, cercando di parteciparti una mia riflessione personale. Niente di più che un augurio di “buona vetta”, forse non originale né esclusivo, ma tendenzialmente poco allineato alla diffusa filosofia postmoderna oggi imperante, che semplifica come esaustive del soddisfacimento di ogni desiderio umano le aspirazioni alla solidarietà, al dialogo, alla libertà e alla dignità.
All’uomo basta però applicare una ricetta così radicalmente terrena per accedere a quell’enigmatico stato ideale di benessere che genericamente chiamiamo felicità?
La difficile “arte del vivere” consiste solo nell’effettuare con successo la ricerca di un modo apprezzabile di convivenza nell’”aldiquà” col nostro prossimo?
Se rispondessimo sì a queste domande, vorrebbe dire che ci basterebbe sperimentare la citata litania di compromessi filantropici di buon vicinato per sentirci pienamente felici. Ma, una volta raggiunto questo stato pagano di provvisoria pace condominiale planetaria che chiamiamo felicità, saremmo poi al sicuro dalla perenne nostalgia di non poter mai più ritornare in quel giardino dell’Edhen, da cui i nostri progenitori furono scacciati all’inizio dei tempi?
La promessa di felicità, di cui impropriamente ci arroghiamo il diritto di sentirci creditori, si è rivelata mitica e irraggiungibile sin dall’esordio della storia umana.
Limitandoci agli ultimi secoli essa è diventata una chimera sempre più lontana e irraggiungibile da quando, agli inizi dell’Età dei Lumi, la fede nel trionfale progresso scientifico e tecnologico ha cominciato a renderci miopi e ha atterrato, appunto umiliandole, le mire del nostro sfaccettato orizzonte di valori.
La cieca presunzione delle potenzialità conoscitive illimitate della ragione umana ha finito per estromettere di fatto il Creatore dal centro dell’universo per porvi abusivamente al suo posto le sue creature. Le quali, rivestite di una sempre più spessa ma vulnerabile corazza di superbia e autostima, hanno messo da parte come un ferro vecchio l’escatologia cristiana, il discorso soprannaturale sul nostro ultimo destino, cioè la proiezione nell’aldilà delle nostre speranze di autentica felicità.
Emblematici della tendenza dell’uomo moderno a equivocare sulla via da percorrere per raggiungere la felicità sono i fallimenti dei sistemi politici che si sono succeduti nella nostra epoca, destando prima irragionevole ottimismo poi desolazione, dall’orientamento marxista a quello liberale, perseguiti con la carica di utopia e irrealtà propria dei sogni. Oggigiorno assistiamo alla ricerca di una via del benessere in cui sembrano confluire ideologie rottamate e fallite, confuse in un rivoluzionario tritacarne sociopolitico planetario denominato Nuovo Ordine Mondiale, che ha il suo tempio caotico e indifferentista nell’ONU.
Qui il ceto dei grandi burattinai del pianeta persegue una filosofia che non è esagerato definire luciferina nei confronti del Sud del mondo, fatta di inconcludenti piani quinquennali e di strategie volte a conservare il proprio stato di abissale privilegio sociopolitico e finanziario, più che a tendere una mano di doverosa e affidabile solidarietà ai più disgraziati. Al massimo quella mano i registi occulti la tendono rapace e cinica per rapinare delle loro immense ricchezze naturali intere popolazioni, che intanto continuano a morire di fame, di sete e di malattie.
L’impressione ineludibile è che questa nuova antropologia mondialista, lontana dal varcare più alte soglie di solidarietà e felicità comune, sia levatrice di ulteriore egoismo su larga scala planetaria.
Anziché individuare i mezzi e i sacrifici per distribuire almeno qualche decina di milioni di pasti in più, essa sembra animata dall’intento di ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, affinché non venga minimamente intaccata la pretesa felicità blindata ed opulenta che i soliti pochi vincenti si sono assicurata a danno dei soliti moltissimi perdenti predestinati.
Nel quadro di uniformazione mondiale in atto anche l’unico Dio, il Dio severo ed esigente dei cristiani, tacciato di tiranno capace coi suoi comandamenti di limitare la libertà e umiliare la dignità dei suoi sudditi, viene messo all’angolo come insopportabile ostacolo alla realizzazione della felicità terrena.
La sincretistica e indistinta commistione di razze, stirpi, etnie, tradizioni, lingue, monete, sovranità politiche e religiose, destinata ad un unico calderone sovrannazionale dai fautori del mondialismo, di cui il velleitario ecumenismo cristiano è pronubo, finirà per rendere attuale la blasfema affermazione ateistica di Albert Camus, “il mio regno, ovvero la mia felicità, è di questo mondo”, superbamente opposta alla rivelazione di Cristo: “Il mio regno non è di questo mondo”.
Verità, speranza, amore, queste le tre spirali concentriche in cui si avvita all’infinito la vera felicità cristiana, quella insidiata dall’incredulità e spesso dall’irrisione del mondo, che sa sfidare lo scandalo del male, del mistero della sofferenza dei buoni contrapposta al benessere dei malvagi, dell’impotenza delle vittime d’ingiustizia contrapposta alla prepotenza dei sopraffattori.
La soluzione della felicità, anche di quella terrena, pur costellata di drammatici enigmi esistenziali e dolori, incomprensibili ma mai assurdi, ce la offre la ragionevolezza del nostro affidamento alla Santa Provvidenza. Essa proietta, trasfigurandola, l’infelicità umana nell’ordine soprannaturale.
Siamo qui di fronte alla più innovatrice e radicale rivoluzione operata dal cristianesimo.
Il codice della felicità cristiana non è forse scolpito indelebilmente nel “manifesto delle beatitudini”?
Gesù nel suo “discorso della montagna” ci propone una fiammeggiante rivelazione della volontà di Dio, della Sua sovranità, del suo ostinato desiderio di renderci felici. Quella del Redentore non è la consolazione paternalistica rivolta con commiserazione a uomini tristi e derelitti, ma la più credibile delle promesse di felicità vera e senza fine.
Come concludere la riflessione sul sovversivo programma di felicità cristiana annunciato solennemente da Gesù, senza cogliere l’eco di un proclama in cui la sua Mamma, trent’anni prima di Lui, all’annuncio che Dio le era accanto prorompeva in un inno di gioia, il “Magnificat”, che anticipava immagini di una strabiliante storia a venire, di potenti rovesciati dai troni, di umili esaltati sopra tutti, di affamati colmi di beni e di ricchi rinviati a mani vuote?
E’ la “beatitudine” della creatura più piccola e diseredata colmata dei doni più grandi. Con l’umile giovinetta di Nazareth la promessa di felicità cristiana prorompe con gioia per la prima volta nella storia dei poveri, delle “canne al vento” piegate e umiliate dai prepotenti del mondo e la segnerà per sempre.
Secondo la mentalità laicista e irreligiosa la ricerca della felicità ultraterrena è per lo più intesa come segno di debolezza, viltà e diserzione.
Eppure il richiamo alla vita eterna non si presenta mai come una fuga. Anzi, riconosce all’esistenza terrena la sua responsabilità nella libertà, la sua grandezza, la sua dignità.
Oggigiorno siamo accerchiati da sempre più insistenti e diverse proposte di felicità terrena.
L’ala più scapigliata del magistero ecclesiale postconciliare ci esorta di continuo a costruire solo ecumenici ponti verso tutti i nostri prossimi, alle cui ragioni aprirci indiscriminatamente e, per malinteso esercizio di carità, a rinunciare alla rivendicazione della nostra identità cristiana per ossessione di dialogo.
Al riguardo osiamo sommessamente osservare che al buon cristiano sarebbe conveniente, a dispetto di ogni sofferenza modernista di vertigini, anche e soprattutto innalzare scale.
Infatti, chi non sale lassù sino a Dio come può incontrarvi il fratello e pregustare con lui la vera felicità dell’abbraccio col Padre?
Ti parlerò di questa tua cima impervia da scalare, cercando di parteciparti una mia riflessione personale. Niente di più che un augurio di “buona vetta”, forse non originale né esclusivo, ma tendenzialmente poco allineato alla diffusa filosofia postmoderna oggi imperante, che semplifica come esaustive del soddisfacimento di ogni desiderio umano le aspirazioni alla solidarietà, al dialogo, alla libertà e alla dignità.
All’uomo basta però applicare una ricetta così radicalmente terrena per accedere a quell’enigmatico stato ideale di benessere che genericamente chiamiamo felicità?
La difficile “arte del vivere” consiste solo nell’effettuare con successo la ricerca di un modo apprezzabile di convivenza nell’”aldiquà” col nostro prossimo?
Se rispondessimo sì a queste domande, vorrebbe dire che ci basterebbe sperimentare la citata litania di compromessi filantropici di buon vicinato per sentirci pienamente felici. Ma, una volta raggiunto questo stato pagano di provvisoria pace condominiale planetaria che chiamiamo felicità, saremmo poi al sicuro dalla perenne nostalgia di non poter mai più ritornare in quel giardino dell’Edhen, da cui i nostri progenitori furono scacciati all’inizio dei tempi?
La promessa di felicità, di cui impropriamente ci arroghiamo il diritto di sentirci creditori, si è rivelata mitica e irraggiungibile sin dall’esordio della storia umana.
Limitandoci agli ultimi secoli essa è diventata una chimera sempre più lontana e irraggiungibile da quando, agli inizi dell’Età dei Lumi, la fede nel trionfale progresso scientifico e tecnologico ha cominciato a renderci miopi e ha atterrato, appunto umiliandole, le mire del nostro sfaccettato orizzonte di valori.
La cieca presunzione delle potenzialità conoscitive illimitate della ragione umana ha finito per estromettere di fatto il Creatore dal centro dell’universo per porvi abusivamente al suo posto le sue creature. Le quali, rivestite di una sempre più spessa ma vulnerabile corazza di superbia e autostima, hanno messo da parte come un ferro vecchio l’escatologia cristiana, il discorso soprannaturale sul nostro ultimo destino, cioè la proiezione nell’aldilà delle nostre speranze di autentica felicità.
Emblematici della tendenza dell’uomo moderno a equivocare sulla via da percorrere per raggiungere la felicità sono i fallimenti dei sistemi politici che si sono succeduti nella nostra epoca, destando prima irragionevole ottimismo poi desolazione, dall’orientamento marxista a quello liberale, perseguiti con la carica di utopia e irrealtà propria dei sogni. Oggigiorno assistiamo alla ricerca di una via del benessere in cui sembrano confluire ideologie rottamate e fallite, confuse in un rivoluzionario tritacarne sociopolitico planetario denominato Nuovo Ordine Mondiale, che ha il suo tempio caotico e indifferentista nell’ONU.
Qui il ceto dei grandi burattinai del pianeta persegue una filosofia che non è esagerato definire luciferina nei confronti del Sud del mondo, fatta di inconcludenti piani quinquennali e di strategie volte a conservare il proprio stato di abissale privilegio sociopolitico e finanziario, più che a tendere una mano di doverosa e affidabile solidarietà ai più disgraziati. Al massimo quella mano i registi occulti la tendono rapace e cinica per rapinare delle loro immense ricchezze naturali intere popolazioni, che intanto continuano a morire di fame, di sete e di malattie.
L’impressione ineludibile è che questa nuova antropologia mondialista, lontana dal varcare più alte soglie di solidarietà e felicità comune, sia levatrice di ulteriore egoismo su larga scala planetaria.
Anziché individuare i mezzi e i sacrifici per distribuire almeno qualche decina di milioni di pasti in più, essa sembra animata dall’intento di ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, affinché non venga minimamente intaccata la pretesa felicità blindata ed opulenta che i soliti pochi vincenti si sono assicurata a danno dei soliti moltissimi perdenti predestinati.
Nel quadro di uniformazione mondiale in atto anche l’unico Dio, il Dio severo ed esigente dei cristiani, tacciato di tiranno capace coi suoi comandamenti di limitare la libertà e umiliare la dignità dei suoi sudditi, viene messo all’angolo come insopportabile ostacolo alla realizzazione della felicità terrena.
La sincretistica e indistinta commistione di razze, stirpi, etnie, tradizioni, lingue, monete, sovranità politiche e religiose, destinata ad un unico calderone sovrannazionale dai fautori del mondialismo, di cui il velleitario ecumenismo cristiano è pronubo, finirà per rendere attuale la blasfema affermazione ateistica di Albert Camus, “il mio regno, ovvero la mia felicità, è di questo mondo”, superbamente opposta alla rivelazione di Cristo: “Il mio regno non è di questo mondo”.
Verità, speranza, amore, queste le tre spirali concentriche in cui si avvita all’infinito la vera felicità cristiana, quella insidiata dall’incredulità e spesso dall’irrisione del mondo, che sa sfidare lo scandalo del male, del mistero della sofferenza dei buoni contrapposta al benessere dei malvagi, dell’impotenza delle vittime d’ingiustizia contrapposta alla prepotenza dei sopraffattori.
La soluzione della felicità, anche di quella terrena, pur costellata di drammatici enigmi esistenziali e dolori, incomprensibili ma mai assurdi, ce la offre la ragionevolezza del nostro affidamento alla Santa Provvidenza. Essa proietta, trasfigurandola, l’infelicità umana nell’ordine soprannaturale.
Siamo qui di fronte alla più innovatrice e radicale rivoluzione operata dal cristianesimo.
Il codice della felicità cristiana non è forse scolpito indelebilmente nel “manifesto delle beatitudini”?
Gesù nel suo “discorso della montagna” ci propone una fiammeggiante rivelazione della volontà di Dio, della Sua sovranità, del suo ostinato desiderio di renderci felici. Quella del Redentore non è la consolazione paternalistica rivolta con commiserazione a uomini tristi e derelitti, ma la più credibile delle promesse di felicità vera e senza fine.
Come concludere la riflessione sul sovversivo programma di felicità cristiana annunciato solennemente da Gesù, senza cogliere l’eco di un proclama in cui la sua Mamma, trent’anni prima di Lui, all’annuncio che Dio le era accanto prorompeva in un inno di gioia, il “Magnificat”, che anticipava immagini di una strabiliante storia a venire, di potenti rovesciati dai troni, di umili esaltati sopra tutti, di affamati colmi di beni e di ricchi rinviati a mani vuote?
E’ la “beatitudine” della creatura più piccola e diseredata colmata dei doni più grandi. Con l’umile giovinetta di Nazareth la promessa di felicità cristiana prorompe con gioia per la prima volta nella storia dei poveri, delle “canne al vento” piegate e umiliate dai prepotenti del mondo e la segnerà per sempre.
Secondo la mentalità laicista e irreligiosa la ricerca della felicità ultraterrena è per lo più intesa come segno di debolezza, viltà e diserzione.
Eppure il richiamo alla vita eterna non si presenta mai come una fuga. Anzi, riconosce all’esistenza terrena la sua responsabilità nella libertà, la sua grandezza, la sua dignità.
Oggigiorno siamo accerchiati da sempre più insistenti e diverse proposte di felicità terrena.
L’ala più scapigliata del magistero ecclesiale postconciliare ci esorta di continuo a costruire solo ecumenici ponti verso tutti i nostri prossimi, alle cui ragioni aprirci indiscriminatamente e, per malinteso esercizio di carità, a rinunciare alla rivendicazione della nostra identità cristiana per ossessione di dialogo.
Al riguardo osiamo sommessamente osservare che al buon cristiano sarebbe conveniente, a dispetto di ogni sofferenza modernista di vertigini, anche e soprattutto innalzare scale.
Infatti, chi non sale lassù sino a Dio come può incontrarvi il fratello e pregustare con lui la vera felicità dell’abbraccio col Padre?
di U. T.
BELLO ! jane
RispondiEliminail ponte rimane terra.. terra,la scala sale su...su...su in alto fino all'incontro con Dio!coraggio no lasciamoci deviare dai falsi profeti ...anche se travestiti da alti prelati!guardiamo le cose di lassù e pregustiamo già da ora la grazia della vita eterna che Gesù ha detto che spetta al servo buono e fedele! AMEN!
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