Quel parlar per slogan che piace tanto alla “Chiesa della misericordia”
(di Mauro Faverzani) In occasione del XVII congresso della Cgil, svoltosi lo scorso maggio a Rimini, il documento conclusivo approvato dal sindacato “rosso” individuava due priorità: lavoro e occupazione. E sempre in nome del lavoro e dell’occupazione il 26 settembre 1980 Enrico Berlinguer promise l’appoggio del Partito Comunista Italiano agli operai della Fiat, scesi in sciopero con forme anche violente di picchettaggio, per protestare contro i licenziamenti.
Per questo suscita un certo disagio leggere nel documento finale del Consiglio episcopale permanente, svoltosi a Roma dal 26 al 28 gennaio scorsi, l’appello «ai responsabili della cosa pubblica», affinché pensino «al lavoro e all’occupazione prima di ogni altra cosa», riprendendo così le parole pronunciate nella prolusione dal Card. Bagnasco. Non perché, specie in un tempo di crisi quale l’attuale, questi non siano temi importanti. Ma perché hanno già i loro esperti ed i loro soloni, dai sindacati ai politici ed ai “tecnici”.
È quel «prima di ogni altra cosa» che stona… In un momento storico in cui vita, scuola e famiglia – questioni squisitamente ecclesiali – sono costantemente poste sotto attacco tra aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, “nozze gay” e ideologia gender, non vedere questi temi tra le priorità ed anzi ritrovarli declassati tra le «altre cose», quasi fossero “varie ed eventuali”, lascia decisamente l’amaro in bocca. Oltre a non rappresentare un buon segnale.
Timore rafforzato anche dal Segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino, che ha definito le “unioni gay” di Roma come una sorta di «diversivo» per «non guardare le buche per le strade», paragone davvero infelice, come se le due cose avessero lo stesso valore, il che evidentemente non è. Che poi dopo egli abbia ricordato anche come il gender nelle aule scolastiche sia «una polpetta avvelenata» e come la famiglia sia «al centro di chiare aggressioni da parte delle lobbies», bollando di «bullismo costituzionale» chiunque vi attenti, va bene, ma è passato decisamente in secondo piano sulla grande stampa, compreso il quotidiano della Cei “Avvenire”, che difatti ha sorvolato in merito nei titoli, non parlando né di «lobbies», né di «bullismo».
Anche perché, sì, certo, la sessione invernale del Consiglio della Cei, contro l’omosessismo, ha parlato di «colonizzazione ideologica», che capovolge «l’alfabeto dell’umano» e mira a «ridefinire le basi della persona e della società», snaturando la famiglia come «baricentro esistenziale» ed equiparandola a qualsiasi relazione affettiva purchessia, indipendentemente dal matrimonio tra uomo e donna. Ma poi ecco subito il direttore dell’Ufficio nazionale per la Famiglia, don Paolo Gentili, ricordare alla Consulta Cei come le 46 domande del questionario diffuso in vista del Sinodo ordinario rispecchino l’antropologia del Papa, comprese le nuove “attenzioni pastorali” da riservare «alle famiglie che abbiano al loro interno persone con tendenza omosessuale», “attenzioni” da «estendere a tutte le diocesi».
Ed allora la percezione di una concezione schizofrenica o, quanto meno, bifronte del delicatissimo argomento si fa più concreta. Perché, come ha ricordato ancora don Gentili, la famiglia non è un’ideologia, giusto. Solo che lui, il concetto, lo intende non scorgendo nella famiglia uno dei «valori non negoziabili» individuati a chiare lettere da Benedetto XVI, bensì l’opposto ovvero una realtà “in evoluzione”, malleabile e plasmabile, al punto da poter «riattualizzare i principi di sempre con la flessibilità richiesta dalle tante emergenze di oggi».
Così, secondo don Giancarlo Grandis, Vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Verona, ridefinire semplicemente come «famiglie fragili e ferite», sulla scorta dell’Evangelii gaudium, quelle che per vent’anni sono state chiamate ben più propriamente «famiglie irregolari» non sarebbe una gravissima concessione al secolarismo, bensì il «segnale importante di un cambiamento in atto che ci obbliga a vedere, giudicare e agire con occhi diversi». Il che non è. Ed, a questo punto, lo stravolgimento appare anzi completo: saremmo noi a doverci adattare al linguaggio del mondo, anziché l’opposto.
Pare proprio che gli incidenti lessicali e le mezze frasi sibilline stiano diventando la regola all’interno della “Chiesa della misericordia”. Con quel “dico-non dico”, fatto di paragoni arditi ed iperboli lessicali, che sembrano buttare sul gioco questioni, di contro, drammaticamente serie e tali da richiedere una Chiesa che sia un punto di riferimento chiaro, autorevole e sicuro, forte della Scrittura, della Tradizione, del Magistero e della propria Dottrina. Tutto questo rende evidente la gravità della posta in gioco. Gli equilibrismi, le acrobazie e gli illusionismi, anche se porti col sorriso, la mano tesa ed i guanti di velluto, non servono. Meglio lasciarli al circo… (Mauro Faverzani)
Galantino, il sibillino…
Monsignor Galantino mi lascia perplesso. Saranno il presenzialismo (il presidente della Cei è lui o Bagnasco?) la loquacità (sino a ieri non sapevamo chi fosse, ora parla sempre), l’insistenza con cui ripete gli stessi ritornelli… oppure sarà perchè dai preti mi aspetto sempre prudenza, saggezza, precisione… Sarà quel che sarà, mi lascia spesso, ribadisco,stupefatto. Vatican Insider riporta recentemente alcune sue risposte, alle domande dei giornalisti.
“Quanto al questionario del sinodo ordinario dei vescovi che si riunirà a ottobre prossimo in Vaticano sul tema della famiglia, nelle diocesi italiane sono in corso «incontri informativi» tali per cui si può parlare di una «fase di creativo laboratorio»). Don Mauro Inzoli, sacerdote condannato per pedofilia presente ad un convegno sulla famiglia organizzato dalla regione Lombardia? «Non è stato organizzato dalla diocesi e ognuno può invitare chi vuole. Poi si tratta di chiedere a chi fa gli inviti che tipo di coerenza c’è tra certi inviti e quello che si fa. Molte volte alcuni personaggi vengono invitati per vedere l’effetto che fa…». Il nuovo quotidiano La Croce diretto da Mario Adinolfi è in concorrenza con il quotidiano della Cei Avvenire? «Non l’ho letto, l’ho visto da lontano in mano a qualcuno…», ha risposto Galantino. «Quando nasce un giornale io sono contento, intanto perché qualcuno lavora, e speriamo che vengano pagati, e poi perché la Chiesa può beneficiare della pluralità di voci, il pensiero unico non fa bene a nessuno», ha detto, concludendo con la notizia che Avvenire anche di recente ha aumentato «tiratura a lettori». ”
Vediamo la prima risposta: “Poi si tratta di chiedere a chi fa gli inviti che tipo di coerenza c’è tra certi inviti e quello che si fa. Molte volte alcuni personaggi vengono invitati per vedere l’effetto che fa…” Verrebbe da dire: ma che stai a di’? Don Inzoli, se mai è andato al convegno, si può essere iscritto da solo, senza bisogno di alcun invito. Non era un convegno su invito, ma su iscrizione. Perchè fare il verso alla grande stampa che ha demonizzato l’incontro, in questo modo sibillino? Questo dire e non dire, che finisce per essere un allinearsi al pensiero dominante, con finta e controfinta?
Poi gli viene chiesto cosa pensa del quotidiano La Croce. Galantino risponde di non sapere (un po’ fuori dal mondo, si vede), ma poi dimostra di sapere benissimo. Infatti sa perfettamente che è un giornale che si regge sul volontariato, e, per attaccarlo, ma clericaliter, fa una battutina sgradevole, piccina piccina picciò: “Quando nasce un giornale io sono contento, intanto perché qualcuno lavora, e speriamo che vengano pagati...”.
Davvero Galantino si preoccupa che chi collabora a La Croce venga pagato? O c’è altro, che non va giù?
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