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domenica 1 febbraio 2015

Prove generali di apostasia

"Le prove generali di Paolo VI per la messa in italiano"


Intervista all'ex direttore dell'Osservatore Romano, Gianfranco Svidercoschi sulla visita di Francesco alla parrocchia romana di Ognisanti nel 50° anniversario della celebrazione di Montini

Fu una novità tale da richiedere una “prova generale” alla vigilia. “50 anni fa fu un vero e proprio trauma: per la prima volta entravamo in una chiesa e il sacerdote guardava verso di noi e parlava la nostra lingua”, racconta a “Vatican Insider” Gianfranco Svidercoschi,  ex vicedirettore dell’“Osservatore Romano”. Aveva ventidue anni quando l’agenzia d’informazione  Ansa lo mandò in Vaticano a documentare il Concilio Vaticano II che avrebbe segnato una svolta decisiva nella storia della Chiesa. Da allora ad oggi una lunga carriera da giornalista lo ha portato all’Osservatore Romano come vicedirettore e a scrivere numerosi libri sui papi e sulla vita della Chiesa contemporanea come “Mal di Chiesa, dubbi e speranze di un cristiano in crisi” e “Il ritorno dei chierici, emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio”.


Lei segue da oltre mezzo secolo i fatti del mondo religioso. Perché il 7 marzo Francesco visiterà la parrocchia di Ognissanti sulla via Appia?
“Ha un significato speciale la visita di papa Bergoglio alla parrocchia romana, la la stessa dove, il 7 marzo di 50 anni fa, Paolo VI celebrò per la prima volta in italiano, secondo le rinnovate norme liturgiche del Concilio Vaticano II”.

Il 7 marzo del 1965 il pontefice Paolo VI vestì i paramenti per celebrare la prima messa in italiano. Un evento storico. Fu il segno della modernizzazione di una Chiesa che voleva essere al passo con i tempi?
“La decisione di Paolo VI fu tanto più simbolica in quanto il Papa non celebrò la messa in San Pietro ma in una semplice parrocchia sull'Appia Nuova. Paolo VI era molto scrupoloso nell’attuazione delle riforme. Quando era ancora aperto il Concilio da lui guidato entrò in vigore il documento sulla liturgia. Prima fu necessaria una prova generale”.

In che modo fu “provata” la riforma liturgica?
“Paolo VI mandò a chiamare un allora giovane sacerdote vicentino, don Gianni Todescato, poi per quarant’anni a Roma parroco di Santa Chiara a Monte Mario e oggi rettore a piazza Navona di Sant’Agnese in Agone. Era conosciuto allora come un bravo predicatore e un innovatore. Papa Montini lo invitò a fare con lui la prova in Vaticano della messa nuova. Era cambiata la struttura ed era in italiano”.

Quale fu l’effetto?
“Fu una cosa eccezionale. Oggi già due generazioni danno per scontato il parroco che celebra in italiano, ma prima il prete pregava in latina dando le spalle ai fedeli che potevano dire solo “amen”. Intanto le vecchiette recitavano il rosario, tanto non capivano la messa. Cinquant’anni fa fu uno choc: non era solo un diverso modo di pregare, ma di vivere la fede. Per la prima volta arrivava la Bibbia nelle letture e il sacerdote recitava con la gente il Credo e il Santus”.

Francesco sta attuando il Concilio?
“Sì. In particolare la Lumen Gentium, che è il documento più importante, quello con cui il Concilio aveva dato a tutti una nuova visione della Chiesa, “Chiesa mistero, Chiesa popolo di Dio, Chiesa collegiale”. Son i temi che ora papa Bergoglio sta sviluppando: Siamo ad una svolta: Francesco ci ha messo in mano il Vangelo. È come se ci avesse detto: ricominciamo da capo a leggere il Vangelo, ad applicare il Vangelo. Tutto qui. Il resto è un di più. Dobbiamo uscire dal frigidaire in cui ci siamo messi per troppi anni e cominciare a vivere meglio la nostra fede .Il Concilio rappresenta veramente quella bussola che doveva rappresentare? No, abbiamo la coscienza di aver mancato in qualcosa. Abbiamo un cammino che è davanti a noi”.

Cosa resta di quella stagione?
“Dal Concilio arriva tutto quello che oggi c’è di positivo nella Chiesa e noi lo stiamo vivendo oggi: ha cambiato il modo di pregare, di rapportarsi a Dio, con le altre Chiese cristiane, ha cambiato il mondo. C’è una Chiesa che si confronta con la modernità. Tutto questo è stato il Concilio. La Chiesa, dal Concilio di Trento in poi, ha perduto troppo tempo a indagare nelle coscienze, invece di far maturare le coscienze. C’è un’educazione alla libertà, un’educazione alla responsabilità, e questo è, credo, il compito fondamentale della Chiesa in questo momento. Personalmente Giovanni XXIII mi ha riavvicinato alla Chiesa. Paolo VI, con i suoi punti interrogativi e la sua voglia di approfondire mi ha fatto diventare un cristiano che pensa. Giovanni Paolo I che ha cominciato a smontare l’apparato di sfarzo della Chiesa e in qualche modo ha preparato la prima venuta di un papa non italiano dopo 500 anni, mi ha dato la gioia di essere cristiano. Giovanni Paolo II mi ha fatto entrare nelle radici polacche di una religiosità più combattente e Benedetto XVI mi ha fatto ritrovare il senso del Cristo che sta dentro e accompagna la vita del credente. Francesco invece basta seguirlo e diventi cristiano per forza anche se non lo sei”.

GIACOMO GALEAZZI
CITTÀ DEL VATICANO

2 commenti:

  1. Mamma mia ......Un altro modernista.

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  2. "Francesco invece basta seguirlo e diventi cristiano per forza anche se non lo sei”.tuttalpiù se lo segui cristiano non lo diventerai.......mai!

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