La verità sul caso Moro
Il 9 marzo alla Commissione parlamentare d'inchiesta audizione di mons. Antonio Mennini. Confessò Moro nel covo delle BR? Non sarà la prima volta che parla del suo ruolo
Riuscirà mons. Antonello Mennini, attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna, a sollevare alcuni dei veli che pesano sul caso Moro? E' quanto viene auspicato dalla nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che lo attende per un'audizione lunedì 9 marzo a Palazzo S. Macuto. "Ci aspettiamo – ha affermato il presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni - un contributo di conoscenza da parte dell’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro. Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto" (AdnKronos 27 febbraio).
Mennini, figlio di un importante funzionario della banca vaticana dello Ior, formatosi dai gesuiti del collegio Massimo, era nel 1978 vice parroco a Santa Lucia e in rapporti di confidenza e amicizia con Moro che, dalla sua prigione, lo indicò come "postino" per recapitare alcune lettere.
La convinzione circolata con frequente convinzione nei 37 anni trascorsi dal 16 marzo 1978, il giorno in cui il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro fu ritrovato nella famosa Renault rossa in via Caetani a Roma, è che l'allora trentenne don Antonello si sia recato nella "prigione del popolo" in cui le Brigate Rosse detenevano lo statista per recargli il sacramento della Confessione prima che fosse ucciso.
Allo stesso modo si è affermata la convinzione che don Antonello sia stato sottratto in fretta e furia dal Vaticano al confronto con le autorità giudiziarie che investigavano sul caso Moro e infilato in un incarico diplomatico dopo l'altro affinchè non potesse rispondere alle domande sul suo coinvolgimento nella vicenda. Almeno su questo punto, però, è possibile riscontrare una evidenza diversa.
Don Mennini partì per la sua prima destinazione in Uganda, nel 1981, cioè ben tre anni dopo la tragica conclusione del caso Moro. E in, realtà, fu sentito tra procure, corti d'assise e commissioni parlamentari almeno 7 volte. Basta consultare, tra l'altro, l'indice degli atti della prima Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (http://www.archivioflamigni.org/doc/indice-atti-commissione-moro.pdf) istituita nel 1979.
Il 2 giugno del 1978 Mennini fu sentito dalla Procura della Repubblica di Roma e il 12 gennaio 1979 il Tribunale di Roma lo esaminò in merito a "confessione di Moro". Nel febbraio del 1979 il sostituto procuratore di Roma, Domenico Sica, volle nuovamente ascoltarlo dopo la pubblicazione nel gennaio di quell'anno di un articolo sul Corriere della Sera a firma del giornalista Antonio Padellaro sempre in merito alla presunta confessione avvenuta nella prigione della BR. Padellaro, ex alunno del Massimo come Mennini, aveva chiesto al vice parroco di Santa Lucia se davvero si fosse recato da Moro e questi aveva risposto: "Magari avessi potuto farlo! Purtroppo non mi è stata data la possibilità di offrire consolazione a una persona che mi onorava di affetto e amicizia".
Il 22 ottobre del 1980 Mennini testimoniò davanti alla Commissione d'inchiesta su via Fani. Il 21 settembre 1982 fu convocato, ma non ascoltato, davanti alla Corte di Assise di Roma dove si svolgevano i procedimenti riunificati Moro uno e Moro bis con la presidenza del giudice Severino Santiapichi. Di lui, però, aveva parlato davanti alla stessa Corte nell'udienza del 19 luglio la vedova di Aldo Moro, la signora Eleonora Chiavarelli. Al presidente Santiapichi il 28 settembre Mennini inviò una lettera informando che stava ripartendo per il servizio diplomatico in Uganda ma restava a disposizione.
Il servizio diplomatico (consigliere di nunziatura in Uganda e Turchia, nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria, dal 2002 presso la Federazione Russa e successivamente anche in Uzbekistan, quindi dal 2010 nel Regno Unito) non impedì a Mennini di tornare davantidalla Procura di Roma che indagava per il Moro ter nel settembre del 1986 e davanti alla Corte d'Assise per il Moro-quater, di nuovo con il presidente Santiapichi, nel 1993.
Forse è per questo motivo che Mennini richiesto di una nuova audizione dalla cosiddetta seconda Commissione Moro, la "Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi", istituita nel 1988, inviò una lettera al presidente Giovanni Pellegrino per chiedere, "rispettosamente" come si legge, alla Commissione di fare riferimento alle precedenti deposizioni rese alle autorità sia parlamentari che giudiziarie che confermava e rispetto alle quali non aveva nulla da aggiungere. In ogni caso, non trincerandosi dietro lo status di cittadino del Vaticano e "il ruolo ivi ricoperto" come è stato spesso riportato.
"Un comportamento quest'ultimo – afferma la relazione della Commissione parlamentare – che la Commissione non può omettere di valutare almeno a livello indiziario, per affermare dotata di probabilità, sia pur non elevata a certezza, l'ipotesi che tra la famiglia Moro e le Brigate Rosse si fosse stabilito un cosiddetto 'canale di ritorno'". Cioè che le lettere dello statista fatte arrivare all'esterno possano avere avuto una risposta diretta e non solo attraverso i mass media. Una lettera indirizzata da Moro a Mennini, ma che il sacerdote non ricevette, e trovata tra le pagine dattiloscritte scoperte nel covo di via Monte Nevoso a Milano nel 1990, sembrava suggerire questa direzione.
Secondo Francesco Cossiga, nel 1978 ministro dell'Interno, Don Mennini entrò nel covo Br e lo confessò durante i 55 giorni. "Ho sempre creduto – affermò Cossiga- che don Antonello, allora suo confessore, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell'esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell'Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini. Io credo che le Br gli abbiano permesso di recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro. Almeno lo spero. Anche se Moro non ne aveva certo bisogno".
In realtà il telefono di don Mennini, come risulta da un rapporto della Digos agli atti del processo Moro, era già sotto controllo il 22 aprile 1978, cioè il giorno dopo aver consegnato alcune lettere fattegli recapitare da Moro e precedute da due telefonate del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci: una il 20 aprile e una, di controllo, la mattina del 21 aprile.
In questi anni monsignor Mennini ha mantenuto il riserbo sulla vicenda che lo ha coinvolto: “Sono sempre stato molto discreto quanto al rapporto che avevo con l’onorevole Moro – ha confermato al giornalista Gian Guido Vecchi -. In tante vicende, vuoi in Italia che altrove, la curiosità della gente, non di rado alimentata dai media, è spesso spinta in una ricerca quasi ossessiva di segreti, misteri non chiariti, fatti taciuti, per cui non ci si contenta mai di stare alla realtà dei fatti verificati e storicamente provati. Va quasi da sé che la tragica scomparsa dell’onorevole Moro, cui possiamo associare tante altre persone vittime innocenti della barbarie del terrorismo, resta una ferita ancora aperta: soprattutto, credo, nel cuore dei suoi famigliari, di quanti gli erano più vicini e lo hanno sinceramente amato, come pure di coloro che si sono trovati a dover compiere delle scelte terribili” (Corriere della Sera 27 dicembre 2010).
IL GOVERNO USA: “ABBIAMO UCCISO ALDO MORO”
Kissinger & Napolitano
di Gianni Lannes
«La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa».
Così parlò nel 2006 Steve Pieczenik, il consigliere di Stato USA, chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere la condizione di crisi, in un’intervista pubblicata in Francia dal giornalista Emmanuel Amara, nel libro Nous avons tué Aldo Moro. Ancora prima il 16 marzo del 2001 in una precedente dichiarazione rilasciata a Italy Daily, lo stesso Pieczenik disse che il suo compito per conto del governo di Washington era stato quello
«di stabilizzare l’Italia in modo che la Dc non cedesse. La paura degli americani era che un cedimento della Dc avrebbe portato consenso al Pci, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla Dc. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significa che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia».
Queste dichiarazioni di un esponente ufficiale del governo United States of America (assistente del segretario di Stato sotto Kissinger, Vance, Schultz, Baker) di dominio pubblico da tempo, anzi il 9 marzo 2008 sono peraltro state riportate dal quotidiano La Stampa ("Ho manipolato le br per far uccidere Moro"). E non sono mai state smentite da Cossiga e Andreotti. Ma allora, come mai la magistratura italiana, ovvero la procura della Repubblica di Roma, non convoca Steve Pieczenik? Proprio Pieczenik nei primi anni Settanta fu chiamato da Henry Kissinger a lavorare da consulente presso il ministero degli Esteri con l'approvazione di Nixon. Kissinger aveva minacciato di morte Aldo Moro. Kissinger ai giorni nostri è stato ricevuto come se niente fosse da Giorgio Napolitano, quello eletto da onorevoli illegittimi, che ha piazzato ben tre governi abusivi, ossia Monti, Letta, Renzi (sentenza della Corte costituzionale numero 1 del gennaio 2014) che il popolo "sovrano" non ha votato.
L'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni il 5 luglio 2005, in un'intervista nella trasmissione NEXT di Rainews24, disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli confidò, discutendo della difficoltà di trovare i covi delle BR, di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività che sarebbero potute essere d'aiuto nell'individuare i covi dei brigatisti. Galloni sostenne anche che vi furono parecchie difficoltà a mettersi in contatto con i servizi statunitensi durante i giorni del rapimento, ma che alcune informazioni potevano tuttavia essere arrivate dagli USA:
«Pecorelli scrisse che il 15 marzo 1978 sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia e si scoprì dopo che Moro doveva essere rapito il giorno prima (...) l'assassinio di Pecorelli potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare».
Lo stesso Galloni aveva già effettuato dichiarazioni simili durante un'audizione alla Commissione Stragi il 22 luglio 1998, in cui affermò anche che durante un suo viaggio negli USA del 1976 gli era stato fatto presente che, per motivi strategici (il timore di perdere le basi militari su suolo italiano, che erano la prima linea di difesa in caso di invasione dell'Europa da parte sovietica) gli Stati Uniti erano contrari ad un governo aperto ai comunisti come quello a cui puntava Moro:
«Quindi, l'entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, "life or death" come dissero, per gli Stati Uniti d'America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere».
La prigione di Aldo Moro, nel cuore di Roma, ovvero nel quartiere ebraico, ad un soffio da via Caetani dove il 9 maggio 1978 fu ritrovato il corpo senza vita dello statista, era ben nota al governo di allora (Cossiga e Andreotti). Il 16 marzo 1978 la strage di via Fani fu compiuta da uomini dei servizi segreti italiani. Era presente in loco il colonnello Guglielmi. Quei cosiddetti brigatisti rossi non sapevano neanche tenere in mano un'arma giocattolo, figuriamoci sparare con armi vere e assassinare due carabinieri e tre poliziotti. Mai come allora gli apparati di cosiddetta sicurezza italiana unitamente alle forze dell’ordine, mostrarono una così grande inettitudine voluta. I brigatisti grazie a una trattativa segreta con lo Stato tricolore sono oggi tutti liberi. Come se la spassano adesso Valerio Morucci (vari ergastoli), Mario Moretti (condannato a 6 ergastoli) e Barbara Balzerani? A proposito: le carte sulla vicenda Moro, in barba alla legge vigente, sono ancora sottoposte all’impermeabile segreto di Stato, nonostante i proclami propagandistici di Renzi. Anche per questo siamo una colonia a stelle e strisce, un’Italietta delle banane eterodiretta dall'estero, a sovranità inesistente.
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=ALDO+MORO
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=napolitano
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=kissinger
Kissinger & Napolitano |
di Gianni Lannes
«La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa».
Così parlò nel 2006 Steve Pieczenik, il consigliere di Stato USA, chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere la condizione di crisi, in un’intervista pubblicata in Francia dal giornalista Emmanuel Amara, nel libro Nous avons tué Aldo Moro. Ancora prima il 16 marzo del 2001 in una precedente dichiarazione rilasciata a Italy Daily, lo stesso Pieczenik disse che il suo compito per conto del governo di Washington era stato quello
«di stabilizzare l’Italia in modo che la Dc non cedesse. La paura degli americani era che un cedimento della Dc avrebbe portato consenso al Pci, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla Dc. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significa che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia».
Queste dichiarazioni di un esponente ufficiale del governo United States of America (assistente del segretario di Stato sotto Kissinger, Vance, Schultz, Baker) di dominio pubblico da tempo, anzi il 9 marzo 2008 sono peraltro state riportate dal quotidiano La Stampa ("Ho manipolato le br per far uccidere Moro"). E non sono mai state smentite da Cossiga e Andreotti. Ma allora, come mai la magistratura italiana, ovvero la procura della Repubblica di Roma, non convoca Steve Pieczenik? Proprio Pieczenik nei primi anni Settanta fu chiamato da Henry Kissinger a lavorare da consulente presso il ministero degli Esteri con l'approvazione di Nixon. Kissinger aveva minacciato di morte Aldo Moro. Kissinger ai giorni nostri è stato ricevuto come se niente fosse da Giorgio Napolitano, quello eletto da onorevoli illegittimi, che ha piazzato ben tre governi abusivi, ossia Monti, Letta, Renzi (sentenza della Corte costituzionale numero 1 del gennaio 2014) che il popolo "sovrano" non ha votato.
L'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni il 5 luglio 2005, in un'intervista nella trasmissione NEXT di Rainews24, disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli confidò, discutendo della difficoltà di trovare i covi delle BR, di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività che sarebbero potute essere d'aiuto nell'individuare i covi dei brigatisti. Galloni sostenne anche che vi furono parecchie difficoltà a mettersi in contatto con i servizi statunitensi durante i giorni del rapimento, ma che alcune informazioni potevano tuttavia essere arrivate dagli USA:
«Pecorelli scrisse che il 15 marzo 1978 sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia e si scoprì dopo che Moro doveva essere rapito il giorno prima (...) l'assassinio di Pecorelli potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare».
Lo stesso Galloni aveva già effettuato dichiarazioni simili durante un'audizione alla Commissione Stragi il 22 luglio 1998, in cui affermò anche che durante un suo viaggio negli USA del 1976 gli era stato fatto presente che, per motivi strategici (il timore di perdere le basi militari su suolo italiano, che erano la prima linea di difesa in caso di invasione dell'Europa da parte sovietica) gli Stati Uniti erano contrari ad un governo aperto ai comunisti come quello a cui puntava Moro:
«Quindi, l'entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, "life or death" come dissero, per gli Stati Uniti d'America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere».
La prigione di Aldo Moro, nel cuore di Roma, ovvero nel quartiere ebraico, ad un soffio da via Caetani dove il 9 maggio 1978 fu ritrovato il corpo senza vita dello statista, era ben nota al governo di allora (Cossiga e Andreotti). Il 16 marzo 1978 la strage di via Fani fu compiuta da uomini dei servizi segreti italiani. Era presente in loco il colonnello Guglielmi. Quei cosiddetti brigatisti rossi non sapevano neanche tenere in mano un'arma giocattolo, figuriamoci sparare con armi vere e assassinare due carabinieri e tre poliziotti. Mai come allora gli apparati di cosiddetta sicurezza italiana unitamente alle forze dell’ordine, mostrarono una così grande inettitudine voluta. I brigatisti grazie a una trattativa segreta con lo Stato tricolore sono oggi tutti liberi. Come se la spassano adesso Valerio Morucci (vari ergastoli), Mario Moretti (condannato a 6 ergastoli) e Barbara Balzerani? A proposito: le carte sulla vicenda Moro, in barba alla legge vigente, sono ancora sottoposte all’impermeabile segreto di Stato, nonostante i proclami propagandistici di Renzi. Anche per questo siamo una colonia a stelle e strisce, un’Italietta delle banane eterodiretta dall'estero, a sovranità inesistente.
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=ALDO+MORO
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=napolitano
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=kissinger
riferimenti:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=ALDO+MORO
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=napolitano
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=kissinger
BERGOGLIO RIAPRE IL "CASO MORO" E FA TESTIMONIARE IL NUNZIO ANTONIO MENNINI CHE, COME RIVELÒ NEL 2010 COSSIGA, ENTRÒ NEL COVO DELLE BR E CONFESSÒ ALDO MORO PRIMA CHE FOSSE UCCISO - PER BERGOGLIO ACCERTARE LA VERITÀ SERVE ANCHE AL VATICANO
Monsignor Antonio Mennini è figlio dell ex numero due dello Ior ai tempi di Marcinkus - E Bergoglio vuole che dica quello che sa sulla trattativa del Vaticano finita male per liberare lo statista dc davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso…
M. Antonietta Calabrò per il “Corriere della Sera”
Papa Francesco, in qualche modo, riapre il caso Moro. La decisione di far testimoniare l’ attuale nunzio apostolico nel Regno Unito, l’arcivescovo Antonio Mennini, lunedì prossimo, 9 marzo, davanti alla nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, è stata infatti presa direttamente da Bergoglio.
Francesco ha scelto di far prevalere la ricerca della verità sulle regole della immunità diplomatica di cui godono i nunzi, (gli ambasciatori vaticani), come del resto il personale diplomatico di tutti i paesi del mondo. Ed è stata sempre di Papa Francesco la decisione di far venire a Roma l’arcivescovo a deporre a San Macuto, sede della Commissione, senza che l’organismo parlamentare dovesse spostarsi in trasferta a Londra, ad ascoltarlo «a domicilio», in considerazione del suo status.
Si tratta di una svolta senza precedenti, visto che tra pochi giorni saranno esattamente trentasette anni dal rapimento dello statista democristiano. «Don Antonello», al tempo dei 55 giorni del sequestro Moro, era un giovane prete della diocesi di Roma (31 anni, viceparroco a Roma, nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Moro), e secondo quanto affermato dall’ex capo dello Stato Francesco Cossiga prima di morire (2010), sarebbe stato vicino a Moro durante la prigionia.
Lo avrebbe addirittura confessato e gli avrebbe impartito l’estrema unzione all’interno della prigione delle Br prima della uccisione.«Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini», disse Cossiga.
Secondo alcune ricostruzioni, il nunzio (figlio di Luigi allora numero 2 dello Ior, di cui era presidente Paul Marcinkus) sarebbe stato «il canale segreto» di comunicazione tra i terroristi e la Santa Sede (il pontefice era Paolo VI, amico personale di Moro) per tentare di salvare il prigioniero. Subito dopo la tragica conclusione del sequestro, Mennini fu destinato dal Vaticano alla carriera diplomatica e mandato all’estero: prima in Turchia, poi Bulgaria, Federazione Russa, Uzbekistan, infine Gran Bretagna (2010).
Monsignor Mennini non ha mai deposto. Il Vaticano, fino ad oggi, lo ha tenuto lontano dai tribunali e dalle precedenti Commissioni d’inchiesta.Il prelato del resto, anche per gli incarichi di grande responsabilità che ha sempre avuto nel corso della sua carriera, è stato lontano dai riflettori, tenendo un totale riserbo sulla vicenda: non si ricorda mai nessuna sua dichiarazione in relazione al sequestro brigatista.
Nelle ultime settimane, la svolta. Nello scorso mese di gennaio, Mennini è stato chiamato dalla Santa Sede e gli è stato detto di rendersi disponibile a deporre, concordando data e modalità dell’audizione con Giuseppe Fioroni,presidente della Commissione Moro che ha avviato i suoi lavori nell’ottobre 2014.
Le motivazioni di Papa Francesco non solo nel dare il disco verde all’audizione, ma in qualche modo a deciderla, dopo aver avuto la richiesta di Fioroni, sono state due. Innanzitutto aprire alla possibilità che nuova luce possa essere fatta sul caso, per collaborare con la giustizia. E poi la convinzione che solo il chiarimento di alcuni snodi importanti della storia italiana, permetteranno anche al Vaticano di voltare pagina.
Il nunzio Mennini resterà a Roma solo il tempo necessario per essere ascoltato, rientrando subito dopo in Inghilterra. Raggiunto dal Corriere non ha voluto in alcun modo commentare.
Vista la delicatezza della testimonianza, che comunque impegnerà molte ore, non si può escludere che essa venga secretata, anche perché potrebbe dare luogo a molti approfondimenti nella ricostruzione di una pagina fondamentale della storia del dopoguerra.
L’arcivescovo - come ha dichiarato il presidente Fioroni, quando ha annunciato che ci sarebbe stata l’audizione - è «l’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro». «Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto». «Con Bergoglio — aggiunge — adesso Mennini è libero di parlare».
M. Antonietta Calabrò per il “Corriere della Sera”
Papa Francesco, in qualche modo, riapre il caso Moro. La decisione di far testimoniare l’ attuale nunzio apostolico nel Regno Unito, l’arcivescovo Antonio Mennini, lunedì prossimo, 9 marzo, davanti alla nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, è stata infatti presa direttamente da Bergoglio.
Francesco ha scelto di far prevalere la ricerca della verità sulle regole della immunità diplomatica di cui godono i nunzi, (gli ambasciatori vaticani), come del resto il personale diplomatico di tutti i paesi del mondo. Ed è stata sempre di Papa Francesco la decisione di far venire a Roma l’arcivescovo a deporre a San Macuto, sede della Commissione, senza che l’organismo parlamentare dovesse spostarsi in trasferta a Londra, ad ascoltarlo «a domicilio», in considerazione del suo status.
Si tratta di una svolta senza precedenti, visto che tra pochi giorni saranno esattamente trentasette anni dal rapimento dello statista democristiano. «Don Antonello», al tempo dei 55 giorni del sequestro Moro, era un giovane prete della diocesi di Roma (31 anni, viceparroco a Roma, nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Moro), e secondo quanto affermato dall’ex capo dello Stato Francesco Cossiga prima di morire (2010), sarebbe stato vicino a Moro durante la prigionia.
Lo avrebbe addirittura confessato e gli avrebbe impartito l’estrema unzione all’interno della prigione delle Br prima della uccisione.«Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini», disse Cossiga.
Secondo alcune ricostruzioni, il nunzio (figlio di Luigi allora numero 2 dello Ior, di cui era presidente Paul Marcinkus) sarebbe stato «il canale segreto» di comunicazione tra i terroristi e la Santa Sede (il pontefice era Paolo VI, amico personale di Moro) per tentare di salvare il prigioniero. Subito dopo la tragica conclusione del sequestro, Mennini fu destinato dal Vaticano alla carriera diplomatica e mandato all’estero: prima in Turchia, poi Bulgaria, Federazione Russa, Uzbekistan, infine Gran Bretagna (2010).
Monsignor Mennini non ha mai deposto. Il Vaticano, fino ad oggi, lo ha tenuto lontano dai tribunali e dalle precedenti Commissioni d’inchiesta.Il prelato del resto, anche per gli incarichi di grande responsabilità che ha sempre avuto nel corso della sua carriera, è stato lontano dai riflettori, tenendo un totale riserbo sulla vicenda: non si ricorda mai nessuna sua dichiarazione in relazione al sequestro brigatista.
Nelle ultime settimane, la svolta. Nello scorso mese di gennaio, Mennini è stato chiamato dalla Santa Sede e gli è stato detto di rendersi disponibile a deporre, concordando data e modalità dell’audizione con Giuseppe Fioroni,presidente della Commissione Moro che ha avviato i suoi lavori nell’ottobre 2014.
Le motivazioni di Papa Francesco non solo nel dare il disco verde all’audizione, ma in qualche modo a deciderla, dopo aver avuto la richiesta di Fioroni, sono state due. Innanzitutto aprire alla possibilità che nuova luce possa essere fatta sul caso, per collaborare con la giustizia. E poi la convinzione che solo il chiarimento di alcuni snodi importanti della storia italiana, permetteranno anche al Vaticano di voltare pagina.
Il nunzio Mennini resterà a Roma solo il tempo necessario per essere ascoltato, rientrando subito dopo in Inghilterra. Raggiunto dal Corriere non ha voluto in alcun modo commentare.
Vista la delicatezza della testimonianza, che comunque impegnerà molte ore, non si può escludere che essa venga secretata, anche perché potrebbe dare luogo a molti approfondimenti nella ricostruzione di una pagina fondamentale della storia del dopoguerra.
L’arcivescovo - come ha dichiarato il presidente Fioroni, quando ha annunciato che ci sarebbe stata l’audizione - è «l’uomo che più di tutti fu spiritualmente vicino ad Aldo Moro». «Tanti i punti che potrà affrontare: il suo ruolo in quei giorni, i suoi contatti, l’impegno enorme di Paolo VI ad avviare una trattativa per restituire Moro vivo al Paese e alla sua famiglia e perché questo tentativo non andò in porto». «Con Bergoglio — aggiunge — adesso Mennini è libero di parlare».
Il nunzio Mennini torna a testimoniare sul caso Moro
All'epoca del sequestro era viceparroco e ricevette lettere dello statista. Fu ascoltato dai magistrati, dalla Commissione parlamentare d'inchiesta nel 1980 e a uno dei processi sul rapimento e l'uccisione del politico Dc. Cossiga ipotizzò che avesse incontrato il prigioniero nel covo delle Br
ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
Il nunzio apostolico in Gran Bretagna, l'arcivescovo Antonello Mennini, sarà ascoltato lunedì 9 marzo dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, che ha avviato i suoi lavori nell'ottobre scorso. Il prelato deporrà a Roma, con l'autorizzazione dei superiori della Segreteria di Stato (il Papa, assicurano autorevoli fonti vaticane, non è stato coinvolto in alcun modo nella decisione). Non è la prima volta che «don Antonello» viene ascoltato in merito al ruolo che ha svolto nei giorni del sequestro.
Mennini, uno degli undici figli di un importante dirigente dello Ior, era stato allievo di Moro all'università e al tempo dei 55 giorni di prigionia del presidente democristiano era viceparroco della chiesa di Santa Lucia al quartiere Trionfale. Il suo ruolo emerge da alcune intercettazioni telefoniche. Fece da tramite per trasmettere alcune lettere scritte dallo statista e indirizzate a varie persone. Si è sempre ipotizzato che durante il sequestro avesse potuto incontrare Moro nel covo delle Brigate Rosse e addirittura confessarlo e impartirgli l'estrema unzione prima dell'uccisione. Di questo si è sempre detto convinto Francesco Cossiga (all'epoca ministro dell'Interno): «Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini».
L'audizione di lunedì non è affatto una prima assoluta. Don Mennini, che all'epoca dei fatti era un semplice sacerdote della diocesi di Roma venne ascoltato dagli inquirenti - il 2 giugno 1978 e il 12 gennaio 1979 - e comparve davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro il 22 ottobre 1980. Nel 1981 entrò a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede, diventando arcivescovo nel 2002 come rappresentante del Papa nella Federazione Russa. Da Benedetto XVI è stato poi trasferito alla nunziatura in Gran Bretagna. Fin dalle prime testimonianze rese davanti ai magistrati inquirenti don Antonello aveva ammesso di aver ricevuto durante rapimento comunicazioni telefoniche e scritti su segnalazione del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci, che aveva prelevato nei luoghi indicati e consegnato alla famiglia Moro.
Davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta, don Mennini «non fu per nulla reticente», ma venne «chiamato a rispondere più per un coinvolgimento derivante da intercettazioni telefoniche che non per il sospetto di esser stato tramite, sequestro in corso, di un contatto tra il prigioniero e il mondo esterno». Ha sempre negato di aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini, dove lo statista fu rinchiuso durante i 55 giorni del sequestro.
Una svolta nella vicenda fu determinata, nell'ottobre 1990, dal ritrovamento di decine di lettere di Moro nel covo brigatista di via Monte Nevoso, nascoste dietro una parete di cartongesso. Da questo memoriale erano emerse corrispondenze tra Moro e il giovane sacerdote che «testimoniavano un coinvolgimento enormemente superiore a quello ipotizzato». Nel 1993 venne anche ascoltato come testimone durante uno dei processi sul caso Moro, affermando di non aver ricevuto altre lettere rispetto a quelle conosciute.
Nel 1995 Mennini, con una lettera, formalizzò il suo rifiuto a comparire davanti alla nuova Commissione parlamentare d'inchiesta, dichiarando di non avere nulla da aggiungere rispetto a quanto da lui già riferito in sede giudiziaria ed alla prima Commissione Moro. Nessuno dei brigatisti coinvolti nel sequestro e nelle trattative che vi furono in quei giorni ha mai confermato la presenza di Mennini accanto a Moro. In particolare Mario Moretti, l'ha categoricamente negato affermando: «Figurarsi se facessimo venire una persona qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato con un sacerdote, perché fa cinema. Non è mai successo».
Don Mennini durante i giorni del sequestro si assentò da Roma per una settimana, partecipando a un pellegrinaggio a Lourdes. Dal memoriale Moro risulta che lo statista pensò di rivolgersi a lui attorno al 20 aprile, ritenendo che il precedente canale utilizzato fosse ormai bruciato dai controlli della polizia. Dalle lettere del sequestrato si comprende che riteneva il sacerdote non solo un utile canale per far pervenire le sue lettere, cosa che effettivamente avvenne, ma anche interlocutore al quale poter rivolgere delle domande e attraverso il quale ricevere degli scritti dall'esterno.
In una lettera indirizzata a don Antonello, non recapitata ma scritta intorno al 24 aprile, Moro oltre a scusarsi del fatto di approfittare «così spesso di te» - don Mennini aveva già consegnato le lettere del prigioniero il 20 e il 24 aprile - gli chiede di raccogliere «notizie sulla salute di casa» e di tenersi «pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero scrivere qualche rigo? tramite te?». In una successiva missiva a don Antonello, non recapitata ma scritta dopo il 25 aprile, Moro ritiene possibile addirittura «chiamare»” il sacerdote e «consegnargli il pacchetto» in cui ha riunito le lettere ai familiari affinché le tenga intanto per sé e le consegni alla moglie a tempo debito, dopo avergliene parlato solo ed esclusivamente a voce.
In sede di Commissione Stragi il presidente Giovanni Pellegrino concluse che «il complesso delle acquisizioni conferma» l'esistenza di un canale di ritorno, e riguardo all'identità di colui che faceva da tramite ritenne «certi almeno contatti di don Mennini, se non direttamente con Moro prigioniero, con i brigatisti o con loro emissari».
ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
Il nunzio apostolico in Gran Bretagna, l'arcivescovo Antonello Mennini, sarà ascoltato lunedì 9 marzo dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, che ha avviato i suoi lavori nell'ottobre scorso. Il prelato deporrà a Roma, con l'autorizzazione dei superiori della Segreteria di Stato (il Papa, assicurano autorevoli fonti vaticane, non è stato coinvolto in alcun modo nella decisione). Non è la prima volta che «don Antonello» viene ascoltato in merito al ruolo che ha svolto nei giorni del sequestro.
Mennini, uno degli undici figli di un importante dirigente dello Ior, era stato allievo di Moro all'università e al tempo dei 55 giorni di prigionia del presidente democristiano era viceparroco della chiesa di Santa Lucia al quartiere Trionfale. Il suo ruolo emerge da alcune intercettazioni telefoniche. Fece da tramite per trasmettere alcune lettere scritte dallo statista e indirizzate a varie persone. Si è sempre ipotizzato che durante il sequestro avesse potuto incontrare Moro nel covo delle Brigate Rosse e addirittura confessarlo e impartirgli l'estrema unzione prima dell'uccisione. Di questo si è sempre detto convinto Francesco Cossiga (all'epoca ministro dell'Interno): «Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini».
L'audizione di lunedì non è affatto una prima assoluta. Don Mennini, che all'epoca dei fatti era un semplice sacerdote della diocesi di Roma venne ascoltato dagli inquirenti - il 2 giugno 1978 e il 12 gennaio 1979 - e comparve davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro il 22 ottobre 1980. Nel 1981 entrò a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede, diventando arcivescovo nel 2002 come rappresentante del Papa nella Federazione Russa. Da Benedetto XVI è stato poi trasferito alla nunziatura in Gran Bretagna. Fin dalle prime testimonianze rese davanti ai magistrati inquirenti don Antonello aveva ammesso di aver ricevuto durante rapimento comunicazioni telefoniche e scritti su segnalazione del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio Morucci, che aveva prelevato nei luoghi indicati e consegnato alla famiglia Moro.
Davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta, don Mennini «non fu per nulla reticente», ma venne «chiamato a rispondere più per un coinvolgimento derivante da intercettazioni telefoniche che non per il sospetto di esser stato tramite, sequestro in corso, di un contatto tra il prigioniero e il mondo esterno». Ha sempre negato di aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini, dove lo statista fu rinchiuso durante i 55 giorni del sequestro.
Una svolta nella vicenda fu determinata, nell'ottobre 1990, dal ritrovamento di decine di lettere di Moro nel covo brigatista di via Monte Nevoso, nascoste dietro una parete di cartongesso. Da questo memoriale erano emerse corrispondenze tra Moro e il giovane sacerdote che «testimoniavano un coinvolgimento enormemente superiore a quello ipotizzato». Nel 1993 venne anche ascoltato come testimone durante uno dei processi sul caso Moro, affermando di non aver ricevuto altre lettere rispetto a quelle conosciute.
Nel 1995 Mennini, con una lettera, formalizzò il suo rifiuto a comparire davanti alla nuova Commissione parlamentare d'inchiesta, dichiarando di non avere nulla da aggiungere rispetto a quanto da lui già riferito in sede giudiziaria ed alla prima Commissione Moro. Nessuno dei brigatisti coinvolti nel sequestro e nelle trattative che vi furono in quei giorni ha mai confermato la presenza di Mennini accanto a Moro. In particolare Mario Moretti, l'ha categoricamente negato affermando: «Figurarsi se facessimo venire una persona qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato con un sacerdote, perché fa cinema. Non è mai successo».
Don Mennini durante i giorni del sequestro si assentò da Roma per una settimana, partecipando a un pellegrinaggio a Lourdes. Dal memoriale Moro risulta che lo statista pensò di rivolgersi a lui attorno al 20 aprile, ritenendo che il precedente canale utilizzato fosse ormai bruciato dai controlli della polizia. Dalle lettere del sequestrato si comprende che riteneva il sacerdote non solo un utile canale per far pervenire le sue lettere, cosa che effettivamente avvenne, ma anche interlocutore al quale poter rivolgere delle domande e attraverso il quale ricevere degli scritti dall'esterno.
In una lettera indirizzata a don Antonello, non recapitata ma scritta intorno al 24 aprile, Moro oltre a scusarsi del fatto di approfittare «così spesso di te» - don Mennini aveva già consegnato le lettere del prigioniero il 20 e il 24 aprile - gli chiede di raccogliere «notizie sulla salute di casa» e di tenersi «pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero scrivere qualche rigo? tramite te?». In una successiva missiva a don Antonello, non recapitata ma scritta dopo il 25 aprile, Moro ritiene possibile addirittura «chiamare»” il sacerdote e «consegnargli il pacchetto» in cui ha riunito le lettere ai familiari affinché le tenga intanto per sé e le consegni alla moglie a tempo debito, dopo avergliene parlato solo ed esclusivamente a voce.
In sede di Commissione Stragi il presidente Giovanni Pellegrino concluse che «il complesso delle acquisizioni conferma» l'esistenza di un canale di ritorno, e riguardo all'identità di colui che faceva da tramite ritenne «certi almeno contatti di don Mennini, se non direttamente con Moro prigioniero, con i brigatisti o con loro emissari».
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IOR, MAMMETA E TU - IN NOME DELLA TRASPARENZA SONO GIÀ STATI CHIUSI SETTECENTO CONTI LAICI PRESSO LA “BANCA DI DIO” MA ORA SOTTO ESAME C’È IL TESORO DEGLI ISTITUTI RELIGIOSI - SI PARLA DI OLTRE UN MILIARDO DI EURO
Quel che rimane nei conti dello Ior aperti, circa 19mila, si stima ammonti a una dozzina di miliardi di euro tra beni in gestione e depositi - Ma anche su questo ammontare, si stima che un 10-15% delle somme non sarebbe perfettamente regolare: oltre un miliardo dunque…
Andrea Greco e Paolo Rodari per “la Repubblica”
L’accordo fiscale in arrivo tra l’Italia e il Vaticano ha un importante annesso: prepara il terreno perché lo Ior, la banca del Papa, torni interamente nel solco della Chiesa. Una banca trasparente che intermedia il denaro di chiese locali, congregazioni, singoli ecclesiastici in tutto il mondo. Tutti gli altri, privati cittadini che hanno usato il privilegio vaticano per evadere il fisco, o architettare operazioni criminose, dovranno passare per una delle tre porte vaticane e mettersi in regola.
Molti di loro sono italiani: in base a dati dell’Istituto opere di religione, del luglio scorso, circa 3mila conti correnti erano stati chiusi per la decisione di restringere i paletti che danno diritto a esserne clienti (presa l’anno prima). Di questi 3mila, 755 erano di clienti “laici”. Quel che rimane nei conti dello Ior aperti, circa 19mila, si stima ammonti a una dozzina di miliardi di euro tra beni in gestione e depositi.
Ma anche su questo ammontare, si stima che un 10-15% delle somme non sarebbe perfettamente regolare: oltre un miliardo dunque. «Spesso sono depositi cresciuti perché venivano accreditati interessi di attività delle congregazioni e chiese locali, ma senza dichiararlo correttamente nei paesi d’origine, quindi su quei frutti non sono state pagate imposte», racconta un esponente della finanza vaticana.
Spesso si tratta di situazioni difficili, perché ogni congregazione o istituto religioso agisce in modo differente. Vi sono, ad esempio, istituti che hanno ospedali all’estero che fanno profitto e che per questo profitto pagano le tasse nel paese in cui gli ospedali hanno sede. Questo profitto, versato su un conto Ior, viene poi mandato, magari in parte, in Africa per aiutare un centro profughi o altre realtà.
Per quattro quinti di quel miliardo “irregolare”, comunque, si tratta di affari (e di mancate tasse) dello Stato italiano. «È stato depositato in forma sbagliata — racconta la fonte — o perché in seguito a donazioni si permetteva di aprire conti a gente che non ne aveva il diritto, o perché i soldi arrivavano come devoluzioni, poi si scopriva che non erano tali. Ora serve un accordo tra stati sovrani per sanare la situazione, e trovare un meccanismo di rimpatrio». Rimpatriare denaro dai paradisi fiscali è infatti illegale, complesso e rischioso, se mancano norme di passaggio.
Uscire dal Vaticano con la classica “valigetta” dà molto nell’occhio, e in caso di controlli della Guardia di finanza potrebbe mettere a rischio anche i vertici dell’istituto. Né è possibile farsi trasferire, tout court, i soldi su un’altra banca, perché scatterebbe automaticamente l’avviso alla vigilanza, e da lì alla procura. Per queste ragioni, si potrebbe scommettere che quei 755 conti laici chiusi fin qui abbiano visto i fondi involarsi in altri paradisi fiscali; magari quelli asiatici, non ancora sfiorati dal vento riformatore che sta facendo cadere i muri del segreto in Svizzera, Lichtenstein, Monaco.
Presto cadrà anche il muro della banca vaticana, dove in passato si è contrabbandata la libertà della libera chiesa, garantita dai Patti lateranensi, con quella di rendere i soldi opachi e invisibili. «Si è scambiata la riservatezza con la segretezza», dice la fonte. E segreto poteva voler dire illecito. Sui conti dello Ior Roberto Calvi e Paul Marcinkus intrecciarono la rete di società fantasma protagoniste della finanza d’assalto degli anni Ottanta. Su un conto allo Ior Luigi Bisignani fece transitare i 108 miliardi di lire in Cct serviti a pagare la maxi tangente Enimont ai partiti della Prima repubblica.
Sono passati 25 anni, papa Benedetto XVI e papa Francesco hanno aperto alla riforma dei costumi e delle finanze vaticani. E anche fuori dalle mura leonine molto è cambiato: la minaccia terrorista e la crisi economica hanno tolto all’Occidente la voglia e il lusso di mantenere paradisi fiscali nei propri confini. Il Vaticano, anche se per motivi meno prosaici degli altri, rimane per certi aspetti uno di questi.
«Anche per lo Ior servirà una sorta di scudo — spiega un banchiere che conosce bene la materia —, che regolarizzi gli errori e le sviste del passato». Ed è principalmente per arrivare a delle linee guida che permettano al Vaticano e all’Italia di sapere come comportarsi che l’accordo annunciato da Matteo Renzi e confermato ieri da padre Lombardi è in dirittura d’arrivo.
IL GIORNALE PUBBLICA L'INTERVISTA A PAOLO CIPRIANI - DIRETTORE GENERALE DELLO IOR - CON LA FOTO DI PAOLO CIPRIANI - DG DI ACLI TERRE
Qualsiasi sia l’esito della trattativa, una cosa è certa: i tempi in cui il Vaticano negava una risposta alle rogatorie e alle informazioni è finito. Il percorso di trasparenza è ormai ineludibile, e molto lo si deve a Benedetto XVI, che per primo istituì l’Aif, l’autorità d’informazione finanziaria che vigila su eventuali irregolarità all’interno delle finanze vaticane. La strada della trasparenza nello Ior riguarda anche il settore nomine.
Da ieri, infatti, la «banca vaticana» ha un nuovo vicedirettore: è stata formalizzata da parte del Consiglio di sovrintendenza dell’Istituto (il board laico) la nomina di Gianfranco Mammì all’incarico vacante dal 2013, da quando cioè è uscito di scena Massimo Tulli, a motivo dell’inchiesta che lo aveva coinvolto insieme all’allora direttore generale Paolo Cipriani.
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