Summorum Pontificum. Perché fallì l’Operazione fregatura della Tradizione?
Nelle stesse ore in cui Francisco preparava l’ormai mitica borsa nera (in eco pelle?) per la photo hopportunity sulla scaletta dell’aereo che lo avrebbe portato a masticare coca in Sud America, nella regale cornice del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, l’Emerito Card. Joseph Ratzinger riceveva, con tutta la pompa di un regnante pontefice, due lauree honoris causa, assegnategli da sconosciuti atenei polacchi e teneva, sotto lo sguardo amorevole di quel sant’uomo di Stanislaw Dziwisz, un discorso di ringraziamento nel quale tornava a toccare tutti i temi a lui cari: l’ermeneutica del Concilio, la riforma liturgica, la musica sacra come prova di verità del cristianesimo.
Nulla di nuovo. Ribadiva cose dette e scritte negli ultimi trent’anni ma, in tempi di ‘magistero liquido’, le sue parole sono giunte come una salutare boccata d’ossigeno, specie a tanti miei amici ‘benedettiani’ che, da sincere vedove inconsolabili, hanno immediatamente rilanciato sui loro siti, blog e social network, fotografie e stralci del discorso con corollario di lacrimevoli “Grazie Santità”, “Benedetto, Papa per sempre”, “Ci manchi” et similia.
So di deluderli tutti con questa breve riflessione ma, veramente, non se ne può più! La propongo, non a caso, in questo giorno che, alla maggioranza dell’orbe cattolico non ricorderà assolutamente nulla, ma che proprio per loro è quasi un secondo compleanno. Otto anni fa, alle ore 12.00 del 7 luglio 2007, la Sala Stampa della Santa Sede pubblicava il testo del già annunciato Motu Proprio ‘Summorum Pontificum’ sulla liberalizzazione del mai abrogato Missale Romanum in vigore fino al 1965.
Perché collego questi due eventi così diversi e distanti tra loro? Perché ho ritrovato nelle sue parole di sabato scorso la stessa mens che concepì quell‘atto di misericordia’ come un’operazione teologica furba e sottile. Un atto che, dietro la cortina fumogena di motivazioni ufficiali ed ufficiose, celava il vero e mai dichiarato obiettivo: “fregare” i tradizionalisti; riportarli ‘formalmente’ a casa per poi “normalizzarli” inserendoli nell’imprescindibile dinamica (evolutiva) dell’ermeneutica della riforma nella continuità del soggetto Chiesa. Un’operazione che solo lui, il geniale perito conciliare che, per sua stessa ammissione, è rimasto sempre lo stesso[1] (modernista[2]), poteva elaborare. Un’operazione di così alto livello intellettuale che, neppure gli “ermeneuti di rottura” hanno capito, sempre dominati, come sono, dalla cupio dissolvi di tutto ciò che ricorda il “prima”; perciò non l’hanno lasciato lavorare, lo hanno ostacolato con tutti i mezzi, non rendendosi conto, almeno i più, che il ‘professor Ratzinger’ aveva messo a punto il “giochino” per vincere la partita combattuta per cinquant’anni contro gli odiati reazionari, integralisti, integristi, conservatori, ecc. ecc.
I miei amici “benedettiani” staranno, già, schiumando davanti allo schermo ma la verità, almeno per me, è questa. Di quale “riforma della riforma” parlate ancora? di quale “restaurazione liturgica”? Ed infine, di quale “pacificazione in seno alla chiesa”? Cari amici, ricordate cosa disse Benedetto, sull’aereo che, nel settembre 2008, lo portava in visita pastorale in Francia[3]?
Gli chiesero di rassicurare coloro che temevano che il Summorum Pontificum rappresentasse un ritorno indietro rispetto “alle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II” e lui fu prontissimo a replicare che il Motu Proprio era stato “semplicemente un atto di tolleranza, a fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa”. Insomma, indietro non si tornava. Punto. Un’ultima conferma venne, poi, il 14 febbraio 2013, quando, incontrando per l’ultima volta da Papa, i Parroci di Roma[4], nell’Aula Paolo VI, dopo aver dichiarato di voler restare da lì in poi, come si è visto, chiuso in preghiera e nascosto al mondo, descrisse – con la delicatezza che forse solo Enzo Bianchi saprebbe usare – la liturgia antica come una ricchezza preclusa ai fedeli perché chiusa nel messale; un’esclusiva del prete e del chierichetto che rimaneva lontana dal cuore del popolo. Bisognava, perciò, lodare all’infinito l’azione di quel Movimento Liturgico che aveva rimosso questi ostacoli e ci aveva poi donato, grazie al Concilio (cioè a Bugnini) una “rinnovata liturgia”.
Contraddizioni? Malafede? Io non credo. Anzi, sono convinto al contrario che, nella mente del Papa tutto si sia sviluppato in modo razionale, logico e coerente con il suo pensiero di brillante professore di teologia, d’intellettuale moderno, amante del bello, dell’arte e, come si sa, della musica. Un uomo, un teologo veramente convinto che quella teologia di rottura per la quale aveva parteggiato negli anni giovanili potesse davvero svilupparsi, non in radicale opposizione ma in organico sviluppo alla Tradizione bimillenaria, approfondendola e mettendo in luce gli aspetti più consoni ai tempi. Qui, è caduto.
Un docente universitario come lui è abituato, infatti, a formulare tesi; ad esporle in voluminosi trattati in cui tutto, seguendo i fili di un ragionamento che sulla carta non può trovare ostacoli, si sviluppa giungendo felicemente alle desiderate conclusioni. Un professore è abituato a parlare ad un’aula che lo ascolta e che anche quando le permette il dibattito, ne tira le conclusioni. Il pensiero teologico di Ratzinger, altri lo hanno studiato ed illustrato a dovere, non s’impernia sul concetto di “Tradizione Viva[5]”, ma di “Tradizione vivente[6]”. Non accetta, dunque, l’immutabilità: ecco perché, anche nelle parole pronunciate a Castel Gandolfo, ritroviamo quella inesausta volontà di riuscire a conciliare gli opposti, a cercare di congiungere ciò che è diviso, pur nella consapevolezza della “drammatica tensione”[7] che vi è presente.
Una tensione che nelle pagine del Motu Proprio egli ha creduto di poter risolvere con la trovata delle “due forme dell’unico Rito” e di quella scampata calamità che sarebbe stato l’auspicato dialogo fra i due riti per un arricchimento vicendevole. Il presagio, forse, di un Novissimus Ordo.
“È rimasto sempre un professore”, ho sentito dire molte volte prima e dopo le dimissioni e credo che sia stato da qui, da un’errata fiducia nella possibilità di trasferire un parto intellettuale in un atto di governo, che sia scaturito il fallimento di quella che, ironicamente, si potrebbe definire “Operazione fregatura della Tradizione”. Quanta sia stata effimera è, ormai, cronaca quotidiana.
p.s. Nel discorso di Castel Gandolfo, citando i nomi di Palestrina, Bach, Händel, Mozart, Beethoven e Bruckner, il cardinale Ratzinger ha affermato: “La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture (….) Non conosciamo il futuro della nostra cultura e della musica sacra. Ma una cosa è chiara: dove realmente avviene l’incontro con il Dio vivente che in Cristo viene verso di noi (il Santo Sacrificio della Messa, n.d.r.), lì nasce e cresce nuovamente anche la risposta, la cui bellezza proviene dalla verità stessa”. Ratzinger, Papa, ha reso onore a questa musica affidando la gloriosa Cappella Sistina a Palombella….
di Daniele Casi
[1] «Non sono cambiato io, sono cambiati loro» rispose a Vittorio Messori che gli riportava le critiche spesso virulente rivoltegli contro dai suoi ex colleghi teologi. Kung in testa. http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/04_Aprile/20/messori.html
[2] Sulla ‘continuità’ del modernismo ratzingeriano, rimando all’interessante studio di mons. Bernard Tissier de Mallerais, “La strana teologia di Benedetto XVI. Ermeneutica di continuità o rottura?” Ichthys, 2012
[3] È una paura infondata perché questo Motu proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l’amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un’esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c’è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia. Ogni giorno (del Concilio, n.d.r.) i padri conciliari hanno celebrato la messa secondo l’antico rito e, al contempo, hanno concepito uno sviluppo naturale per la liturgia in tutto questo secolo, poiché la liturgia è una realtà viva che si sviluppa e conserva nel suo sviluppo, nella sua identità. Ci sono dunque sicuramente accenti diversi, ma comunque un’identità fondamentale che esclude una contraddizione, un’opposizione tra la liturgia rinnovata e la liturgia precedente. Credo in ogni caso che vi sia una possibilità di arricchimento da ambedue le parti. Da un lato gli amici dell’antica liturgia possono e devono conoscere i nuovi santi, le nuove prefazioni della liturgia, ecc…. dall’altra, la liturgia nuova sottolinea maggiormente la partecipazione comune ma sempre… non è semplicemente un’assemblea di una certa comunità, ma sempre un atto della Chiesa universale, in comunione con tutti i credenti di tutti i tempi, e un atto di adorazione. In tal senso mi sembra che vi sia un mutuo arricchimento, ed è chiaro che la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo. http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2008/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20080912_francia-interview.html
[4]Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia. http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130214_clero-roma.html
[5] http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV280_Don-Petrucci_Fede_e_Tradizione.html
[6] Brunero Gherardini, “Quod et tradidi vobis. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa”, Casa Mariana, Frigento 2010
[7] http://www.fondazioneratzinger.va/content/fondazioneratzinger/it/news/notizie/rimandi-news/dottorato-honoris-causa-a-benedetto-xvi.html
Qualche parola sull’ultimo discorso di Benedetto XVI. Di Mattia Rossi
di Mattia Rossi
Sta letteralmente impazzando tra i ratzingeriani (ovvero coloro che, più o meno sinceramente, si ostinano a voler vedere in Joseph Ratzinger/Benedetto XVI il paladino della Tradizione cattolica) l’ultimo discorso pubblico dell’attuale “papa emerito”. Tema: la musica sacra e liturgica.
Sembra quasi di udirli, i conservatori conciliari con gli occhi coperti di fette di ermeneuticadellacontinuità: “Ecco, finalmente Benedetto XVI le ha cantate chiare e tonde sulla musica sacra e sulla corretta attuazione del Concilio”. Non volendo oltremodo infierire su farneticazioni canicolari varie, propongo una lettura di alcuni punti del discorso ratzingeriano con qualche commento (si spera cattolico).
Inizio con i botti polacchi: «Con il suo esempio vivo [Ratzinger si riferisce a “san” Giovanni Paolo II] egli ci ha anche mostrato come possano andare mano nella mano la gioia della grande musica sacra e il compito della partecipazione comune alla sacra liturgia». Sicuro del fatto che contra factum non valet argumentum, propongo al lettore una rapida ricerca su YouTube al fine di tastare con mano l’attenzione di Woytjla alla «grande musica sacra» durante le sue “Messe” show.
Il punto più interessante, però, viene immediatamente dopo, quando Ratzinger comincia a parlare dell’ormai vomitevole tema della partecipazione attiva e al significato e ruolo della musica sacra nella liturgia. Nell’ottica ratzingeriana e conciliare – recido, qui, tutte le apologie del Concilio e delle sue riforme – essa non è più quell’elemento consegnato dalla Chiesa e inserito nella celebrazione del Santo Sacrificio affinché esso si ammanti ulteriormente di gloria e prestigio. No, perché facendo del canto della Messa (e non nella Messa) il feticcio attraverso il quale si attua pienamente il Concilio, si viene a sposare un’idea para-protestante: ovverosia un sacerdote non più autonomo in quanto agente in persona Christi ma in un perenne orizzontale dialogo inter pares con l’assemblea cantante.
Ma, allora, secondo la tradizione cattolica, qual è lo scopo della musica sacra? Non di certo far cantare l’“assemblea celebrante”. Su questo, Concilio, Ratzinger e ratzingeriani dovrebbero fare i conti con Pio XII, ad esempio, che nell’enciclica Musicae sacrae disciplina scrive: «Essa [la musica], dunque, nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme col popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro» (II).
Quindi: abbellire il canto del sacerdote, rispondergli (questo certamente, è ovvio) e, quindi, «rendere più splendido» tutto il Santo Sacrificio della Messa. Il quale, al contrario di quanto pensa il Concilio (e Ratzinger), rimarrebbe altrettanto splendido anche se il popolo non cantasse affatto e lasciasse le risposte in canto alla schola o ai ministri. E non mi addentro, naturalmente, sul capitolo riguardante tutta la cloaca di canti liberi, cioè quelli di libera composizione, postconciliari, sui quali non basterebbe un articolo.
Giusto a completezza, invito a leggere Pio X e il suo motu proprio Inter sollicitudines, grazia al quale riusciamo ad avere una visione più completa: «La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli. Essa concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesiastiche, e siccome suo officio principale è dì rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto all’intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinché i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri».
Anche qui: il fine è chiaro (la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli), chiaro è anche lo scopo che la musica deve avere (accrescere lo splendore del rito), ma interessante è una piccolissima precisazione: la musica propone «all’intelligenza dei fedeli» affinché essi siano maggiormente disposti interiormente ad accogliere la grazia che proviene dalla celebrazione del Sacrificio. Questa, per il magistero cattolico, è la vera “partecipazione” dei fedeli.
A questo punto, allora, è chiaro come sia mutato drasticamente il fine della musica sacra e liturgica; ma non solo quello, pure la sua origine. Ratzinger, infatti, nel suo discorso, individua tre «luoghi da cui scaturisce la musica». Li riporto perché i mantra che vi si ripropongono fanno tristemente sorridere: «Una sua prima scaturigine è l’esperienza dell’amore», «una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza», «infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino».
Occorre sottolinearli? L’“esperienza” e l’“incontro”. Tutto è ribaltato. Ma la Chiesa, ammantando il rito di una musica estremamente rigida e codificata (il canto gregoriano), ha sempre insegnato il contrario e cioè che è Dio, il quale non ha bisogno della nostra lode, che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo Spirito. La musica sacra è per il cattolico una musica che dal Cielo discende sulla terra ed è in grado di infondere la gioia e la speranza nel cuore come la cetra di Davide calmava lo «spirito cattivo» di Saul e lo trasformava in un altro uomo (1Sam 16, 14-23). Va bene l’amore, la tristezza e l’incontro, ma essi vanno rovesciati: vengono da Dio e non dall’uomo.
Non solo: Ratzinger arriva addirittura a sostenere che «la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore». Ebbene, dove non era riuscito ad arrivare nemmeno il Vaticano II, ovvero assoggettare così esplicitamente e candidamente la musica sacra alle sensazioni umane, arriva ora colui che si vorrebbe far credere essere il paladino della Tradizione.
Solo una cosa: noi possiamo accettare tutto, ma che, almeno, questa integrità tradizionale del “papa emerito” la si dimostri.
P.s.: Ah, dimenticavo: Bach, inarrivabile compositore – sono il primo a dirlo – ma additato da Ratzinger come supremo modello di musica liturgica, era protestante e musicava i corali di Lutero. Ecco, appunto.
http://radiospada.org/2015/07/qualche-parola-sullultimo-discorso-di-benedetto-xvi-di-mattia-rossi/
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