Papa Francesco, con la sua opposizione all’intervento americano in Siria contro Assad e la condanna dei produttori d’armamenti, sembrava condividere la posizione dei pacifisti assoluti, contrari a qualsiasi uso della forza militare. I massacri dei cristiani in Medio Oriente e in Africa gli hanno fatto cambiare idea o, almeno hanno mutato i suoi toni. Con la cautela che contraddistingue ogni atto del Papato, il cambiamento è stato sfumato. Tanto da sembrare ambiguo. Il Papa ha affermato che i massacri vanno fermati e che la comunità internazionale ha la responsabilità di proteggere i cristiani e le altre minoranze religiose. Non deve essere indifferente alla loro sorte.
Come? A quale comunità internazionale si riferisce il Papa? Sono interrogativi essenziali. Il Vaticano ha precisato che i massacratori di cristiani vadano fermati, ma non che vadano bombardati. E allora che si fa? L’intervento, secondo il Papa, dovrebbe essere sempre autorizzato e, possibilmente, gestito. Aspetta e spera! L’ONU è quello che è. La “responsabilità di proteggere”, invocata da quello che ritengo un vero e proprio criminale di guerra per l’azione svolta in Libia nel 2011, Bernard-Henry Lévy, è divenuta una barzelletta quasi macabra. L’ONU non è in grado di decidere se l’intervento non corrisponde agli interessi nazionali dei membri permanenti. Al massimo, legittimerà “ex-post” l’intervento di una coalizione, che sarà necessariamente a guida americana.
Comunque sia, Papa Francesco ha, in un certo senso, aggiustato il tiro. Ha adottato la posizione di Giovanni Paolo II nella prima guerra del Golfo.
Il Papa polacco aveva allora affermato di non essere pacifista, ma di essere per la pace. Ancor più netta era stata la sua posizione per la Bosnia. Riguardo all’intervento della NATO in quel paese, si era verificato uno vero e proprio “miracolo ornitologico”: le “colombe”, cioè i pacifisti, si erano trasformate in “falchi”. Invocavano l’intervento militare per fare cessare le stragi. Invece, i militari, che dovrebbero essere falchi, o che sono comunque pagati per farlo, erano molto restii a intervenire, essendo preoccupati di coinvolgersi nel ginepraio balcanico.
Papa Francesco, abbandonando lo spirito profetico del “mai più guerre” – che ha sostituito l’antico “chi di spada ferisce, di spada perisce” – ha così ripreso il tradizionale pensiero della Chiesa Cattolica nei riguardi dell’uso della forza, conosciuta come “dottrina della guerra giusta”. Dopo aver avuto la sua prima formulazione con Sant’Agostino e San Tommaso, essa è stata aggiornata negli anni ’80 dello scorso secolo – senza modifiche sostanziali – dal Catechismo della Chiesa Cattolica, alla cui elaborazione ha contribuito l’allora Cardinale Ratzinger. Tale dottrina tende a conciliare – come avviene in tutte le religioni, con qualche eccezione per talune interpretazioni dei testi sacri dell’Islam – l’aspirazione all’amore e alla pace e la realtà della guerra. Padre Nieburg, consigliere spirituale di Morganthau, il grande politologo americano, avrebbe aggiunto “e la realtà del peccato originale”.
Nella dottrina della guerra giusta lo spirito profetico proprio del Cristianesimo è conciliato con il realismo politico. La sua espressione più “spinta” è stata espressa nella lettera pastorale del giugno 1982, inviata da Giovanni Paolo II alla sessione speciale dell’Assemblea dell’ONU sul disarmo. In essa, veniva affermava la liceità etica della dissuasione nucleare, in opposizione alla lettera “antinucleare” dei vescovi americani e a precisazione, almeno formale, di taluni principi della guerra giusta: la proporzionalità della violenza, la discriminazione fra combattenti e non combattenti, la giusta causa, la retta intenzione e la speranza di vittoria.
Come dimostrato dal gesuita padre O’Brien, della Georgetown University, e padre Joblin, dell’Università Gregoriana, la dottrina della guerra giusta non si discosta sostanzialmente da quella della “guerra limitata”, teorizzata da von Clausewitz e prima ancora da Aristotile. Il grande filosofo greco aveva affermato che “nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace che segue la guerra”.
Le dottrine di tutte le religioni sul ricorso alla forza va sempre contestualizzata. Nel Deuteronomio, quando Israele era circondato da deboli tribù, che venivano facilmente sconfitte, Dio è il Dio degli Eserciti. Poi, quando il Popolo Eletto dovette confrontarsi con potenti imperi – dal babilonese all’egiziano – la guerra divenne il “flagello di Dio”. Lo stesso è avvenuto nel Cristianesimo. Quando non fu più perseguitato, ma divenne religione dell’impero scomparve l’affermazione di “chi di spada ferisce di spada perisce”. Il legionario divenne il “Bonus Miles Christi”: quando disertava, non andava solo giustiziato, ma anche scomunicato. Violava, infatti, il dovere di solidarietà verso i propri concittadini. Nella dottrina della Chiesa, la “guerra giusta” ha fatto sempre parte della categoria teologica della “carità”, con l’eccezione del breve periodo della “cristianizzazione degli Indi”, cioè della colonizzazione spagnola e portoghese (ma non è molto simile alla “democratizzazione” dell’Islam, tentata da Bush jr?), in cui fu collocata in quella della “giustizia”.
Condannare la guerra in nome della pace, richiederebbe quindi sempre molta cautela, fermo restando che i principi di una guerra giusta (giusta causa, retta intenzione, ultimo ricorso, autorità legittima, proporzionalità, speranza di vittoria, discriminazione) mantengono piena validità. Sono praticamente quelli dello jus belli (nella sua duplice natura di jus ad bellum e di jus in bello, a cui è stato recentemente aggiunto da Michael Waltzer, lo jus post-bellum).
La Chiesa è oggi confrontata con le persecuzioni e le stragi dei cristiani, che avvengono proprio nelle regioni in cui il Cristianesimo si è inizialmente affermato. Il rappresentante del Vaticano alle Nazioni Unite l’ha detto chiaramente. E’ passato di moda il “porgere l’altra guancia”. Ormai solo pochi ripetono che gli eccidi vadano fermati senza usare la forza. Come lo si possa fare, è alquanto misterioso.
Accontentarsi di chiamare la guerra “operazione di pace” o di “polizia internazionale” non cambia nulla. Per fare la guerra basta uno solo; per la pace occorre essere in due. Entrambi i contendenti hanno sempre interesse ad arruolare la “giustizia” e “Dio” sotto le loro bandiere. Non è un caso che nessuno ha mai ammesso di combattere una guerra ingiusta. Chi decide di fare la guerra ha anche il potere di qualificarla come giusta. Valuta anche che i costi del non combattere siano superiori a quelli del combattere. D’altronde, come argutamente notò Lenin nelle sue “Notarelle su von Clausewitz”, chi inizia materialmente la guerra non è l’aggressore che sarebbe ben contento di raggiungere i propri obiettivi senza dover impiegare le armi. E’ il difensore che, non accettando la pace che gli vuole imporre l’avversario, gli spara contro. E’ un implicito invito, rivolto a chi vuole la pace, di comprendere la struttura e i meccanismi della guerra. L’adozione dei criteri propri del realismo politico è più morale che correre dietro alle fantasie degli idealisti a oltranza, persuasi che sia possibile l’eliminazione della guerra.
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