ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 7 luglio 2015

L'ascia di guerra

Matrimoni gay, l'ascia di guerra di Navajo e Cherokee
Pellerossa della tribù Navajo in Arizona
C’è un sinistro rincorrersi di paradossi nella società statunitense. La teoria del gender nasce e si sviluppa in ambienti razzisti mentre i suoi sostenitori accusano di razzismo gli avversari (clicca qui). E W.E.B. Du Bois (1868-1963), cofondatore dellaNational Association for the Advancement of Colored People, che è una sorta di sindacato di estrema sinistra (in termini americani) per i neri, si lasciò convincere da Margaret Sanger (1879-1966), la fondatrice razzista del più grande abortificio mondiale, la Planned Parenthood, del fatto che l’aborto sarebbe un vero toccasana economico e sociale soprattutto per quei neri che Du Bois diceva a parole di voler proteggere. Fortunatamente, invece, il paradosso che interessa i cosiddetti “indiani” degli Stati Uniti è di segno contrario.

Angariati, ghettizzati e perseguitati dai bianchi, ai bianchi gl’indiani non la mandano oggi a dire e, di fronte alla sentenza-golpe con cui il 26 giugno la Corte Suprema federale ha imposto al Paese la legalizzazione dei “matrimoni” omosessuali, fanno spallucce (clicca qui). Il paradosso sta nel fatto che per i quartieri altamente ideologizzati dell’opinione pubblica liberal gli unici indiani buoni devono essere per forza indiani ecologisti, terzomondisti, un po’ New Age e quindi ovviamente filo-Lgbt: apprendere invece che gl’indiani veri sono al contrario nemici dell’omosessualismo li scioccherà non poco.
La questione sta nel fatto che le leggi di due delle più vaste tribù d’indiani nordamericani, i Navajo e i Cherokee, ovvero circa 600mila persone, proibiscono le “nozze” gay. E che lo stesso stabiliscono i codici di altre nove tribù minori che contano in tutto 350mila membri. Quelle leggi indiane lo fanno implicitamente definendo il matrimonio come solo quello contratto tra un uomo e una donna oppure esplicitamente proibendo le unioni tra persone dello stesso sesso. E adesso che la Corte Suprema ha imposto a tutti gli Stati Uniti la legalità del “matrimonio” gay che ne sarà di queste leggi indiane? Niente, continueranno imperterrite a vietare le “nozze” omosessuali. Come esito delle annose e complicate trattative che li hanno nei decenni opposti ai bianchi, le 11 tribù in questione godono infatti di uno status particolare: sono nazioni sovrane, énclave dentro gli Stati Uniti, no-flight zone intoccabili, un po’ come della grandi San Marino nei confronti dell’Italia. 
Riconosciute a livello federale come totalmente autonome, le 11 tribù hanno quindi diritto a varare e a seguire leggi proprie, non essendo soggette alla Costituzione federale degli Stati Uniti. Secondo l’organizzazione Lgbt Freedom to Marry di New York vi sarebbero però almeno altre 10 tribù indiane che ammettono il “matrimonio” gay tra cui i Cheyenne dell’Oklahoma, gli Arapaho, gli Oneida. Numericamente sono però delle piccole minoranze, proprio come minoranze piccole, seppur assai potenti, sono gli Lgbt nel mondo: tutto rientra cioè perfettamente nelle statistiche. In più c’è poi una terza “zona grigia” composta da tribù le cui leggi sembrano sul punto essere neutrali; ma, appunto, sembrano. Perché le leggi di queste tribù terze usano esplicitamente espressioni come «marito e moglie», «un uomo e una donna», «maschio non sposato» e «femmina non sposata». 
Il Northern Cheyenne Uniform Marriage and Divorce Act (la legge dei Cheyenne del Montana), per esempio, definisce il matrimonio «una relazione personale tra un uomo e una donna che nasce da un contratto civile per il quale è essenziale il consenso delle parti» in cui gli sposi «si prendono l’un l’altra come marito e moglie». Negli Stati Uniti qualcuno si sta già domandando se ci sarà mai qualche Gay Pride di provocazione nei pressi delle riserve indiane giusto per vedere cosa ne pensano i pennuti Cheyenne del Montana o i nerboruti Cherokee che già andarono volontari con l’esercito “sudista”.

di Marco Respinti
07-07-2015

Mons. Mayé: gli africani apprezzano la dottrina sulla famiglia


chiesa africa“Sosteniamo l’opinione e la dottrina della Chiesa Cattolica sulla famiglia”, perchè “gli africani apprezzano molto il senso della famiglia secondo la dottrina della Chiesa”.
Ancora una volta è un vescovo a dire in modo chiaro quale potrà essere il ruolo della Chiesa d’Africa al prossimo Sinodo di ottobre. Si tratta di Mons. Juan Nsue Edjang Mayé, neo Arcivescovo di Malabo, che sottolinea come questa posizione non è solo “della Conferenza episcopale della Guinea equatoriale, ma anche di tutta l’Africa Centrale attraverso l’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Centrale”.
Lo ha dichiarato in un recente intervista concessa al portale Aciprensa, riprendendo un tema che era già emerso nella riunione che ai primi di giugno aveva visto impegnati 5 cardinali e 45 vescovi in quel di Accra (Ghana). Ma, d’altra parte, questo messaggio lo avevo già messo nero su bianco il Cardinale Sarah nel suo famoso libro intervista “Dieu ou rien”, realizzato dal giornalista francese Nicolas Diat. “Io”, ha detto il cardinale a Diat, “affermo solennemente che la Chiesa d’Africa si opporrà a ogni forma di ribellione contro il Magistero di Cristo e della Chiesa».
Mons. Mayé spiega ad Aciprensa che per gli africani il “senso della famiglia è molto forte.” “Non solo sono il padre e la madre, ma anche i bambini.”
“Oggi”, ha dichiarato, “ciò che conta di più per noi è fondare una famiglia profondamente cristiana”
Secondo il vescovo di Malabo sia il sinodo straordinario, che quello ordinario dell’ottobre 2015, hanno a tema sopratutto la necessità della trasmissione della fede nella famiglia e “la Santa Madre Chiesa ha molta dottrina su questo punto”.
“La Chiesa”, ha detto, “deve presentare al mondo, non solo ai giovani, il suo vero volto, che è bello, allegro, contento, pieno di vita, pieno dell’Amore di Dio”.
In Guinea “le chiese sono piene di giovani. Ma non succede quello che avviene in Europa con la secolarizzazione” e “per questo dobbiamo lavorare molto per evitare questo, perchè la fuga dei giovani dalla vita della Chiesa e dall’Amore di Dio non accada”.
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Letterina da Strasburgo sulle gay family, è la democrazia



L'Aula del Parlamento di Strasburgo (foto LaPresse)
Hai voglia, piccolo giornale, a lanciare un referendum democratico e nazionale sulle nozze gay (e hanno voglia anche quelli, a organizzare un Family day post atomico a San Giovanni, “a favore della famiglia naturale”). Poi, nell’èra tecnocratica e sovranazionale ti arriva una lettera dall’Europa, come si trattasse delle pensioni o del debito, come a dei greci qualsiasi.
Il Parlamento di Strasburgo ha approvato un rapporto sull’uguaglianza di genere in Europa in cui, per la prima volta, parla esplicitamente di “famiglie gay”. L’Assemblea che non prenderebbe atto manco del capovolgersi dei barconi “prende atto dell’evolversi della definizione di famiglia”. E democraticamente raccomanda che i paesi si adeguino e che le norme “tengano conto di fenomeni come le famiglie monoparentali e l’omogenitorialità lgbt”.

ARTICOLI CORRELATI Chi c’è e chi non c’è al nuovo Family day contro gender e nozze gay Desiderabile Concita De Gregorio, prima di gettarsi via col gender faccia due chiacchiere con l’animaccia di Pasolini “Dovremmo bruciare i gay?” E se volessimo le nozze gay solo per essere infelici come tutti? L'ipocrisia di non chiamarlo matrimonio omosessuale Ragioni per cui vale la pena di discutere del referendum sulle nozze gayIl tutto in una risoluzione in cui si va dai diritti delle donne disabili ai migranti, dalle minoranze etniche alle donne anziane, dai Rom alle madri single. Che è un po’ come farne una questione razziale, ma pazienza. Relazione non vincolante, certo (del resto 341 sì, 281 no e 81 che si astengono come una minoranza del Pd non è un voto bulgaro). Ma lasciare che i singoli stati “tengano conto dei fenomeni” in base alla propria cultura e storia, senza inchinarsi alle maggioranze di Strasburgo, avrebbe un sapore più liberale (martedì lo stesso Europarlamento ha rinviato il voto sul Ttip, forse non sapendo di cosa prendere atto. Ma lì ballano i quattrini, non le persone).
di Maurizio Crippa | 09 Giugno 2015

Ora la Costituzione protegge il tuo diritto all’amore e abbatte il matrimonio

Ovviamente la decisione della Corte suprema americana sul matrimonio omosessuale come diritto universale di cittadinanza è molto più importante della nuova ondata di guerriglia islamista contro l’occidente
di Giuliano Ferrara | 28 Giugno 2015 
foto LaPresse
Ovviamente la decisione della Corte suprema americana sul matrimonio omosessuale come diritto universale di cittadinanza è molto più importante della nuova ondata di guerriglia islamista contro l’occidente. Per la guerriglia jihadista, si sa, faremo funerali pomposi delle vittime, proclameremo con fermezza la volontà di combattere il terrorismo, e le alte autorità diranno che l’islam con queste violenze c’entra niente. Dunque è una routine, come per i vignettisti e tutti gli altri, alla quale dovremo abituarci: ci fanno guerra, e noi rispondiamo con una penosa dissimulazione, nello stile di un complesso di tribù, quelle occidentali, che ha smarrito completamente il senso di sé, e del proprio sé ha perfino paura. Chiuso. Vedremo che cosa fare e pensare nel prossimo inevitabile capitolo.
Forse c’è un nesso. Ci colpiscono mentre stiamo a prendere il sole in costume, e nel giorno in cui difendiamo al massimo livello, con una sentenza che fa epoca, il nostro cuore sentimentale, e vince l’amore come diritto; e ci colpiscono in nome della loro concezione del sacro come dovere: c’è una dissimmetria che parla chiaro, e non a nostro vantaggio, trattandosi di una guerra in cui un dio, il dio dell’islam, si scatena contro la civiltà matura, e piuttosto decadente, della cultura Lgbt o gender culture.
Andiamo al dunque, allora. Che cosa abbiamo fatto con questa sentenza Obergefell v. Hodges del fatidico giugno 2015 (ratifica costituzionale come diritto non negoziabile delle nozze omosessuali)? Quei cinque giudici americani sono la maggioranza di una corte carismatica, che ha storicamente liberato i neri dai residui segregazionisti di una storia razzista, che ha liberato le donne da un apparato odioso di discriminazione sessista, che ha dato il calcio d’avvio, con la decisione Roe v. Wade (1973), all’annientamento legale, come questione di privacy personale, di un miliardo e qualche centinaio di milioni di bambini concepiti, cresciuti nel seno delle gestanti e poi abortiti per le più varie ragioni, non escluse quelle eugenetiche. Un bagaglio di decisioni molto importante e di controverso segno, quindi.
La decisione della Corte, come ha sottolineato senza saperlo il presidente Obama in un tripudio di demagogico pride arcobaleno, Casa Bianca compresa, “stabilisce ciò che milioni di americani già credono nei loro cuori”. Non c’è distinzione tra credere e sentire, tra elaborazione razionale di un concetto e motivazione sentimentale di un impulso, quale ne sia la natura (in questo caso una loving coalition di buone intenzioni egualitarie). La sede dell’intelletto è la testa, ma fa niente, prendiamo le nostre decisioni sui diritti con il cuore, sul presupposto popolare del cuore censito dai sondaggi. Una versione originale della democrazia liberale.
Per far questo i cinque della maggioranza, trascinati da Anthony Kennedy, si sono appellati al quattordicesimo emendamento, un testo costituzionale che aiutò a stabilire a metà Ottocento, dopo le tempeste della guerra di secessione contro la schiavitù, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge in tutti gli Stati dell’Unione, il loro diritto a una “protezione eguale” e a non essere molestati legalmente nella loro libertà, vita e proprietà senza un giusto processo giurisdizionale. Per ottenere la massima potenza simbolica, nonostante non abbia niente a che fare con la questione, la maggioranza della Corte ha fatto appello a uno dei pilastri della libertà e del senso di eguaglianza contenuto nelle varie redazioni della Costituzione americana e del Bill of Rights. Tutti infatti capiscono, ma non con il cuore, che l’eguaglianza dei diritti ha, nel caso del matrimonio, il limite intrinseco, oggettivo, invalicabile, del carattere stesso del matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna aperto alla filiazione. Abbattere questo limite ti può far sentire buono e comprensivo verso un desiderio, ma non è altro che uno snaturamento, per di più attraverso una via legale e non legislativa, non prodotto di sovranità diretta o indiretta, di un’istituzione antica quanto il mondo. E’ una responsabilità verso la storia umana che ha un suo quid, un suo perché intuibile attraverso l’uso della ragione. Ci sono altri modi possibili per affermare diritti alla stabilità nella vita di coppie omosessuali, che non siano il siluramento del carattere del matrimonio civile.
Ma l’obiettivo era quello. Offrire alla gender culture, che minaccia di rifare il mondo da capo e non si capisce bene se nella direzione giusta, il massimo omaggio e definitivo nel campo occidentale: quello della Costituzione americana, la più antica e autorevole, tracciando un solco unico e profondo che conduce dalla lotta alla schiavitù, e dalla definizione egualitaria sacrosanta degli esseri umani come prodotti da uno stesso Creatore con gli stessi diritti, alle nozze gay e alla filiazione artificiale su vasta scala (con annesse schiavitù di nuovo tipo, a partire dall’utero in affitto).
Il capo della Corte Roberts, che è finito in minoranza, ha detto con senso pratico e minimalista, ma efficace: “Potete celebrare il raggiungimento di uno scopo. Potete celebrare l’opportunità di una nuova espressione dell’impegno verso un partner. Potete celebrare la disponibilità di nuovi ammortizzatori sociali. Ma guardate di non celebrare la Costituzione. Non ha nulla a che fare con questa decisione”.
Più duro e ideologico, Antonin Scalia ha aggiunto nella sua dissenting opinion: “Abbiamo invalidato le leggi matrimoniali di metà degli Stati dell’Unione e abbiamo trasformato una istituzione sociale che è stata la base della società umana nei millenni per i Boscimani dell’Africa meridionale come per gli Han della Cina, per i Cartaginesi e gli Aztechi. Mi domando: ma chi ci crediamo di essere?”.
Non è difficile capire che solo un accesso orgoglioso (pride) di follia del cuore poteva far tanto girare la testa ai cinque giudici della maggioranza della Corte, con una decisione in nome della maggioranza sentimentale che avrà conseguenze storiche molto poco sentimentali.


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