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domenica 2 agosto 2015

Il prossimo beato modernista

Se Lutero si traveste da santo e dottore ....

Nella memoria liturgica dei SS. Nazario e Celso, martiri, 
rilancio quest’interessante studio ricevuto:


Se Lutero si traveste da santo e dottore

di Gaetano Masciullo

Il pensiero agostiniano è stato di importanza capitale per lo sviluppo della teologia cristiana nei primi secoli, sia per difendere l’ortodossia dalle numerose e perniciose eresie che volevano introdurre “novità” nel pensiero cristiano (si pensi alle battaglie teologiche che Agostino rivolse contro manichei, pelagiani, donatisti, semipelagiani…), sia per approfondire meglio alcuni dogmi, come quello della Trinità.
Sant’Agostino di Ippona si avvalse ben presto del titolo, riconosciutogli dalla Chiesa, di Dottore, cioè di autorità indiscussa in teologia, e difatti fece scuola per buona parte del medioevo cristiano, fino a quando non prevalsero l’aristotelismo e la scolastica di san Tommaso d’Aquino.
Tuttavia, soprattutto a partire dal XX secolo, è prevalsa in ambito accademico una corrente esegetica del pensiero agostiniano in verità erronea, che non rende giustizia alle originarie intenzioni del santo vescovo di Ippona.
In particolare, Odilo Rottmanner (1841-1907) con la sua opera Agostinismo (1892) affermò che il pensiero di sant’Agostino è da ricondurre fondamentalmente alla “dottrina della predestinazione incondizionata e della volontà salvifica particolare che sant’Agostino ha perfezionato di preferenza nell’ultimo periodo della sua vita”, cioè dal 418 in poi. In cosa consisterebbe dunque questa dottrina?  Tutti gli uomini nascerebbero peccatori e meritevoli della dannazione, a causa del peccato originale, ma Dio sceglierebbe per un atto di misericordia proveniente esclusivamente dalla sua volontà (detta per questo volontà salvifica) chi sottrarre a questa inevitabile e giusta condanna. Da parte degli eletti, cioè dei predestinati alla salvezza, non ci sarebbe alcun merito, sia per quanto riguarda la fede (che è dono esclusivo della grazia divina) sia per quanto riguarda le opere, che sono conseguenze della fede. Dio dunque non vorrebbe salvare tutti gli uomini, ma solo pochi eletti: per questo motivo la volontà salvifica di Dio sarebbe particolare, non universale. Lo scandalo del cristianesimo non consiste nel fatto che la maggioranza degli uomini si dannino, ma nel fatto che pochi riescano a salvarsi. La salvezza degli eletti è un dono gratuito di Dio, assolutamente immeritato.
A questo punto ci chiediamo: questa tesi della predestinazione così esposta non ci ricorda forse la tesi di un altro teologo, vissuto molti anni dopo sant’Agostino? Non furono forse Martin Lutero e Calvino ad affermare che Dio salva per sola grazia pochissimi uomini da lui eletti e che l’uomo senza la grazia è inevitabilmente condannato a compiere il male? Non fu forse Giansenio a muovere contro s. Agostino le stesse accuse dei pelagiani, ormai mutate in lodi? Dunque, Lutero non avrebbe “radicalizzato il pensiero agostiniano”, come si è soliti dire, ma al contrario avrebbe semplicemente ribadito quanto s. Agostino insegnò nelle sue opere. Ma allora, ci chiediamo, perché uno è stato proclamato santo e dottore e l’altro condannato come eresiarca e rivoluzionario contro Dio? Evidentemente, i conti non tornano.
Secondo l’esegesi di Rottmanner, per sant’Agostino la libertà dell’uomo non esiste, se non nei limiti della perseveranza che l’uomo adopera per rimanere nella grazia divina e quindi per conservare la fede donatagli. Padre Agostino Trapé (1915-1987), priore generale dell’Ordine agostiniano, difese a spada tratta la corretta esegesi del pensiero del vescovo ipponate dalle strumentalizzazioni moderniste e “protestantizzanti”. Egli, in un articolo pubblicato nel 1963 sulla rivista Divinitas, dal titolo A proposito di predestinazione: S. Agostino e i suoi critici moderni, scrive: “Si sa quali critiche e quali accuse suscitasse a suo tempo questa dottrina da parte dei pelagiani. Possiamo ridurle a quattro capi, tutti e quattro gravissimi. L'agostinismo - dicevano - nega il libero arbitrio, nega che il battesimo rimetta il peccato originale, proclama il fatalismo, e riduce il pensiero cristiano al manicheismo. S. Agostino rispose, dimostrò l'infondatezza, anzi la malafede, di quelle accuse e ribadì, chiarendola, la sua dottrina. L'agostinismo trionfò. La Chiesa riconobbe come valida, nelle linee essenziali, quella difesa e annoverò il vescovo d'Ippona tra i suoi maestri migliori: inter magistros optimos. Le accuse, anche quelle mosse dai semipelagiani, non tardarono a cadere, ed i teologi, da allora in poi, guardarono a S. Agostino come al Dottore della grazia, la cui autorità era venerabile presso tutti. Con il protestantesimo e con il giansenismo quelle accuse si trasformarono in lodi, lodi non vere, che la Chiesa respinse e S. Agostino aveva respinto ante litteram. Oggi, qua e là, si preferisce tornare alle accuse. Di tanto in tanto, infatti, si propongono interpretazioni di S. Agostino che sono molto vicine, quando non siano proprio identiche, a quelle che ne davano i pelagiani; e non solo da parte dei razionalisti, che fanno del vescovo d'Ippona - com'è noto - il creatore dei dommi del peccato originale e della grazia, ma anche - e la cosa riveste un carattere di particolare gravità - da parte di studiosi cattolici”.
Sant’Agostino fu per secoli chiamato Doctor Gratiae et Libertatis. Per il santo vescovo il rapporto tra libertà e grazia non si trasforma in un dilemma, in una scelta esclusiva tra le due, ma in un binomio, una coesistenza. La grazia non annulla la libertà umana, né la libertà umana annulla la libertà divina, che si manifesta appunto nella grazia. San Tommaso d’Aquino bene spiega nell’opera Contra errores graecorum il motivo per il quale alcune opere dei Padri della Chiesa possano sembrare ambigue (come ambiguo potrebbe sembrare, ad una superficiale lettura, il pensiero di s. Agostino sul rapporto tra libertà e grazia): “Ci sono, a mio avviso, due ragioni per cui alcune affermazioni degli antichi Padri Greci risultano ambigue se paragonate alle nostre contemporanee. Primo, perché una volta che gli errori riguardanti la fede si manifestavano, i santi Dottori della Chiesa divenivano più circospetti nel modo di esporre i punti della fede, così da escludere tali errori. È chiaro, per esempio, che i Dottori che sono vissuti prima dell’eresia ariana non parlavano così espressamente dell’unità dell’essenza divina come hanno fatto invece i Dottori successivi. E lo stesso si è verificato nel caso di altri errori. Ciò è abbastanza evidente non solo riguardo ai Dottori in generale, ma anche riguardo ad un Dottore in particolare, Agostino. Nei libri che questi pubblicò dopo l’ascesa dell’eresia pelagiana, si parla molto più cautamente della libertà della volontà umana rispetto a quanto se ne parla nei libri pubblicati prima dell’ascesa di tale eresia. In queste prime opere, mentre Agostino difendeva il concetto di volontà contro i manichei, egli ha adoperato affermazioni che i pelagiani, che rigettavano la grazia divina, hanno poi usato in supporto ai propri errori”.
Qual era dunque il pensiero, pienamente cattolico, di sant’Agostino?
Già i pelagiani accusarono s. Agostino di aver sostenuto che il libero arbitrio è perito nell’uomo con il peccato di Adamo, ma lo stesso s. Agostino risponde: “Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal genere umano il libero arbitrio? Certo per il peccato sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme all'immortalità. Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Contro le due lettere dei pelagiani, I, 2.5). Si va dunque delineando una differenza fondamentale per il pensiero agostiniano tra libertà intesa come libero arbitrio, che è il mezzo della vita umana, e la libertà vera, ossia ilfine della vita umana, che è la libertà di aderire pienamente alla verità e di fare il bene. Quest’ultimo tipo di libertà era presente prima del peccato originale (S. Agostino la definisce con la formula posse non peccare, ossia “poter non peccare”) e sarà confermata nell’eternità del paradiso (definita con la formula non posse peccare, ossia “non poter peccare”). La realtà attuale, intermedia, successiva al peccato originale e alla redenzione, ma antecedente al giudizio personale ed universale, non è priva del libero arbitrio, ma della libertà come sopra intesa. Tuttavia, ciò non impedisce all’uomo di cercare la verità ed il bene. Qui interviene la grazia, ossia l’azione gratuita di Dio che sopperisce alle mancanze della “giustizia piena ed immortalità”, presenti nell’eden. Con la grazia l’uomo si santifica (gratia gratum faciens, dirà san Tommaso successivamente), nonostante le imperfezioni psico-fisiche, conseguenze della caduta dei progenitori. Il primo ed importante dono che Dio fa dunque all’uomo è la fede. In seguito, il battesimo e i sacramenti in generale, che sono i mezzi ordinari con cui la grazia divina agisce nell’uomo. “Ripeto che nessuno fu o può essere giusto se non è giustificato dalla grazia di Dio per mezzo di N. S. Gesù Cristo, e questo crocifisso. Difatti la stessa fede, che ha salvato i giusti nell'antichità, salva anche noi, la fede nel Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, la fede nel suo sangue, la fede nella sua croce, la fede nella sua morte, la fede nella sua resurrezione. Avendo dunque lo stesso spirito di fede, anche noi crediamo, ed è per questo che parliamo”, scrive s. Agostino in De natura et gratia, 44,51. 
Ma Dio conosce dall’eternità chi intraprende questo cammino di redenzione e si salva e chi rimane reprobo e si danna (prescienza)? Oppure egli stesso, da sé, decide dall’eternità, senza il consenso dell’uomo, chi salvare, riducendo il numero degli eletti a pochissimi? In quest’ultimo caso, Dio non vorrebbe la salvezza di tutti gli uomini, ma solo di una ristrettaèlite.
Per comprendere bene il pensiero agostiniano riguardo al peccato originale e alla giustificazione bisogna metterlo a confronto con quanto sostenevano pelagiani e semipelagiani.
Agostino schiaccia Pelagio,
Katholische Pfarrkirche Maria Rosenkranzkönigin,
Schretzheim
Pelagio affermava che il peccato originale colpì solamente Adamo e che non è trasmesso biologicamente a tutti gli uomini. Pertanto il battesimo non cancella il peccato originale, ma semplicemente ammette nella Chiesa. Da qui la polemica che i pelagiani mossero contro sant’Agostino sulla necessità del battesimo per i bambini e sul destino dei bambini morti senza di esso. Pelagio affermava che i bambini morti senza battesimo si salvano in quanto privi di qualsivoglia peccato, sia originale sia personale, ma sant’Agostino obiettava che i bambini morti senza battesimo non possono salvarsi, in quanto il peccato originale ha definitivamente rotto il legame tra l’uomo e Dio, legame ricostituito dal sacrificio di Cristo, che pertanto è Salvatore dell’umanità, anche dei bambini. “Non può appartenere a Cristo – scrive il santo Dottore – chi non ha bisogno di essere salvato”. L’uomo da sé liberamente decide se credere in Dio e può salvarsi anche fuori dalla Chiesa, compiendo opere buone.
Giovanni Cassiano e i monaci provenzali, iniziatori del semipelagianesimo, per conciliare Agostino e Pelagio, affermavano che l’uomo liberamente sceglie se credere e dunque l’inizio della fede e della giustificazione non esige il dono della grazia, così la perseveranza finale è frutto delle opere dell’uomo. La grazia divina serve a sostenere l’uomo in questo cammino, dal momento in cui l’uomo aderisce alla fede fino a quando muore. Analogamente a quanto sostenuto da Pelagio, il peccato originale colpì solamente Adamo e i bambini morti senza battesimo si salvano egualmente.
Sant’Agostino, Dottore della grazia e della libertà, sosteneva che il peccato originale è trasmesso biologicamente da Adamo a tutti gli uomini. Dunque sono trasmesse sia la colpa sia le conseguenze spirituali (impossibilità di accedere in paradiso dopo la morte) e temporali (mortalità, caducità, propensione al vizio) del peccato originale. Per cancellare la colpa e le conseguenze spirituali del peccato originale è necessario il battesimo, che attua i meriti della redenzione di Cristo salvatore, ma rimangono le conseguenze temporali. L’uomo da sé sceglie con il libero arbitrio se cercare o meno la verità e dunque il bene, ma la fede (ossia l’adesione ai meriti del sacrificio di Cristo che redime) e dunque l’inizio della giustificazione, così come la perseveranza finale, sono doni gratuiti di Dio, che si ottengono con la preghiera propria o altrui. Del resto, lo stesso sant’Agostino diede il merito della propria conversione alle preghiere e alle lacrime della madre, santa Monica. I meriti personali accrescono la grazia. Dio predestina alla salvezza coloro che liberamente aderiscono alla Chiesa, ricevono da Dio la fede e accrescono i meriti per grazia. Dio vuole la salvezza di tutto il genere umano, ma condanna coloro che ostinatamente perseguono il male.
Martin Lutero e Calvino ripresero le accuse di Pelagio e dei semipelagiani, tramutandole in lodi. Vi fu dunque una errata esegesi del pensiero di sant’Agostino, oggi tornato in voga presso alcuni autori. Per costoro, la fede è dono di Dio e i meriti personali non esistono. Senza il battesimo, tutti sono inevitabilmente condannati all’inferno. Dio ha già predestinato dall’eternità il numero di coloro che si salveranno, condannando il resto degli uomini. Il libero arbitrio non esiste, che è servo del peccato originale. Ma già dal V secolo, il prete Lucido della Gallia meridionale, credendo di seguire la dottrina di sant’Agostino, giunge a sostenere che “Cristo, Signore e Salvatore nostro, non è morto per la salvezza di tutti” e che “la prescienza di Dio spinge l’uomo violentemente verso la morte, e chiunque si perde, si perde per volontà di Dio”. Ma questa tesi fu confutata da san Fausto di Riez, discepolo dello stesso Dottore, e condannata dai concili di Arles (473, 574), ricondannata al II concilio di Orange (529) e dal papa Adriano I (785/791).
Gli errori di Pelagio furono condannati da papi e concili (cfr. DS 222, 238, 371, 1520, 2616), gli errori dei semipelagiani dal II concilio di Orange (529), gli errori dei protestanti dal concilio di Trento (1545-1563).
http://www.scuolaecclesiamater.org/2015/07/se-lutero-si-traveste-da-santo-e-dottore.html

LUTERO E POPOLO TEDESCO

    Lutero ha cristianizzato il popolo tedesco ma al prezzo di germanizzare il cristianesimo. L’opera di Lutero era inevitabile o quanto meno necessaria per realizzare pienamente la fusione tra cristianesimo e germanesimo di Francesco Lamendola


Lutero ha cristianizzato il popolo tedesco, ma al prezzo di germanizzare il cristianesimo

di

Francesco Lamendola


Forse la storia della cosiddetta Riforma luterana – che è stata, in realtà, una rivoluzione: più precisamente, una rivoluzione conservatrice – se si smettesse di considerare Lutero come, appunto, essenzialmente un riformatore religioso, e lo si vedesse, una volta per tutte, sotto la dimensione fondamentale del nazionalismo tedesco. Lutero è stato colui che ha germanizzato il cristianesimo e che, per poterlo fare, ha contribuito - forse più di chiunque altro - a cristianizzare il popolo tedesco, rompendo per sempre il fondo pre-cristiano, pagano, della sua anima. E questo, sotto la spinta di un bisogno che era più di natura psicologica, anzi psicopatologica, che religiosa: il senso terrorizzante della solitudine dell’uomo, della sua impotenza, della sua abiezione radicale e irrimediabile. Per soccorrere un uomo così, totalmente solo e disperato, ci voleva un Dio che fosse costruito in proporzione: duro, incomprensibile, lontanissimo; donde il ritorno all’Antico Testamento e la rottura deliberata con la cultura umanistico-rinascimentale, pur sempre fiduciosa nella capacità dell’uomo di prende in mano il proprio destino: si pensi soltanto alla polemica sul libero arbitrio fra Lutero ed Erasmo da Rotterdam.
D’altra parte, per germanizzare il cristianesimo, ossia per riportarlo alla sua dimensione tedesca, anti-rinascimentale, duramente agostiniana,  bisognava recidere i legami con la teologia cattolica delle opere: Dio è tutto, l’uomo è niente; non ci si salva che con la fede; ma la fede è dono gratuito di Dio, dunque non ci si salva se non è Dio a salvare. Ed ecco, inevitabile, il ritorno al fondo pagano dell’anima tedesca: il destino, qui nella versione della predestinazione divina, riprende il suo posto centrale nell’antropologia e consegna l’uomo alla prospettiva di una eterna dannazione o di una eterna salvezza che non dipendono da lui, dunque lo restituisce a quell’angoscia e a quella disperazione da cui aveva preso le mosse la “riforma” luterana. Corto circuito che mostra come non sia possibile restituire all’uomo il senso del suo destino, se quel Destino gli è sottratto e messo nelle mani di un Dio corrucciato e imprevedibile. Si perde, qui, il senso più profondo di quella cristologia paolina, cui pure Lutero continuamente si richiama: l’uomo non è più figlio di Dio, torna ad essere servo e anche meno di un servo, perché a un servo non si spiega quali siano le intenzioni del padrone, ma a un figlio sì.
Non solo. Con Lutero trionfa, si fa per dire, l’individualismo moderno, perché l’uomo di Lutero non è solamente un uomo disperato, è anche un uomo solo, incapace di relazionarsi armoniosamente e serenamente con i propri simili: è chiuso e sepolto nella propria disperazione che lo isola, lo acceca, lo separa dal consorzio umano e lo spinge verso Dio, non già per incontrarvi il suo prossimo (che di fatto non esiste, perché non lo vede), ma solo e unicamente per cercare e trovare protezione contro l’urlo della sua sconfinata angoscia e della sua devastante disperazione, che lo spingerebbe al suicidio, se solo non avesse una paura troppo grande di finire tra le fiamme dell’inferno. Eppure il Dio che lo salva, se pure lo salva, non appare sotto la veste della misericordia, ma, ancora e sempre, sotto le spoglie di un padrone accigliato e terribile, che è impossibile soddisfare e rabbonire, per quanto il figlio ce la metta tutta per adeguarsi alla sua volontà.
Si potrebbe anzi spingere il discorso ancora più lontano e vedere nella psicanalisi di Freud, questo ebreo tedesco che non crede più in alcun Dio, né quello dei suoi padri, né quello dei cristiani, ma che si porta dietro un immenso senso di colpa per averlo, nietzschianamente, “ucciso”, una versione aggiornata e corretta del luteranesimo: anche qui un Dio che è un padre-padrone, onnipotente e incomprensibile; anche qui un figlio sbigottito e terrorizzato, in preda ad un’angoscia immedicabile; anche qui un vicolo cieco, un male peggiore di quello da cui si voleva uscire: perché l’Inconscio è un Dio ancora più tremendo e ancora più incomprensibile di quello di Lutero, e perché all’uomo non si offre una vera e propria redenzione, ma solo un surrogato insoddisfacente di essa, vale a dire una “guarigione” che coincide, in ultima analisi, con l’accettazione della nevrosi cronica, pena l’orrore di precipitare nell’Inferno della “barbarie” degli istinti scatenati. E allora non è un caso, forse, che il nuovo Verbo freudiano abbia fatto la sua comparsa, ed abbia mietuto i suoi primi, trionfali successi, nel contesto della cultura germanica e non, poniamo, di quella italiana, o francese, o spagnola.
Ci sembrano particolarmente acute le osservazioni svolte dal germanista Alberto Krali, docente di Lingua tedesca presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università cattolica del Sacro cuore di Milano (A. Krali, «L’uomo solare e le tenebre del Nord», in: «Il nuovo Areopago», rivista trimestrale di cultura, Bologna, n. 4 del 1983, pp. 25-7):

«Non già un Dio a misura d’uomo, ma un Dio in funzione dell’uomo sta a segnare in modo incontrovertibile il passaggio, con Eriugena, dal cristianesimo mediterraneo a quello nordico-germanico e questo, per la prima volta, in modo così esplicito. È qui da riscontrarsi il principio spirituale dell’individualismo moderno che avrà la sua consacrazione in Lutero.Egli non può certo considerarsi un “moderno” e tanto meno un riformatore, ché il suo intento era restauratore diciamo conservatore, ma egli si trova a rendere manifesto ciò che a partire da Eriugena e fors’anche prima era il problema principale del cristianesimo nel centro e nord d’Europa: per l’appunto la sua identità germanica.  Con Lutero ha preso coscienza ed è diventato realtà non solo religiosa  ma politica ciò che per mille anni aveva dovuto nascondersi nelle pieghe di un cristianesimo estraneo alla tradizione  ed ai costumi germanici. Possiamo dire che egli ha cristianizzato in senso pieno il popolo germanico, riportando l’unione là dove vi era frattura, conciliando la predicazione del Vecchio e del Nuovo Testamento con la sensibilità di un credente sempre più cosciente della sua diversità culturale dal modello imposto da Roma.
Ha portato a compimento quel processo di fusione tra religiosità germanica, cultura non scritta e messaggio evangelico che al cattolicesimo romano non era mai riuscito, ma l’ha fatto ovviamente da tedesco. L’uomo di Lutero  è un uomo disperato. Gli fa paura la sua tremenda solitudine.  La vita gli appare troppo crudele perché egli possa vedere un Dio consolatore,  un Dio soprattutto vicino. Al contrario gli appare onnipotente, incommensurabile, tanto grande da divenire irraggiungibile. Nella lontananza di questo Dio, che non comunica, l’uomo è costretto a porsi al centro del mondo. L’inintelligibilità del suo creatore lo esenta dal dare significazione alla sua volontà suprema e quindi lo esime dall’avere certezza della propria salvezza. Tutto si consuma  nel presente, in un presente tragico, perché demandato alle sole forze umane, dove all’uomo non resta che il timore servile verso il Padre. Ciò che Dio deciderà dell’uomo non è dell’uomo.
Precetti morali e meditazioni speculative finiscono per essere inutili fardelli ad una vita che si intende  solo come espressione di un sincero sentire. In questa dimensione l’uomo luterano si sente libero di dar corso alle forze vitali  che lo pervadono, senza doversi continuamente domandare se vadano represse o mitigate in nome di un ordine morale superiore. L’unitarietà tra sentire ed operare viene così riaffermata  e con essa la convinzione che il dato concerto sia unica diretta espressione della totalità della persona umana.
Poiché l’uomo non è in grado di stabilire l’intensità e la sincerità del sentimento altrui, tutto viene demandato alla coscienza individuale e quindi interiorizzato. Solo l’azione resta l’unico strumento di valutazione certo, perché verificabile coi sensi, dell’operato umano. La dignità è misurata nell’azione, perché in essa si racchiude l’essenza di valori altrimenti non immediatamente riscontrabili. L’assenza di una misericordia divina che già su questa terra possa lenire il dolore dell’uomo fa sì che tutto trovi realizzazione nella giustizia umana. A queste condizioni la dimensione del giusto non è espressione di una intenzionalità  e quindi di una valutazione della persona umana in funzione anche trascendente, ma frutto diretto  di fatti concreti. Essi e solo essi sono gli strumenti di valutazione di una realtà che altrimenti appare sfuggevole e incomprensibile.
È indubbiamente merito di Lutero aver dato riscontro palese a questa dimensione della spiritualità tedesca e a questo è da attribuirsi la repentina e  assolutamente imprevista diffusione del suo pensiero sul suolo germanico sin dagli inizi della sua opera.»

In questo senso, precisamente, abbiamo iniziato la presente riflessione, sostenendo che la figura e l’opera di Lutero hanno primariamente a che fare con la dimensione del nazionalismo tedesco, e solo di riflesso con l’ambito religioso e spirituale; anche se è in quell’ambito che egli ha ottenuto i suoi successi più spettacolari, grazie ai quali si è conquistato un posto ragguardevole nella storia europea.
Tuttavia, a differenza di Alberto Krali, noi pensiamo che la dimensione “politica” della riforma di Lutero non consista semplicemente nell’aver germanizzato il cristianesimo, ma anche e soprattutto nell’aver dato, in quest’ultimo, espressione teologica a un tipico atteggiamento dell’anima tedesca nei confronti del reale: l’abitudine all’autoaffermazione e all’autosufficienza, che, nella psicologia di milioni d’individui, coincide, a un dipresso, con il non aspettarsi mai alcun aiuto dall’altro, per nessun motivo, e nell’andare incontro al proprio destino, eventualmente anche alla disfatta, in perfetta solitudine, senza attendersi (e, naturalmente, senza concedere) quartiere. Se la vita è una lotta, ebbene questa lotta bisogna combatterla da soli, senza sconti.
L’altra radicata abitudine mentale tedesca, quella di lasciarsi inquadrare e di procedere in gruppo, quasi annullando la propria individualità, essendo più visibile e più sconcertante per lo spirito non tedesco, è quella che ha maggiormente richiamato l’attenzione su di sé, anche per le sue implicazioni etiche nel rapporto fra società e persona, fra legge dello stato e legge della coscienza. Però, a ben guardare, essa non è che il rovescio della medaglia di quella: il tedesco, quando è impegnato nell’esercizio del proprio dovere, o anche, semplicemente, quando si batte per affermare i suoi obiettivi personali, non pensa, né crede, che la cosa si possa risolvere senza che una delle due parti in conflitto, vale a dire se stesso e il suo antagonista, chiunque egli sia, possa essere stata pienamente debellata, lasciando intero campo libero al vincitore. E tutto questo è pagano, ricorda la mitologia germanica e le ferali passioni dei Nibelunghi, la vendetta spietata e lungamente accarezzata di Crimilde; ricorda il Crepuscolo degli dèi e il “vivere pericolosamente” di Nietzsche. Non è cristiano, e tanto meno cattolico.
Il cristiano sa e confida che qualunque cosa accada, e specialmente quando è impegnato in una lotta la cui posta è la salvezza non solo del corpo, ma dell’anima, egli non si troverà mai del tutto solo e abbandonato a se stesso; sa di poter contare sull’aiuto di Dio, padre amorevole che viene incontro al figlio smarrito, al peccatore, al disperato. Se Lutero avesse considerato bene tale aspetto dell’onnipotenza divina, cioè la misericordia, sarebbe stato egli stesso più misericordioso con i suoi antagonisti: volta a volta il papa, il clero, i contadini ribelli, gli ebrei, gli umanisti, i riformatori cattolici: verso i quali, viceversa, non manifesta altro che la più viva ripugnanza ed il più acre e sguaiato disprezzo. Lutero non conosce la pietà, perché, da tedesco, non chiede e non si aspetta misericordia: probabilmente fu lui stesso il primo a meravigliarsi di non esser finito sul rogo, quand’era in potere dell’imperatore Carlo V; da parte sua, non avrebbe mai commesso un simile “errore” nei confronti dei suoi nemici.
Forse l’opera di Lutero era inevitabile, o, quanto meno, necessaria, per realizzare pienamente la fusione tra cristianesimo e germanesimo, che, in quasi mille anni, non era stata ancora completata. È impossibile immaginare un Lutero italiano, spagnolo, francese (lo stesso Calvino è più fine, più ponderato, anche se non meno inesorabile davanti ai nemici): la Germania, che si era cristianizzata solo superficialmente, aveva bisogno di un uomo come Lutero, che la cristianizzasse a fondo, e sia pure al prezzo di germanizzare Cristo. Le differenze teologiche fra cattolicesimo e protestantesimo sono la conseguenza delle differenze culturali e spirituali fra mondo latino e mondo tedesco: una rivolta “antropologica” dell’uomo del Nord contro la civiltà del Mediterraneo (che era, in quel momento, la civiltà del Rinascimento) si è vestita di pretesti religiosi, mediante un frate agostiniano.

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